Focus Storia Collection 2015 02 Estate

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Estate 2015 € 7,90

Sped. in A. P. - D.L. 353/03 art. 1, comma 1 NE/VR

CONTRO I i galli di ve ercingetorige etJDFM MUJti pit tti, terro ore e dell la scoziatMFMFHJP POJQFS SEV VUF FBU UFV VUPC CVSHP P tar rriv van no i vandali tM MBTDP POG GJUU UBE EJB BUUJM MBttadr ria ano opol li: l’’iniz zio o EFMMBGJOFtJHPU UJTJJQS SFOE EPOPMJU UBMJB BtEB BMMBM MJOHV VBB BJ QBOUBMPOJRVFMMPDIFD DJIBO OOPMBTD DJB BUP PHMJJOW WBT TPSJ

SCOPRIRE IL PASSATO, CAPIRE IL PRESENTE.

Fin dai tempi della Bibbia il tradimento è l’infamia più grande, in questo numero Focus Storia racconta le vite e i destini dei voltagabbana di ogni epoca: da Caino a Giuda, da Cesare Battisti a Caterina di Russia. E inoltre: Madame Tussaud, signora delle cere, i padiglioni delle passate Esposizioni Universali, la storia del mare Adriatico, la Belle Époque, Waterloo 200 anni dopo.

FOCUS STORIA. OGNI MESE LO SPETTACOLO DEL PASSATO. Disponibile anche in versione digitale su:

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CONTRO I

P

er Roma i barbari erano il Nemico: da soggiogare prima (Celti, Galli, Daci), da tenere alla larga poi (Unni, Goti, Germani). Fra battaglie e compromessi, assedi e saccheggi, la storia dell’impero è scivolata lungo i secoli fino ad arrivare al fatidico 476, il capolinea per Roma. Una fine causata, anche, dall’arrivo dei barbari entro i confini. Eppure è sulle strade costruite dai Romani, sulle rovine delle loro città, sull’impianto giuridico degli antichi legislatori e nel neonato credo cristiano che i nuovi padroni del mondo crearono l’Europa moderna. Goti, Longobardi, Franchi, e poi perfino i Vichinghi... tutte popolazioni venute dal nord, guerriere e primitive, in fuga dal freddo e dalla fame. Volevano “un posto al sole” e la ricchezza dei Romani. Se li presero. Ciò che è accaduto è passato alla Storia come invasioni barbariche, definizione forse obsoleta ma efficace nell’evocare l’orrore in cui devono essere vissuti gli europei all’alba del Medioevo. In questo numero di Focus Storia Collection ve lo raccontiamo, insieme alle gesta dei grandi generali romani e dei condottieri barbari che li sfidarono. Emanuela Cruciano

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dei Celti. Dominarono l’Europa prima di Roma, ma non furono solo guerrieri spietati. 32

SI FA PR R ESTO O A DIRE BARB BARI

pag. 18

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AIU UTO, ARR R IVAN NO I PR R EDO ONI

I BISSNO ONNI DI ASSTERIIX Origini, credenze e vita quotidiana

EST TREM MO OCCID DENTE E Fiere e ribelli, le popolazioni iberiche diedero filo da torcere ai Romani, che entrarono in Hispania attratti dalle ricche risorse minerarie. Solo Augusto riuscì ad assoggettarle.

Dai Marcomanni ai Lanzichenecchi, dai Saraceni agli Ùngari, come agivano i popoli che fecero dell’Italia una terra di razzìe. 24

I GA ALLI DI VER RCIN NGET TORIG GE In Francia è un eroe nazionale, per i Romani (e per Cesare in particolare) era il nemico pubblico numero uno. La storia del capo carismatico che riuscì a unire le bellicose tribù galliche.

pag. 10

Non furono loro a provocare la caduta di Roma. Ma seppero approfittare della grave crisi politica ed economica dell’impero. 18

©LEEMAGE

I BA ARBA ARI E L’IMP PERO Sulle invasioni barbariche che secoli fa ridisegnarono l’Europa, girano molti luoghi comuni. Colpa anche di fonti scarse e incerte: i documenti scritti sono pochi e... di parte.

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Un romano e un barbaro in un bassorilievo del II secolo d.C.

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pag. 38

LA TRA APPOL L A DII ARMINIO O Due millenni fa nella foresta di Teutoburgo i Germani fermarono l’espansionismo di Roma. Spaccando l’Europa.

COPERTINA: VERCINGETORIGE SI ARRENDE A GIULIO CESARE. FOTO: CORBIS.

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CONTRO I 48

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LA MUR R AGL LIA RO OMAN NA Voluto nel 122 d.C. dall’imperatore, il Vallo di Adriano avrebbe dovuto fermare i barbari di Britannia. Ci riuscì solo in parte.

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LAD DY DI FER R RO Il suo nome voleva dire “vittoria”, e dalla Britannia lanciò la sfida a Roma. Budicca finì sconfitta, ma per gli inglesi è un’eroina.

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Non erano più violenti dei soldati romani. E fecero rifiorire Cartagine. Eppure i Vandali divennero sinonimo di barbarie. 106

pag. 48

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Gli highlander di 2mila anni fa che i Romani non sottomisero mai. Erano signori della Scozia, ma la loro storia resta ancora un enigma. 116

Dal Reno all’Elba, dai monti della Germania al Danubio correva il confine più caldo dell’impero.

L’IN NIZIO O DEL LLA FINE

pag. 70

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126

Nell’ultimo secolo Roma si affidò sempre più a comandanti “stranieri”. La loro autorità era talmente estesa da essere tollerati a corte solo in forza dell’ascendente che avevano sui soldati.

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IL VERO O ERE EDE DI ROM MA Mentre l’impero e il mondo pagano tramontavano, un nuovo potere lentamente si affermava: il cristianesimo.

pag. 116 pag. 132

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I RE EGAL LI DE EI BAR RBARII Le grandi invasioni ci hanno lasciato più cose di quante ne hanno distrutte: dalla lingua al cibo, all’arte.

L’UR RBE SOTT TO AT TTACC CO Roma è stata una delle città più assediate della Storia. E durante le guerre gotiche se la vide davvero brutta.

COM ME DEMO ONI URLAN NTI Quando i Vichinghi, che dominavano i mari, decisero di impadronirsi delle coste, gli inglesi scoprirono la loro ferocia.

pag. 98

UN N POSSTO AL SO OLE Partiti dalla Svezia, dopo un viaggio lungo 6 secoli i Goti giunsero da noi. E il loro capo Teodorico fondò il primo regno italiano.

FUG GA DAI GHIAC CCI Il destino dei Vichinghi fu inesorabilmente legato ai capricci della calotta polare: quando arretrò prosperarono, ma quando avanzò...

GEN NERA ALI ALLA R IBAL LTA

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UN MONDO O A PE EZZI Dopo la caduta dell’Impero d’Occidente, invasioni, carestie e guerre resero l’Europa una terra desolata.

La Battaglia di Adrianopoli segna una svolta cruciale nei rapporti fra l’impero e i barbari. E niente fu più come prima. 80

210 CAU USE PE ER UN NA FIN NE Tante sono le ipotesi formulate per spiegare la caduta dell’Impero romano. Ma forse neanche di caduta si trattò, solo di trasformazione.

LAT TINI DI GERM M ANIA

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ULT TIMA A VIT TTOR RIA Dopo quella dei Campi Catalaunici, ottenuta nel 451 contro gli Unni di Attila, per Roma non ci furono più grandi successi in battaglia.

pag. 56

ATT TENT TI AI PITT TI

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INV VASO ORI VA VANDA ALI

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LET TTUR RE

INTERVISTA

I BARBARI

E L’IMPERO Sulle invasioni BARBARICHE che secoli fa ridisegnarono l’Europa, girano molti LUOGHI COMUNI. Colpa anche di fonti scarse e incerte

I

n quale momento l’espansionismo romano si trasformò in difesa dei confini? E perché i popoli che premevano lungo i limes venivano definiti “barbari”? Quale furono le conseguenze del loro arrivo? A rispondere a questi e ad altri interrogativi, lo storico medievalista Claudio Azzara (autore di vari saggi sull’argomento tra cui Le invasioni barbariche e Le civiltà del Medioevo, ambedue per Il Mulino), con il quale cercheremo di comprendere meglio i secoli che portarono alla caduta dell’Impero romano. Quando si verificò il passaggio dalla fase di espansione di Roma a quella delle guerre per proteggere i propri confini? E cosa spinse i popoli barbari verso il limes romano? Il secolare processo di espansione territoriale di Roma si concluse nel corso del II secolo d.C., quando le risorse economiche, politiche e militari dell’impero giunsero al massimo grado di sfruttamento non consentendo nuovi sviluppi ma solo la difesa di quanto già conquistato. A quel punto si fecero sempre più frequenti le incursioni di stirpi barbare attraverso il limes, in particolare lungo i confini definiti dai corsi del Reno e del Danubio. Fino a che, nel IV secolo, si innescò una colossale ondata migratoria che, dalle steppe asiatiche, travolse l’intera frontiera renano-danubiana. Sul suolo imperiale si stanziarono così numerose etnie pronte a dar vita a nuovi regni che si sostituiranno gradualmente alla pars Occidentis dell’impero (divisasi nel 395 dalla pars Orientis, l’impero bizantino). Le ragioni che scatenarono l’ondata migratoria dei popoli barbari sono molteplici, ma senza dubbio giocarono un ruolo fondamentale la pressione di altre popolazioni da Est (Unni su tutti) e la ricerca di territori più opulenti di quelli nativi. Le tribù penetrate in territorio romano non intendevano d’altronde far crollare l’impero, ma miravano più semplicemente a sfruttarne le ricchezze.

GROVIGLIO DI CORPI

GETTY IMAGES

Il sarcofago romano Ludovisi del III sec. d.C. con una grandiosa scena di battaglia fra Romani e barbari (forse Goti).

CLAUDIO AZZARA Insegna Storia medioevale all’Università di Salerno e Venezia. È esperto di regni barbarici e autore di diversi saggi.

Nel complesso, i barbari riconoscevano se stessi come un unicum culturale e sociale oppure ogni tribù si percepiva come distinta dalle altre? Il mondo di quelli che i Romani chiamarono “barbari” era costituito da una pluralità di tribù ben distinte tra loro in termini di identità e costumi e spesso in conflitto per il controllo delle scarse risorse dei territori in cui vivevano. Ciò non toglie che talvolta alcune tribù si miscelassero modificando in parte la propria cultura originaria. Tali unioni erano frequenti soprattutto alla vigilia delle grandi migrazioni, quando era necessario formare gruppi numerosi e militarmente forti per affrontare la sfida del trasferimento in terre ignote. Potevano inoltre nascere alleanze fra gruppi tribali discendenti da una comune matrice (come accadde per la vasta famiglia dei Goti). Perché “barbari”? Il termine fu ereditato dai Greci, i quali chiamavano barbaroi – balbuzienti – tutte le genti che non parlassero la loro lingua e ignorassero la loro cultura, di fatto reputando ogni straniero inferiore a sé. Allo stesso modo, i Romani utilizzarono l’espressione “barbari” per definire le stirpi che consideravano arretrate ed estranee ai valori della loro civiltà. Pur ricorrendo spesso a questo nome collettivo, usavano in ogni caso distinguere le singole etnie con nomi specifici, generando a volte degli equivoci... Il caso più celebre è quello dei cosiddetti Germani, chiamati così impropriamente sulla scia di un’opera di Tacito (Germania) e identificati nelle tribù stanziate in territorio tedesco-polacco. Ma non è mai esistita un’unica popolazione individuabile con tale nome, come si è largamente creduto. Vi sono stati tentativi di assimilazione con i barbari? E che esito hanno avuto? A lungo si è pensato che i rapporti tra impero e barbari fossero di puro conflitto militare, ma oggi la ricerca storica è ben consapevole di come Roma 7

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Unni Alani, Vandali e Suebi Ostrogoti Visigoti Franchi Burgundi Alamanni Angli, Sassoni e Juti Pitti e Scoti Longobardi Britanni Razzie e spedizioni marittime dei Vandali Impero romano al tempo di Diocleziano (284-305)

Novae Nis Mesia Filippopoli Adrianopoli

Tra c i a Tessalonica

Atene Corinto

MAR EGEO

Le principali testimonianze provenienti dal MONDO barbarico sono ARCHEOLOGICHE. Erano culture orali: non scrivevano

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te messe per iscritto antiche saghe diffuse tra le tribù, ma le principali testimonianze sono quelle archeologiche. Tolte queste, disponiamo delle descrizioni di autori romani. Per ricostruire in modo corretto la fisionomia delle stirpi barbare è quindi necessario incrociare le fonti materiali con quelle documentarie. Quando si adoperano queste ultime bisogna inoltre vagliare gli intenti dei singoli autori e le diverse stratificazioni letterarie dei testi. Proprio l’omissione di tale vaglio critico è uno degli errori più frequenti nella ricerca sui barbari. E a proposito di errori, va sottolineato come alla dicitura di “invasioni barbariche” sia preferibile quella tedesca di Völkerwanderungen, ovvero “migrazioni di popoli”. Come mai, caduto l’Impero d’Occidente, quello d’Oriente restò in vita ancora per secoli? E la “caduta” come fu percepita dai contemporanei? Nel complesso, i contemporanei non interpretarono la “caduta” dell’Impero d’Occidente come

Nicomedia Nicea

I M P EA R O

MAR MEDITERRANEO

abbia intrattenuto con tali genti significative relazioni commerciali, importando schiavi e materie prime (legname, pellicce, minerali) ed esportando prodotti “tecnologici” e di lusso. Inoltre, soprattutto dal III secolo, un numero crescente di barbari venne reclutato nelle file dell’esercito romano, che sarà presto composto quasi esclusivamente da mercenari (oltre a ciò, intere tribù furono utilizzate da Roma per difendere i propri confini dalla minaccia di altri barbari). Proprio grazie alla carriera militare molti stranieri “romanizzati” giunsero ai vertici dello Stato, come capitò al magister militum Stilicone. Esistono fonti scritte di autori barbari? E quali sono gli errori più comuni nell’analisi storica delle invasioni barbariche? Quelle dei barbari erano culture orali, e così – almeno per le fasi più remote della loro storia – non hanno lasciato rilevanti fonti scritte. In epoche successive a quelle delle invasioni sono in ogni caso sta-

Costantinopoli

si an a Efeso

Quando gli italiani erano Longobardi

P

enetrati in Italia nel 568 sotto la guida di re Alboino, i guerrieri longobardi – dal germanico antico langbarte, “lunga barba” – formarono una nuova entità statale che sopravvisse fino al 774, quando venne scalzata dai Franchi di Carlo Magno. Originari della Scandinavia, in questi due secoli i Longobardi sfidarono

i Bizantini per la supremazia nella penisola, arrivando a controllarne una buona parte con importanti eccezioni come Roma, la Sicilia e le punte meridionali della Calabria e della Puglia. I nuovi arrivati si distribuirono infatti tra la Langobardia Maior (Italia del Nord e odierna Toscana) e la Langobardia Minor (ducati di Spoleto e Benevento), mentre

il resto del Paese restò in mani bizantine. Nuova cultura. I Longobardi avviarono un processo di integrazione che plasmò una cultura nuova. Questa coniugava tradizioni germaniche e romano-cristiane. Rivestirono così un ruolo decisivo nel passaggio tra Antichità e Medioevo, e la loro eredità si è conservata tra l’altro in alcuni

tale. La destituzione dell’imperatore Romolo Augusto da parte del generaCrimea le barbaro Odoacre, datata 476, è per Cherson noi il simbolo della “fine”, ma gli uomini del tempo erano abituati a simiMAR NERO li colpi di mano e – pur avvertendo la Sinop Trebisonda crisi dell’impero – non ritennero l’episodio definitivo, né il suo esito irreverTeodosiopoli Eraclea sibile. Inoltre, seppur mutilato, lo stesso impero continuava a esistere a CoKayseri stantinopoli. Quanto ai motivi della D’ORIENTE sopravvivenza della pars Orientis, riEdessa siedono tra le altre cose nella maggior Iconio Tarso a ricchezza delle province orientali e neli ur Antiochia Isa la loro prossimità con le floride econoPalmira mie dei Paesi asiatici. Ciò permise di Cipro continuare a finanziare la macchina amministrativa imperiale e consentì di difendere i confini dalle stirpi barbare, che defluirono appunto nella parte occidentale. Se le invasioni barbariche finiscono nel 476, come sono da considerare le successive conquiste operate da Vichinghi, Ungari, Slavi e Saraceni? TRE SECOLI In effetti, l’immigrazione di popoli estranei al DI TRAVERSĺE mondo romano continuò anche dopo il 476, priNella cartina, sono ma con gli Slavi, che tra VI e VII secolo si stanziaindicate le principali rono nei Balcani, e poi, a più riprese, con gli Aramigrazioni dei popoli barbari e bi (o Saraceni), gli Ungari e i Vichinghi, penetrati i regni romanoin Europa tra VII e XI secolo. Ebbene, per definire germanici che l’insieme di tali movimenti di genti è stata coniahanno formato tra il ta la locuzione di “seconde invasioni”. Tra l’altro, IV e il VII secolo d.C. queste presero a volte di mira i beni della Chiesa, ma a ben vedere costituirono per essa un’eccezionale opportunità pastorale. In che modo? I membri del clero furono abili a collaborare con le aristocrazie straniere nell’organizzazione dei cosiddetti regni romano-barbarici. La loro azione stimolò la conversione degli stessi barbari al cristianesimo, favorendo così il plasmarsi di una società in cui le diverse componenti etniche, in nome della fede cristiana, risultarono meglio amalgamate.

termini tuttora in uso (a partire dal nome della Lombardia) e in splendide opere artistiche. Queste vanno dal tempietto di Cividale del Friuli al complesso monumentale di Santa Sofia a Benevento. Nel 2011 sono state inserite nella lista dei patrimoni Unesco in un insieme di siti noto come I Longobardi in Italia: i luoghi del potere.

I regni romano-barbarici cosa hanno lasciato? Nuovi modelli di organizzazione politica dopo la fine dell’impero e inedite forme di convivenza e fusione fra gruppi umani diseguali. In tal modo hanno stravolto l’assetto etnico-culturale dell’antichità aprendo la strada al mondo moderno. Si pensi alla penetrazione degli Angli e dei Sassoni nella Britannia romana o alla slavizzazione dell’area balcanica, eventi che stanno alla base dell’odierna geopolitica europea. Come mai la cultura tedesca ha esaltato le cosiddette genti germaniche? Ognuno si cerca gli antenati che può, e se la cultura italiana si è sempre sentita erede della grande tradizione di Roma, quella tedesca – per ragioni etniche, culturali, linguistiche e territoriali – ha rintracciato nelle antiche stirpi germaniche i propri progenitori. Il richiamo al retaggio di quelle antiche tribù, avvenuto tramite la rielaborazione di un vasto bagaglio di miti e saghe, ha enfatizzato soprattutto il contributo del “sangue nuovo” germanico nel rinvigorire la decadente società imperiale, e sulla scia di tale tradizione si muoverà anche il nazismo, in cerca di una continuità biologico-razziale tra antichi germani e tedeschi del XX secolo. Quali luoghi comuni hanno condizionato la nostra conoscenza dei barbari? Il più pesante è quello che li vuole invasori anziché migratori. A questo si aggiungono molti stereotipi circa la loro inferiorità e arretratezza, ma il problema nasce dalla comparazione con il modello romano, inevitabilmente più evoluto. Per uscire da ogni pregiudizio, bisognerebbe studiare i barbari semplicemente per quel che furono, limitandosi a ciò che le fonti ci consentono di ricostruire. In altre parole, la loro cultura, le loro istituzioni e la loro società dovrebbero essere valutate in rapporto alla natura e ai bisogni delle realtà tribali da cui scaturirono, non nell’ambito di sterili confronti con modelli completamente diversi come quello costit tuito per l’appunto dall’Impero romano. Matteo Liberti 9

DINAMICHE

TRAVOLTI DA ROMA

RES

Le vittorie su Germani e Sàrmati (“barbari” persiani) celebrate dalla colonna di Marco Aurelio a Roma, eretta fra il 176 e il 192. A destra, un barbaro disarcionato dal suo cavallo in una statuetta in bronzo del II-III secolo d.C.

LESSING/ CONTRASTO

Non furono loro a provocare la CADUTA di Roma. Ma seppero approfittare della grave CRISI politica ed economica dell’impero

Si fa presto a dire 11

Il DECLINO dell’impero fu accelerato da siccità ricorrenti. E l’avanzata dei barbari da un raffreddamento del CLIMA nelle pianure orientali



T

ra Costantinopoli e le Alpi […], ogni giorno il sangue romano continua a essere versato. Goti, Sàrmati, Quadi, Alani, Unni, Vandali e Marcomanni devastano, rapinano e saccheggiano […]. Il mondo romano sta crollando […]”. A lanciare questo grido d’allarme fu, nell’Anno Domini 396, Sofronio Eusebio Girolamo (347-420), futuro san Girolamo. Oggetto dei suoi timori era l’arrivo in massa sul territorio dell’Impero romano dei popoli barbari, quelli che i pittori dell’Ottocento raffigureranno 15 secoli più tardi seminudi o avvolti in rozze pellicce, con acconciature primitive, elmi cornuti e atteggiamenti scimmieschi, impegnati a saccheggiare Roma. «Quell’immagine è la somma di una serie di stereotipi», avverte Alessandro Barbero, docente di Storia me-

BENVENUTI A CASA DEGLI ALEMANNI Nel disegno, lo spaccato di una casa degli Alemanni, alleanza di tribù germaniche.

DE AGOSTINI/ALINARI

Protetto da pietre, il focolare era sulla terra nuda. Un’apertura nel tetto faceva da camino.

Le case erano in legno, con tetto di paglia. Oltre alla porta, c’era una sola finestra.

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Tra le attività svolte dalle donne, c’erano la lavorazione delle pelli e la tessitura.

La tipica “casa lunga” era un ambiente unico, senza divisioni tra gli spazi funzionali.

Il letto (uno solo per tutti) era rialzato, in legno e ricoperto da paglia e pelli.

dioevale all’Università del Piemonte Orientale. «E il luogo comune più fuorviante circa i barbari è quello che li vuole estranei al mondo romano e pronti a distruggerlo».Chi erano allora quei popoli che tra V e VI secolo finirono per prendere possesso di un impero? MIGRATORI. «In primo luogo erano migratori», risponde l’esperto. «Che però non avevano un senso di appartenenza comune e neanche una parola unica per indicarsi». Di certo, non si chiamavano “barbari”. La parola era infatti un’eredità dei Greci, che chiamavano bárbaros (“balbuziente”) chi non parlava la loro lingua e ignorava i loro costumi e le loro leggi. «La definizione fu estesa a chiunque fosse estraneo al mondo greco-romano, si trattasse di popoli nordafricani (da qui per esempio il nome dei Berberi) o di tribù balca-

SCONFITTO Uno sconsolato prigioniero barbaro in una statua marmorea del II secolo d.C. conservata al Louvre di Parigi.

RMN/ALINARI

niche; mentre quelli che vivevano a est del fiume Reno vennero definiti già da Giulio Cesare con il più specifico termine di Germani». Se oggi “barbaro” è sinonimo di genti animalesche e incivili, la responsabilità va in gran parte agli storici antichi (romani) che descrissero l’impero come un’isola di civiltà in mezzo al mare di arretratezza in cui sguazzavano gli stranieri: la sconfitta di tribù straniere veniva celebrata persino su monete e archi di trionfo rappresentando il nemico come un ossesso. «Solo dopo il II secolo le moltitudini etniche del Nord Europa si riunirono tra loro dando vita a veri popoli, come i Franchi e gli Alemanni lungo il Reno o i Goti sul Danubio. Al tempo delle vittorie di Cesare (I secolo a.C.) erano ancora tribù sparse», continua Barbero. «E anche dopo, rimasero a lungo raggruppamenti ancora molto poco coesi, in cui prevaleva l’identità delle singole tribù piuttosto che quella del gruppo. Il concetto di Germani, per esempio, fu un’invenzione romana, poiché le prime coalizioni di tribù non avevano grandi affinità etniche». Oltre le fredde acque del Reno e del Danubio (i confini naturali dell’impero) non c’erano dunque nemici organizzati con in mano un piano per conquistare Roma. INTEGRATI. In realtà, i barbari ebbero a che fare con Roma più tramite commerci e scambi che con i sanguinosi scontri lungo la frontiera (limes) descritti dagli storici latini. Per le tribù straniere, infatti, i traffici con le province imperiali divennero assai importanti, per i Romani si rivelò fondamentale la “manodopera” barbara, da destinare all’esercito o ai lavori agricoli. «I popoli del Reno e del Danubio iniziarono a fondersi nel multietnico Impero romano nel II secolo. Già ai tempi di Marco Aurelio (121-180) era frequente l’uso di affidare loro la difesa delle frontiere», spiega Barbero. In fuga. Ma a spingere verso il limes molte tribù era anche la pressione esercitata dagli Unni, un popolo nomade originario dell’Asia Centrale. «La loro inarrestabile marcia verso ovest spingerà per esempio nel 376 i Visigoti a schiacciarsi lungo la frontiera orientale con esiti disastrosi, come capiterà più tardi con i Longobardi in fuga dagli Avari (eredi degli Unni)», prosegue l’esperto. E non è tutto. Secondo alcuni studi, nella “grande migrazione” giocò un ruolo importante anche un mutamento climatico che raffreddò l’area nordeuropea proprio nei primi secoli dopo Cristo. Molti terreni divennero improduttivi costringendo i popoli che vi abitavano a cercare nuovi territori da colonizzare. Tra l’altro, si spiegherebbe così un episodio tramandato dagli antichi: il 31 dicembre 406 si ghiacciò un tratto di Reno nei pressi di Magonza (Germania), permettendo

AISA/ALINARI

Le tribù si SPOSTAVANO con donne, vecchi, bambini e masserizie al seguito. E alcune avevano forme di GOVERNO democratiche

VALUTA CORRENTE

RMN/ALINARI

Moneta del regno romano-barbarico dei Visigoti, in Spagna. Raffigura Leovigildo, re dal 569 al 583. Sotto, fibula femminile ostrogota del VII secolo circa.

a numerose tribù in armi di attraversarlo passeggiandovi sopra. Finché la situazione interna dell’impero non volse al peggio, il flusso di barbari si svolse comunque senza eccessivi problemi grazie a campagne di “accoglienza e smistamento profughi” messe in atto da Roma, e il grosso degli stranieri accolti si distinse, più che per la voglia di saccheggiare, per quella di coltivare le terre. «Nella maggioranza dei casi i capi tribù chiedevano in modo pacifico di potersi stanziare in zone poco popolate dell’impero (salvo assumere atteggiamenti ostili in caso di rifiuto)», spiega ancora Barbero. «In cambio dell’accoglienza si offrivano come coltivatori e soprattutto in qualità di soldati. Come fecero i Sàrmati Iagizi che nel II secolo, dopo aver combattuto contro Marco Aurelio, stipularono un trattato di pace in cui si impegnavano a offrire 8mila cavalieri». Occasioni come questa erano ghiotte per un impero troppo vasto, che aveva fame costante di uomini: guerre e miseria lasciavano periodicamente sguarniti gli organici dell’esercito e le campagne, e per riempire quei vuoti la soluzione più semplice era accogliere nuovi immigrati. «O, se necessario, deportarli con la forza», precisa l’esperto. «Molti barbari fecero carriera ottenendo rilevanti cariche militari (come quella di magister militum) e persino il consolato, segno di una completa integrazione

nell’élite dell’impero». Su un’iscrizione tombale del IV secolo si legge un motto che ben riassume tale concetto: “Franco nel civile, son soldato romano sotto le armi”. Corteggiati. Inoltre, quando il cristianesimo cominciò a contare, i barbari suscitarono l’interesse di molti uomini della Chiesa, determinati a portare dalla loro parte queste genti sconosciute. Se in principio i capitribù (in larga parte politeisti) si mostrarono refrattari, nel IV secolo il grosso dei “nuovi popoli” era stato cristianizzato. Tanto che i Goti, per mano del sacerdote Wulfila (311-388), si presero la briga di tradurre la Bibbia nella propria lingua. In sintesi: per quattro secoli l’impero assorbì gli stranieri integrandoli a tutti i livelli della società (e senza episodi di razzismo rilevanti) e non deve stupire se spesso furono proprio generali di origine barbara, da Stilicone (359-408) a Ezio (390-454), a combattere per gli interessi di Roma con maggior dedizione degli stessi Romani. Fase critica. L’equilibrio tra “barbarizzazione” dell’impero e romanizzazione dei barbari entrò in una fase critica quando le tribù gotiche che nel 376 fuggivano dagli Unni chiesero di essere accolte nei confini imperiali (impegnandosi come da prassi a lavorare, pagare le tasse e prestare servizio militare). Dopo un primo periodo di tensioni, l’imperatore Flavio Giulio Valente (328-378) accettò di accoglierli sperando di impiegarli in una spedizione che stava preparando contro la Persia. Ma qualcosa andò storto. «A trasformare quella manovra in

LA CARTA D’IDENTITÀ DEI PRINCIPALI ANGLI

S

tanziati dal I secolo d.C. lungo il fiume Elba (Germania) provenivano dalla vicina Anglia (Angeln), una regione prossima al territorio sassone (Germania Settentrionale). Nel V secolo giunsero in Gran Bretagna e, passato il

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IXI SECOLO litus saxonicum (il confine imperiale), vi si stabilirono. Si fusero quindi con i Sassoni dando vita nell’VIII secolo al regno anglosassone, durato fino alla conquista normanna (1066). La loro lingua è, con il sassone, alla base dell’inglese moderno.

BURGUNDI

O

riginari dell’area scandinava, nel III secolo si mossero verso i confini dell’impero stanziandosi nella zona del Reno (Germania). Nel 369 l’imperatore Valentiniano I li ebbe come alleati contro gli Alemanni, ma dopo il sacco

IIIVI SECOLO di Roma per mano dei Vandali, nel 455, molti Burgundi manifestarono il desiderio di indipendenza che si tradusse nella creazione di un regno romano-barbarico nella Francia Sudorientale, assorbito poi (nel VI secolo) dai Franchi Merovingi.

BRIDGEMAN/MONDADORI PORTFOLIO

si riempirono di nuclei indipendenti di barbari, mentre da est nuove orde di popoli si preparavano a imitare l’esempio gotico, spinti dall’“effetto domino” generato dalla pressione degli Unni. In questo scenario, l’impero si ritrovò a un certo punto spaccato a metà. AL POTERE. Alla morte di Teodosio I (395) la divisione dell’Impero romano fra Orientale e Occidentale segnò una ulteriore occasione di espansione per i nuovi venuti. Ma se l’Oriente seppe cavarsela, a ovest le cose continuarono a peggiorare. Dagli Alemanni ai Burgundi, dagli Èruli ai Suebi, molti popoli approfittarono dello stato di debolezza del potere imperiale, penetrando senza troppi complimenti nelle zone romane. Un colpo durissimo fu inferto dai Visigoti di Alarico (370-410), che nel 402 accerchiarono Milano (allora capitale d’Occidente). A limitare i danni fu proprio un se-

AISA/ALINARI

una catastrofe fu la quantità eccezionale di rifugiati e le circostanze d’emergenza in cui questi furono accolti, anche perché alcuni comandanti romani lucrarono sui rifornimenti spingendo molti Goti a ribellarsi», spiega Barbero. La rivolta non incontrò grossi ostacoli e il 9 agosto 378 l’esercito romano fu annientato dai guerrieri del goto Fritigerno nella battaglia di Adrianopoli (odierna Edirne, nella Turchia Occidentale). Lo stesso Valente rimase ucciso, mentre il nuovo imperatore Teodosio I (347-395) stipulò in fretta e furia accordi con i rivoltosi accettando per la prima volta che un gruppo etnico straniero si insediasse in territorio romano conservando, oltre alle proprie armi, la propria organizzazione tribale. Come se non bastasse, ai Goti fu garantito il “mantenimento” a spese dei Romani (era il meccanismo dell’hospitalitas) e le province imperiali

RAFFINATEZZE Due esempi di fibule in oro e pietre dure realizzate dai Goti. Gli orafi dei popoli nordici influenzarono l’arte medioevale.

POPOLI MIGRATORI E DEI LORO REGNI FRANCHI E LONGOBARDI

O

riginari della Franconia (Germania del Sud), il loro nome significa “liberi” e le loro tracce risalgono al III secolo d.C. Protagonisti di incursioni in Gallia, nel V secolo fondarono un regno racchiuso tra gli odierni Belgio, Francia,

IIIIX SECOLO

Germania, Lussemburgo e Olanda. Il principale concorrente del Regno franco fu un altro regno germanico, quello dei Longobardi, che si erano stabiliti nell’Italia del Nord nel corso del VI secolo e che furono poi sconfitti dai Franchi di Carlo Magno.

OSTROGOTI

P

rovenienti dall’Isola di Gotland, nel Mar Baltico, nel III secolo si stabilirono a nord del Mar Nero e risalirono poi il Danubio. Dopo la caduta dell’impero, guidati da re Teodorico varcarono le Alpi (489) e nel 493 uccisero Odoacre. Iniziò così

IIIVI SECOLO il loro dominio sull’Italia (che si estese fino alla Provenza e alla Croazia), interrotto nel VI secolo dalle truppe dell’imperatore d’Oriente Giustiniano I (482-565) guidate dal generale Belisario. Il loro nome significa “Goti dell’Est”.

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Nei PROCESSI introdussero il giudizio DIVINO, che fu poi mibarbarus, il fedele Stilicone, ma già nel 410 Alarico si prese la rivincita assediando e mettendo a sacco Roma. «L’Impero d’Occidente aveva ormai una marcata impronta germanica, mentre la cosa non valeva per la parte orientale», precisa Barbero. «Ma quest’ultima resistette all’urto delle migrazioni per due motivi: il primo è che i Romani d’Oriente erano più forti e meglio organizzati rispetto ai cugini occidentali; il secondo è che fecero defluire verso occidente il grosso dei barbari (un chiaro segno di quanto le due “metà” fossero già contrapposte e indifferenti l’una all’altra)». Sul trono. Da parte loro i barbari cominciarono a stabilizzarsi in Occidente fondando i regni romano-barbarici, antenati delle moderne nazioni europee. Nel 455 i Vandali guidati da Genserico si distinsero per un nuovo saccheggio di Roma. Quando poi nel 476 il generale Flavio Oreste si rifiutò di pagare le truppe germaniche al suo servizio, queste si rivoltarono e il loro leader Odoacre (434-493) fece uccidere il generale insolvente e costrinse all’abdicazione l’imperatore Romolo Augusto, assumendo di fatto il controllo della Penisola. Fu allora che si verificò quella che lo storico Arnaldo Momigliano nel secolo scorso definì la “caduta senza rumore di un impero”. «Se le migrazioni (che gli storici sette-ottocenteschi chiamarono poi “invasioni”) contribuirono alla caduta dell’Impero d’Occidente, non determinarono la fine del mondo romano, le cui strutture amministrativo-fiscali rimasero in piedi ancora a lungo», avverte Barbero. Per questo gli storici moderni non parlano di “caduta” dell’impero, bensì di una sua trasformazione. Eredità. I regni romano-barbarici favorirono la diffusione di molte novità: da sconosciute tecniche di metallurgia alla birra, dal burro alle botti in legno e alle ruote per gli aratri. Ai barbari si deve an-

FAMIGERATI

SASSONI

P

rovenienti dall’attuale regione dello Schleswig-Holstein, nel Nord della Germania, devono il nome allo scramasax, attrezzo da lavoro dalla lama ricurva usato anche come arma. Si hanno loro notizie fin dal II secolo, ma fu nel V

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RMN/ALINARI

Testa di un guerriero gallo (III secolo) rinvenuta in Afghanistan. I Galli arrivarono fin là.

IIXI SECOLO che si misero in luce attraversando il Mare del Nord e sbarcando con gli Angli in Britannia. Qui, dopo il crollo romano, diedero vita a vari regni che confluiranno nel regno anglosassone, fiorito fino all’XI secolo nella parte meridionale dell’Inghilterra.

SUEBI

O

I SECOLO A.C.XI SECOLO

riginari del Baltico (chiamato Suebicum dai Romani, da cui il nome) nel I secolo a.C. si stanziarono in Germania Occidentale, dove il loro popolo diede nome alla Suebia (Svevia). Sconfitti da Giulio Cesare nel 58 a.C., tornarono

sulle rive orientali del Reno fino al V secolo, quando con il sovrano Ermerico (che regnò dal 409 al 441) attraversarono i Pirenei e in Galizia fondarono un regno che si estese fino al cuore dell’odierno Portogallo, nel 585 conquistato dai Visigoti.

adottato dall’Inquisizione

MONDADORI PORTFOLIO/AGK

che l’uso dei pantaloni (le bracae, usate per cavalcare) nonché della staffa (probabilmente un brevetto degli Àvari). «Apportarono inoltre innovazioni sul piano giuridico, migliorando per esempio il diritto dei rapporti privati, in particolare per ciò che riguardava i “delitti contro la persona”», aggiunge Barbero. «Questi non erano più visti come reati da perseguire in quanto contro la comunità, ma come “offese personali”, per cui il primo compito della legge era riconciliare le parti in causa (più che vendicare la parte lesa). Fu questo modello legislativo (un mix di diritto romano e germanico) a condizionare tutta la civiltà medioevale». COSCIENTI DI SÉ. Ma che cosa pensavano i barbari di loro stessi? Davvero si vedevano come migratori? «Si direbbe proprio di sì», risponde l’esperto. «Nei testi scritti dopo il VI secolo da autori goti o franchi, a proposito del trasferimento di questi popoli in territorio romano, si riferisce di “lunghe peregrinazioni”. Il termine che rende meglio il concetto è il tedesco Völkerwanderungen (“migrazioni di popoli”) che esprime anche l’idea del “vagare” in cerca di destinazione». Le antiche cronache dei barbari danno anche alcune cifre: per le migrazioni del V secolo, parlano di poche centinaia di migliaia di individui, un numero esiguo se rapportato alla vastità dell’impero. A conti fatti, il concetto di “invasioni barbariche” si dovrebbe sostituire con quello di “migrazioni barbariche”. Come suggerì il grande storico francese Georges Duby (1919-1996) “i barbari avevano un solo desiderio: integrarsi”. Un po’ come tanti immigrati dei nostri giorni, che solo chi (come gli storici latini) teme la fine del proprio mondo può chiamare invasori. t

SPAVENTOSI Il cranio di un Unno, deformato dall’usanza di fasciare la testa ai bambini, per darle una forma allungata.

DE AGOSTINI/ALINARI

L’ORO DELLE STEPPE

Matteo Liberti

VANDALI

D

i provenienza orientale, nel II secolo si stanziarono in Boemia. Nel 335 ricevettero da Costantino I lo status di foederati (alleati) assumendo una funzione strategica lungo il Danubio, ma l’avanzata degli Unni li spinse a ovest.

IIVI SECOLO Dopo aver raggiunto la Penisola iberica (409) sbarcarono nel 429 lungo le coste nordafricane e qui, sotto la guida di Genserico (390-477), fondarono un potente regno fra le odierne Algeria, Libia e Tunisia. Nel 534 furono spazzati via dai Bizantini.

VISIGOTI

S

ottogruppo dei Goti (la radice visi significava “nobili”) nel III secolo si stabilirono lungo il Danubio e nel 395, sotto la guida di Alarico, invasero la Tracia (Balcani) e puntarono all’Italia, dove nell’estate 410 saccheggiarono Roma. Si

Un recipiente in oro dal cosiddetto “tesoro di Attila”, il re degli Unni, che con la loro avanzata accelerarono la migrazione di altri popoli.

IIIVIII SECOLO recarono quindi in Gallia e poi, spinti dai Franchi che li sconfissero nel 507, nella Penisola iberica. Qui fondarono un regno comprendente gran parte della Spagna e la Francia del Sud-Ovest, sgretolatosi nel 711 in seguito all’invasione araba.

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TERRA DI CONQUISTA

Dai MARCOMANNI ai Lanzichenecchi, dai Saraceni agli Ùngari, come agivano i POPOLI che fecero dell’ITALIA una terra di RAZZÌE

,

MORTE DI UNA CITTÀ ETERNA Nel dipinto, la presa di Roma da parte dei Visigoti di Alarico nel 410. Pochi decenni dopo, la città fu saccheggiata anche dai Vandali di Genserico (455).

ei Galli stanziati nelle attuali Marche i Romani non avevano quasi sentito parlare, prima di vederseli piombare addosso, sul fiume Allia, nel 390 a.C. Il panico che pervase Roma (v. riquadro nelle pagine seguenti) permise ai guerrieri stranieri di razziare la città capitolina a loro piacimento per sette mesi, prima di andarsene e forse – così almeno racconta la tradizione – subire una sconfitta a opera di Furio Camillo sulla via del ritorno al nord. Nel 101 a.C. solo un comandante esperto come Caio Mario riuscì a impedire alla tribù germanica dei Cimbri di scendere oltre la pianura padana (v. articolo Un posto al sole). Sono solo due tra i tanti popoli che fecero della scorreria un’arma capace di minacciare più volte, attraverso i secoli, la tranquillità della Penisola. Predatori per forza. Nell’età antica e in quella medioevale furono molte le genti, sia nomadi sia sedentarie, che praticando poco l’agricoltura basarono la loro economia quasi esclusivamente sull’attività predatoria. La 18

loro principale fonte di ricchezza erano i bottini: oro e preziosi, ma anche uomini, donne e bambini da vendere sul mercato degli schiavi o da impiegare come forza lavoro. Durante le grandi migrazioni da Oriente, al tramonto dell’Impero romano, la razzìa divenne quasi una necessità. Ogni capo guerriero doveva sfamare il numeroso clan che lo accompagnava nei lunghi spostamenti. E lo faceva ricorrendo a una tecnica quasi sempre identica, una sorta di taglieggiamento: distruzioni e violenze servivano a procurarsi una fama terrificante, che avrebbe indotto gli abitanti di città e villaggi a rinunciare a ogni tentativo di difesa, offrendo ricchi riscatti per la propria salvezza. Fu ciò che fece nel 167 d.C. una coalizione guidata dai Marcomanni di re Ballomar, che mise a ferro e fuoco le Venezie (con il contributo, pare, di donne guerriere) prima di essere fermata dai Romani ad Aquileia. Un secolo dopo toccò ad Aureliano fronteggiare un’infiltrazione di Iutungi, che tra il 270 e il 271 devastarono la zona attorno a Milano.

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ARRIVANO I PREDONI D

SACCHEGGIO

C

ontrariamente alla loro sinistra nomea (v. articolo Invasori Vandali), i Vandali furono i protagonisti del saccheggio meno cruento nella storia di Roma. Quando volevano, infatti, questi barbari tristemente famosi per i loro eccidi erano guerrieri efficienti e rapidi, grazie soprattutto

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SCIENTIFICO al loro re Genserico. Approfittando del vuoto di potere creatosi nell’Impero romano dopo la morte di Valentiniano III (455), Genserico si precipitò dalle coste del suo regno africano sulla città capitolina, la cui unica difesa era rappresentata da papa

Leone Magno, che solo tre anni prima era stato tra gli artefici del ritiro degli Unni. Sistematici. I due si incontrarono sulla via Portuense il 31 maggio 455: il vescovo di Roma ottenne che i Vandali portassero via quel che volevano astenendosi però da

distruzioni e dall’infierire sulle chiese cattoliche. Il re barbaro si prese due settimane durante le quali le sue truppe, formate da Vandali e da Mori, operarono in gruppi, assegnati a specifici settori e dotati di carri per il trasporto del bottino. Ogni edificio perquisito e

svuotato veniva contrassegnato affinché la squadra successiva sapesse che lì non c’era più niente da razziare. Nulla sfuggì alle loro ricerche: persino gli arredi sacri prelevati dai Romani di Tito dal tempio di Gerusalemme quasi 4 secoli prima finirono a Cartagine.

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ÙNGARI O ORCHI?

L

o scrittore Liutprando da Cremona (920 ca.972) si preoccupò di spiegare che gli Ùngari bevevano il sangue dei nemici uccisi con il preciso scopo di atterrire gli avversari. D’altronde la lunga scia di devastazioni che si lasciarono alle spalle è testimonianza sufficiente della loro ferocia. E il termine con cui li chiamavano i francesi, altre vittime dei loro eccidi, ovvero ogre, sembra essere all’origine della parola “orco”. Nel dialetto friulano poi, òngiar significa “rozzo”. Incastellati. È soprattutto alle loro incursioni e aggressioni, spesso consumate ai danni dei monasteri, che si deve il fenomeno dell’“incastellamento”: attorno al Mille,

infatti, l’Italia si riempì di siti fortificati e le città si dotarono di mura di cinta o riadattarono quelle diroccate che risalivano ai Romani. Questi centri divennero il punto di riferimento dei contadini in fuga dalle orde magiare, e resero ancora più stretti i vincoli tra il signore e le comunità a esso legate. Tracce indelebili. Sebbene gli Ùngari non abbiano prodotto alcun insediamento stabile, soprattutto in Friuli – ma anche in Piemonte, Lombardia, Emilia e persino in Calabria – si ritrovano sul territorio un gran numero di toponimi che contraddistinguono il loro passaggio: per esempio Longarone, Longaresca, Porto Ungaresco, Longara, Campi Ungareschi.

LUNIGIANA SOTTO ATTACCO

È Árpád, re degli Ùngari, in un affresco del XIX secolo.

un cronista franco a fornirci il resoconto di una scorreria vichinga (v. articolo Come demoni urlanti) sulle coste italiane. Secondo il suo racconto un capo scandinavo di nome Hastein, con l’intenzione di annoverare Roma tra le conquiste, sarebbe approdato con il suo

drakkar sulle coste della Lunigiana (tra Liguria e Toscana). Visto un centro cinto da possenti mura, e convinto di essere di fronte alla città capitolina, avrebbe escogitato un modo per evitare l’assedio, che la mancanza di macchine belliche rendeva difficile. Mandò i suoi uomini

a chiedere ospitalità, dichiarandosi malato. Bara di Troia. Ma gli abitanti di Luni non abboccarono, almeno fino a quando i Vichinghi non li informarono che il loro capo era morto esprimendo come ultimo desiderio di essere sepolto in una chiesa cristiana. L’espediente

Nel XV secolo a MINACCIARE le valli a sud delle ALPI si fecero All’alba del V secolo l’impero ormai non disponeva più delle risorse per presidiare le sue frontiere, dove nuovi popoli premevano. Roma stessa venne assediata e saccheggiata tre volte nell’arco di settant’anni. L’ultima, nel 472, perfino da truppe imperiali, al comando di un generale di origine gota, Ricimero. A sentire i cronisti dell’epoca, que20

ste migrazioni coinvolgevano torme di centinaia di migliaia di combattenti, donne e bambini. Cifre quasi sempre esagerate. Disumano. Fino a 400mila anime si sarebbe portato dietro nel 406 il capo ostrogoto Radagaiso, “un mostro di disumanità”, come lo definì sant’Agostino. Il capo dell’esercito romano, il

mezzosangue Stilicone, riuscì a fermarlo e a distruggerne le schiere solo a Fiesole (Fi): con l’aiuto degli alleati Unni e Visigoti ne fece una tale strage che “Dio non permise che nessuno di quel popolo restasse superstite”, scrive il pio cronista Orosio. Gli ultimi anni dell’impero furono contrassegnati anche dalle scorre-

“G

uai ai vinti”: con questo grido si dice che Brenno, re dei Galli Senoni, abbia aggiunto la sua spada al piatto dei pesi della bilancia che doveva misurare il riscatto in oro chiesto ai Romani per lasciare la città (mille libbre,

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GALLI IN CAMPIDOGLIO alla fine). Così si sarebbe conclusa nel 390 a.C. la catastrofe gallica che si abbatté su Roma: intrecciata a tante leggende. Come quella delle oche del tempio di Giunone, che starnazzando avrebbero rovinato

PREDE DI GUERRA Il re Brenno in un quadro di fine ’800. In verità “Brenno” era il titolo assunto dai capi gallici in tempo di guerra.

IL TERRORE DAL MARE Vichinghi giunti con le loro tipiche imbarcazioni (drakkar) in una stampa di metà Novecento.

funzionò e Hastein, fintosi cadavere, si fece trasportare su una lettiga fin dentro la città. Il vichingo si alzò solo quando il vescovo era impegnato nel requiem, che interruppe spaccando in due con l’ascia la testa all’officiante, prima di dare inizio al sacco.

Quel che sappiamo di certo è solamente che una flotta di 62 navi al comando di Hastein salpò dalla Bretagna nell’859, saccheggiò le coste attorno a Gibilterra, fece tappa sul delta del Rodano e si diresse infine verso le coste liguri e toscane, assaltando Luni e forse Pisa.

l’effetto sorpresa su cui contavano i Galli per l’assalto finale al Campidoglio. Terror panico. Al di là delle invenzioni letterarie, la fortissima impressione che i Galli Senoni dovettero fare sui Romani si evince dalla descrizione che ne diede lo storico Diodoro Siculo ancora 3 secoli dopo: “Essi hanno corpi immani, carne soda e bianca, e una capigliatura rossiccia, il cui colore è aumentato ad arte, poiché la soglion lavare con lisciva di calce, e poi ritorcerla dalla fronte al vertice, e di là alla cervice. Sembrano così tanti Pan e satiri, con capelli spessi come criniere di cavallo. Usano bighe per i viaggi e per le battaglie; corrono sui cavalli contro il nemico, gettando giavellotti; e poi scendono per contendere con la spada. Disprezzano tanto la morte, che molti combattono nudi. (...) Appendono ai colli dei cavalli le teste mozze dei nemici (...). Le loro tube barbariche emanano un muggito orribile. (...) Terribili d’aspetto, emettono voci gravi e orride”.

avanti gli SVIZZERI. Furono fermati dai MILANESI rie dell’unno Attila, e dai tentativi di infiltrazione dei barbari stanziati a ridosso della catena alpina, come gli Alani di re Biorgor – che nel 464 predarono la zona di Bergamo – e gli Ostrogoti di Vidimiro (nel 473). Dopo la caduta dell’Impero d’Occidente, furono i Franchi, non ancora alleati del papato, a vessare i confini settentriona-

li della Penisola con le loro continue incursioni durante la Guerra gotica (535-553). Il generale bizantino Narsete riuscì ad arrestare la piaga sconfiggendoli sul Volturno (in Campania) nel 554, ma con l’occupazione longobarda le loro razzìe ricominciarono, fino alla definitiva conquista del Nord Italia a opera di Carlo Magno.

Nuovi arrivi. Gli scorridori dei secoli a ridosso del volgere di millennio furono invece Saraceni, Vichinghi e Ùngari. Contestualmente alla conquista della Sicilia, che iniziarono nell’827 e conclusero nel 902, gli Arabi lanciarono un’interminabile serie di raid, che interessarono soprattutto le coste occidentali. 21

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FURIA LANZICHENECCA “

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L’evento fu attribuito soprattutto ai primi, ma entrambe le etnie dell’esercito imperiale di Carlo V furono responsabili degli orrori che vi si consumarono. Appesi. Anzi, il Guicciardini specifica che i tedeschi uccidevano senza complimenti, per poi impossessarsi dei beni dei morti, mentre gli spagnoli torturavano prima le loro vittime. Si legge di orrendi supplizi, come appendere gli sventurati per le braccia o per “le parti vergognose” e lasciarli sospesi

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l 6 maggio prendemmo d’assalto Roma; gli uccisi furono più di 6mila, tutta la città fu saccheggiata, nelle chiese e sopra terra prendemmo tutto ciò che trovammo e buona parte della città fu incendiata. Strana vita davvero! Abbiamo lacerato, distrutto gli atti dei copisti, i registri, le lettere, i documenti della curia”. Così scriveva il cavaliere Schertlin, tra i protagonisti del sacco di Roma del 1527 a opera dei Lanzichenecchi tedeschi e dei tercieros spagnoli.

per ore; oppure tagliare orecchie, naso o testicoli e darli da mangiare ai malcapitati che ne erano stati privati. Riscatti inutili. Si disse che gli alti prelati furono costretti a pagare per la propria vita più volte, prima di essere comunque uccisi. I “lanzi” sceglievano gli altari come pedane per le esecuzioni e tuttora, nelle stanze della basilica vaticana affrescate da Raffaello, si possono osservare i loro graffiti inneggianti all’imperatore e a Lutero.

ROMA BRUCIA ANCORA Nella litografia (1630) i mercenari al soldo di Carlo V razziano Roma.

DALL’ORIENTE La foggia araba dei predatori saraceni in un quadro ottocentesco.

PIRATI SARACENI

L

e torri di avvistamento lungo le coste italiane testimoniano il grado di allerta in cui si viveva nell’Alto Medioevo a causa dei Saraceni. Bottino umano. Già nel 652 il condottiero siriano Mu’awiyah ibn Hudayg rapì in Sicilia un centinaio di ragazzine. Nei secoli successivi, i pirati arabi fecero incetta di giovani da destinare agli harem e ai mercati di schiavi, d’oro e d’argento. Persino Roma, nell’846, subì un’incursione, che portò alla devastazione delle basiliche fuori le mura e alla profanazione della tomba di Pietro. Teste di ponte. Gli Arabi riuscirono anche

a stabilire alcune basi sulla terraferma, teste di ponte da cui le scorrerie potevano ripartire con maggior facilità. Da quelle a Civitavecchia e alle foci del Garigliano (tra Lazio e Campania) furono cacciati nel 915 da una coalizione italica patrocinata dal papa. In fuga. Nel frattempo la popolazione aveva abbandonato molti centri sulla costa tirrenica, esposti alle incursioni, per ricostruirli nell’entroterra. Civitavecchia (Centumcellae) fu ricostruita una ventina di km all’interno e chiamata Leopoli. Solo dopo l’allontanamento dei Saraceni gli abitanti tornarono nella “vecchia città” (ribattezzata Civitas Vetula).

Dopo i barbari, fu la volta dei MERCENARI tedeschi e spagnoli Il teatro operativo dei Vichinghi, invece, era il Mare del Nord, ma le fonti ci permettono di stabilire che, tra l’859 e l’861, i pirati scandinavi si tolsero lo sfizio di saccheggiare anche le coste tirreniche (v. servizio Come demoni urlanti). Ben più costanti nella loro opera di devastazione furono i cavalieri ùngari (che comparvero per la prima volta al di qua 22

delle Alpi nell’899, quando re Berengario li fermò sull’Adda, per essere però sconfitto sul Brenta poco dopo. Nel secolo successivo, grazie soprattutto alla straordinaria velocità con cui agivano, arrivarono perfino a razziare le campagne laziali, Capua e Benevento. Senza fine. Dopo i cavalieri delle steppe, a costituire una minaccia per le

popolazioni italiche furono quasi esclusivamente le guerre tra mercenari assoldati da guelfi e ghibellini e le discese degli imperatori tedeschi; di colpo, le imprese di Galli, Unni, Vandali e Saraceni apparvero modeste se paragonate alle efferatezze dei Lanzichenecchi nel 1527 t (v. riquadro qui sopra). Andrea Frediani

EUROPA PREROMANA

I BISNONNI Origini, CREDENZE e vita quotidiana dei CELTI. Dominarono l’Europa prima di Roma, ma non furono solo GUERRIERI spietati

DI ASTERIX

Ricostruzione digitale di uno scontro tra Celti e Romani nel Nord della Francia. Per terrorizzare i nemici, i Celti usavano anche il frastuono dei corni da guerra.

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ILLUSTRAZIONI L. TARLAZZI

SCONTRO DI CIVILTÀ

Liguri e Veneti avevano affinità CULTURALI con i Celti, ma secondo alcuni restano popoli DISTINTI

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ozzi barbari inciviliti da Roma, ubriaconi spinti in Italia dall’amore per il vino, uomini bestiali pronti ad accoppiarsi con qualunque donna, madre o sorella che fosse. Dicerie sui Celti ne circolano parecchie. Ma si tratta solo di gossip, pettegolezzi messi in giro dagli storici greci e latini dell’epoca, poco amabili con quei nemici così in gamba con le armi, ma così avari di testi scritti da non aver lasciato fonti di prima mano sulla loro vita. Di loro, in compenso, ci rimane un’eredità molto varia, presente in quasi tutte le regioni europee. Un esempio per tutti: se tra il 31 ottobre e il 1° novembre avete avuto a che fare con dolcetti, scherzetti e zucche, non ringraziate gli Usa da cui è arrivata la moda di Halloween, ma le genti che nel IV secolo a.C. abitavano quasi tutta l’Europa, che festeggiavano il loro capodanno con riti confluiti, nel Medioevo, in quella ricorrenza. E che sono ricordati dai nomi di molte città, come Milano (da una voce celtica latinizzata in Mediolanum, “Centro del territorio”), Torino (Taurision, “Terra dei Taurini”), Ginevra e Genova (da genaua, “angolo”, “insenatura”).

Le tribù. Gli storiografi greci di oltre 2mila anni fa li chiamavano Keltoi (o più tardi Galati, riferendosi però solo a quelli che occuparono la regione vicina all’attuale Ankara, in Turchia) e per i latini erano Galli, ma i Celti erano in realtà divisi in numerose tribù. E i loro nomi ne richiamavano le qualità: c’erano i “terribili” Boi, gli “ardenti” Edui, i “feroci” Insubri, i Biturigi “re del mondo”, i Caturigi “re del combattimento”, gli “antichi” Senoni. Tutti credevano nelle stesse divinità, avevano le stesse abitudini e parlavano dialetti della stessa lingua: erano infatti accomunati da una stessa origine. «I Celti erano un insieme di popoli dell’Europa antica nati per etnogenesi, cioè dalla progressiva unione di bande guerriere indoeuropee, giunte nel nostro continente nel V-IV millennio a.C., con gruppi indigeni di agricoltori e allevatori», spiega Filippo Maria Gambari, archeologo soprintendente per i Beni archeologici dell’Emilia Romagna. «Dal 1600 a.C. circa li troviamo nell’area alpina, nell’Italia Nord-Occidentale, in Svizzera, nel bacino del Reno (Germania), nella Francia Orientale e nella Spagna Settentrionale. Portarono la loro lingua fin sulle coste atlantiche,

AUTARCHICI Ricostruzione di un villaggio celtico: le dimensioni ridotte permettevano l’autosufficienza.

LESSING/CONTRASTO

vandoli in acqua di gesso. Taluni si radono la barba, altri ostentano guance rase e baffi che coprono l’intera bocca”, raccontava lo storico greco Diodoro Siculo. Braghe di tela. Tanto per non passare inosservati, questi omoni amavano le vesti dai colori sgargianti. “Invece del chitone (la tunica lunga usata in Grecia, ndr) usano tuniche con le maniche lunghe, spaccate ai lati e lunghe fino al pube e al sedere”, precisava lo scrittore greco Strabone. Sotto indossavano pantaloni stretti di lana, chiamati dai Latini bracae, si proteggevano dal freddo con un mantello di lana multicolore, detto sagus, e ai piedi portavano stivaletti “da elfo”, con la punta ricurva verso l’alto. Le donne vestivano abiti larghi, con cinture di tessuto o di cuoio, e sfoggiavano bracciali al polso e alla caviglia; in inverno si coprivano con mantelli chiusi da spille. Sempre puliti e curati, i Celti tenevano molto al loro aspetto fisico. Anche se alcuni si distinguevano per rotondità alla Obelix, dovute all’amore per la birra. Tra i bevitori più incalliti c’erano i guerrieri: sembra che l’ebbrezza rituale (leggi pesante ubriacatura) fosse infatti uno dei modi, insieme ai rapporti omosessuali, con cui si rafforzava lo spirito di corpo dell’esercito. Terrificanti. A quanto pare, questo addestramento funzionava: i loro attacchi erano travolgenti. Con il torques (il collare ritorto, spesso d’oro)

L’anno lunare dei druidi

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on è maneggevole come quello di Frate Indovino, ma è altrettanto ricco di informazioni: il Calendario di Coligny (così detto dal nome della località nel Sud della Francia dove fu scoperto alla fine dell’Ottocento) è il più antico calendario celtico conosciuto. Venne inciso in lingua gallica con caratteri latini, nel II secolo d.C. su una lastra di bronzo, poi fatta a pezzi e finita in un pozzo. Cicli. Il calendario contiene, dicono gli studiosi, una sequenza di cinque anni lunari. L’anno celtico cominciava a samonios (il nostro novembre) e finiva a cantlos (il nostro

ottobre) ed era composto da 12 mesi di 29 o 30 giorni. Per mettersi in pari con il calendario solare, i Celti aggiungevano, ogni 5 anni, due mesi intercalari di trenta giorni. I druidi calcolavano il tempo in questo modo già in epoca precedente alla con-

quista romana, ma non lasciarono mai nulla di scritto. Per questo il reperto di Coligny è così importante. Forse, in contrasto coi loro usi, decisero di mettere nero su bianco il calendario per tramandare le conoscenze che si stavano perdendo con la romanizzazione.

PICTURE DESK

DIVINO Una divinità celtica del II secolo a.C. trovata in Boemia (Repubblica Ceca).

dalla Penisola iberica all’Irlanda (v. cartina nelle altre pagine)». All’inizio del IV secolo a.C. gruppi armati celti valicarono le Alpi (due secoli prima di Annibale e dei suoi elefanti), attraversarono il Po e invasero la Pianura padana dove regnavano gli Etruschi, occupando la costa adriatica fino al fiume Esino (nelle Marche) e riuscendo a saccheggiare Roma. Conquistatori. Secondo lo scrittore latino Plinio il Vecchio si erano riversati nella nostra penisola dopo aver assaggiato il vino, l’olio e i fichi provenienti dalla terra degli Etruschi. In realtà i Celti erano spinti dalla necessità di nuove terre. Del resto, non temevano niente e nessuno. Si dice che nel 335 a.C. al giovane Alessandro Magno risposero che “il solo evento che temiamo è che il cielo ci cada sulla testa”. Ma non c’era bisogno di simili fanfaronate: i Celti incutevano rispetto anche solo a guardarli. “Eccedono di molto le dimensioni comuni, il loro aspetto è terribile, sono alti di statura, con una muscolatura guizzante sotto la pelle chiara. Hanno i capelli biondi di natura e quando ciò non avviene se li schiariscono la-

Il Calendario di Coligny, in bronzo (II secolo d.C.).

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IL “CARRETTO” FUNEBRE Urna cineraria in bronzo del VII secolo a.C. rinvenuta presso Judenburg, in Stiria (Austria).

L’ANFORA

BOSCHI SACRI

Un’alta figura femminile sorregge un’anfora in lamina bronzea con decorazioni.

Un druido (sacerdote) sotto un albero sacro, contrassegnato da simboli religiosi. I Celti avevano il culto delle piante, e secondo alcuni studiosi il termine “druido” deriverebbe proprio dall’indoeuropeo deru (“quercia”).

MASCHILE Il carro è lungo 43 cm: oggetti simili erano di solito nelle tombe dei maschi.

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IN CORTEO Le figurine riproducono un corteo con un cervo da sacrificare.

LA DEA-CERVO Il cervo era un animale sacro per i Celti, identificato con una dea.

C’è chi ritiene credessero nella REINCARNAZIONE

Pittura rupestre della fase arcaica dell’arte celtica (IX-VI secolo a.C.) scoperta in Bulgaria e realizzata con escrementi di pipistrello.

LESSING/CONTRASTO (2)

PIETRE (E NON SOLO)

indossato sul petto nudo, quegli uomini armati dai capelli lunghi riuscivano a spaventare persino i legionari romani con urla e canti accompagnati dal suono lugubre dei corni da guerra e dal frastuono delle lance battute sopra gli scudi di legno. A ciò si aggiungevano i carri da guerra: leggeri, simili a bighe trainate da due cavalli, erano l’asso nella manica dei Celti in campo aperto. Un’altra abitudine dei Celti suscitò l’orrore dei Romani: l’uso di tagliare le teste ai nemici per appenderle al proprio cavallo o per esporle, imbalsamate, sulla porta di casa. I teschi, che i Celti consideravano sede della forza, in occasioni particolari diventavano coppe sacre da usare nelle feste più solenni. Divisi. Molti fecero della loro abilità nell’arte della guerra un lavoro: mercenari capaci e richiestissimi, si spostavano a gruppi, portandosi dietro carovane di mogli, bambini e beni. I guerrieri non si facevano certo problemi ideologici, neppure se dovevano combattere contro altri Celti. Le tribù non erano molto unite fra loro, se non quando erano minacciate da un nemico comune. «I Celti della Pianura padana, influenzati dal mondo italico, era-

no governati da due assemblee: una composta dai capi dei principali clan che componevano la tribù e l’altra dai giovani guerrieri. In caso di conflitto, spettava a queste assemblee eleggere un comandante unico per tutti i popoli confederati, denominato probabilmente takos», dice Gambari. Anche le donne potevano ricoprire questo ruolo: una delle più famose condottiere fu la coraggiosa ma sfortunata Budicca, a capo della tribù degli Iceni, che sfidò l’esercito romano in Britannia (vedi articolo pagine seguenti). Del resto, pare che le donne, che nella società celtica avevano gli stessi diritti degli uomini, potessero anche ricoprire il ruolo di druido: un po’ come se oggi la Chiesa cattolica permettesse alle suore di diventare prete o cardinale. Non era cosa da poco: i druidi, i sacerdoti dei Celti, erano molto influenti. Sapienti. Secondo alcuni storici il loro nome derivava dall’indoeuropeo wid (“conoscenza”) e deru (“quercia”). E proprio su un tipo di quercia cresceva il vischio, la pianta più sacra per questi saggi che, vestiti di bianco, la raccoglievano con un falcetto dorato nelle notti di luna piena, insieme ad altre erbe usate come medicine.

Precursori dell’ecologismo?

I

Celti avevano un rapporto particolarmente stretto con la natura. Alcuni presero dagli alberi il loro nome, come i Bagienni dell’Appennino ligure (dal nome che loro davano al faggio) e i Galli Lemovici (“Coloro che vincono con l’olmo”). Altri battezzarono le città rifacendosi, per esempio, al salice, come nel caso delle numerose

Salica, trasformate in seguito nei toponimi francesi Saulx o Sauze. Ideali verdi. «In un’economia abituata allo sfruttamento pianificato del bosco, i Celti proclamavano sacri alcuni alberi anche per limitarne il taglio e favorirne la proliferazione», spiega l’archeologo Filippo Maria Gambari: «la quercia e il faggio, che fornivano

ghiande per gli animali e per gli uomini nei periodi difficili; il salice grigio, dalla cui corteccia ricavavano efficacissimi rimedi contro la febbre; il tasso, con cui costruivano gli archi; l’olmo e il frassino, legnami eccellenti per i carri leggeri e le lance; il sorbo, il cui frutto favoriva la fermentazione della birra e di altre bevande alcoliche».

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Pitti

Area celtica nel V secolo a.C. Goideli

Espansione celtica dal IV sec. a.C.

Britanni Influenza celtica dal IV-III sec. a.C.

Iceni Trinovanti Brusteri

Galaici Asturi

Belgi Armoricani Treveri Senoni Biturigi Edui Arverni Elvezi Caturigi Aquitani Volci Allobrogi

Boi Norici Scordisci

Celtiberi Lusitani Galati

Come le gerarchie della nostra Chiesa, i druidi costituivano una casta con proprie leggi interne: erano esentati dalla partecipazione alle battaglie e non pagavano le tasse, ma per raggiungere questa condizione dovevano studiare per vent’anni i culti e le leggende del loro popolo, l’astronomia e la matematica. Il tutto a memoria. Non che non avessero a disposizione un alfabeto, ma preferivano usare la scrittura quasi unicamente nelle questioni pratiche, come quando esercitavano il loro ruolo di giudici. Secondo Giulio Cesare, due erano i motivi per cui i druidi non amavano prendere appunti: “Primo perché non vogliono che le loro norme siano messe a disposizione del volgo e poi perché i discepoli, confidando nella scrittura, non vi si applichino con minor attenzione”. Riti forestali. Unici depositari del sapere, i druidi avevano il fondamentale compito di interagire con le divinità. «La religione celtica aveva alcuni tratti comuni con altre religioni indoeuropee, ma venne influenzata anche dal mondo etrusco, greco e romano», spiega Gambari. Nei boschi, vicino a fiumi e sorgenti adoravano Kernunnos, dio della fortuna con le corna di cervo, e Artio, la deaorsa della caccia, ma anche le Tre madri (divinità simili alle Parche greche che tessono i destini degli uomini), Teutate (il Marte celtico) e Taranis, un Giove che scagliava saette e produceva il rumore 30

del tuono con una ruota sopra le nubi. E, ancora, il greco Ercole-Ogmios, corrispondente all’Ogma celtico, una divinità guerriera che sopravvive nelle leggende irlandesi e che si credeva fosse stato l’inventore della scrittura ogam, l’enigmatico alfabeto delle isole britanniche. Durante carestie, epidemie e calamità naturali, queste divinità potevano essere placate solo con l’offerta di vite umane: ladri e prigionieri finivano abbrustoliti dentro casupole o pupazzi di vimini. Falò altrettanto grandi, ma meno macabri, si accendevano durante le principali quattro feste dell’anno. Alla fine di ottobre i Celti celebravano Samhain, il capodanno celtico: i druidi si lanciavano in presagi per il futuro, come gli astrologi di oggi, e accendevano fuochi in attesa che, solo per quella notte, le anime tornassero dall’aldilà. Con la cristianizzazione (a partire dal IV secolo d.C.) questa festa si sovrapporrà a quella di Ognissanti. E i cristiani adotteranno nel loro calendario anche la festa di Imbolc (diventata poi la Candelora) che si celebrava all’inizio di febbraio. Quando i Celti ascoltavano le storie del proprio clan, lo facevano rendendo prima omaggio alla dea Brigit, ispiratrice dei poeti, curatrice e purificatrice, che preannunciava il ritorno della bella stagione. Danze e canti accompagnavano anche, nella

IL MONDO CELTICO Nella cartina, la distribuzione dei principali popoli celtici in Europa.

SINCRETISMI Antica croce in un cimitero a Lonan, sull’isola di Man, nel mare d’Irlanda. I Celti usavano già, da pagani, il simbolo della croce.

Veneravano il Dio della FERTILITÀ Belenos, secondo alcuni all’origine del termine ligure BELÌN (“pene”)

STATUARI

NATIONAL GEOGRAPHIC

Un guerriero dal corpo tatuato. Gli scudi in bronzo da cerimonia non erano usati in battaglia, dove si preferivano quelli in legno, più leggeri.

tradizione dei Celti d’Irlanda, la festa primaverile di Beltaine (il nostro Calendimaggio) dedicata alla fecondità e al dio della fertilità Belenos. «Durante questa festa legata alla sessualità, le donne saltavano sopra il fuoco per propiziare la gravidanza e, probabilmente, si celebravano matrimoni “a termine”, della durata di un anno, rinnovabili all’occorrenza: era un’usanza non infrequente tra diverse popolazioni guerriere dell’antichità, e secondo alcuni anche celtica», continua Gambari. Ma gli accordi matrimoniali si stringevano anche ad agosto, durante il Lúgnasad o “assemblea di Lug”, il dio del Sole nel percorso notturno, accompagnatore delle anime agli inferi e protettore dei commerci (un po’ il Mercurio latino). I villaggi si animavano di fiere, mercati, bardi e cantori; amici lontani si incontravano nei raduni tribali e si sfidavano in gare e giochi di forza, proprio come nei moderni Highland Games della tradizione scozzese. Birra e porchetta. Nei lunghi banchetti festivi, ospite immancabile era il porcellino allo spiedo. Chi non combatteva e non era druido si occupava infatti di allevare bovini, maiali, capre, oche, galline e di coltivare la terra, bene comune di tutta la tribù. Abili agricoltori, i Celti lasciarono ai Romani ricchi campi di cereali: farro piccolo, frumento, segale, avena, miglio, grano. Non ultimo l’orzo, con cui producevano la ceruesia, la loro birra scura (il cui nome, che deriva da “cervo”, si riferirebbe al suo colore). Ma oltre che birrai e agricoltori, i Celti erano anche artigiani, abilissimi nella lavorazione dei metalli: fabbricarono non solo gioielli e armi, ma anche asce, falci e altri attrezzi di ferro con cui costruirono i ponti di legno e gran parte delle strade dell’Europa Nord-Occidentale. Cesare nel suo resoconto sui popoli della Gallia ripeté spesso che i suoi uomini, impegnati nella conquista, riuscirono così a muoversi rapidamente attraverso il territorio. Facilitati almeno in questo, all’incirca nel I secolo a.C. i Romani da sud e i Germani da nord finirono di sottomettere la maggior parte delle tribù. Scomparve così, tranne che nelle isole britanniche, la lingua dei Celti. Ma non l’eredità, da Halloween alla birra, fino alle strisce di Asterix. t Maria Leonarda Leone

GALLIA RIBELLE

P

er conquistare la Spagna, Roma impiegò secoli. Per la Giudea, quasi 200 anni. La Germania non l’ha mai conquistata, la Dacia (nei Balcani) la perse in poco tempo. La Gallia, invece, cadde in soli otto anni, quelli del proconsolato di Giulio Cesare, a metà del I secolo a.C. Dopo di allora, l’impero non dovette più fronteggiare alcun ritorno del nazionalismo gallico, e la regione che poi sarebbe diventata la Francia – ma in parte anche il Belgio e l’Olanda – si sarebbe integrata perfettamente con usi e costumi romani. Eppure, quegli otto anni furono lunghissimi per gli abitanti di quei territori, determinati a rifiutare il

dominio romano. Resistettero finché Cesare ci diede, letteralmente, un taglio: fece amputare le mani ai difensori di un villaggio gallico di irriducibili, Uxelludunum, roccaforte dei Galli cadurci sul fiume Dordogna. A quel tempo, la grande ribellione del 52 a.C. era già stata archiviata ad Alesia (v. riquadro) e il suo leader languiva in catene, in attesa di essere esibito nel trionfo del conquistatore: l’epopea di Vercingetorige era durata lo spazio di pochi mesi, ma quel nome era già simbolo della resistenza all’imperialismo romano. Unificatore. Prima di Vercingetorige la Gallia non era mai stata unita. Le singole tribù erano perennemente in contrasto tra loro, ma non solo: al-

In Francia è un EROE NAZIONALE, per i Romani (e per Cesare in particolare) era il NEMICO pubblico numero uno. La storia del capo CARISMATICO che riuscì a UNIRE le bellicose tribù galliche

I GALLI DI 32

VERCINGE

SCONFITTO MA EROE La statua di Vercingetorige sul sito presunto della Battaglia di Alesia (52 a.C.) presso Alise-SainteReine, in Borgogna (sullo sfondo, la ricostruzione delle fortificazioni).

TORIGE

SEQUANAMEDIA.COM (7)

cune, come gli Edui, si erano alleate con i Romani, altre erano già sotto il dominio di Roma (come quelle della provincia Narbonense, nelle attuali Linguadoca e Provenza), altre erano state assoggettate dai Germani (più precisamente dai Suebi) o travolte da imponenti migrazioni, come quella degli Elvezi che Cesare arginò con le sue legioni. E se Vercingetorige fu il primo a dare unità ai Galli, si dovranno aspettare i Franchi di Clodoveo – cinque secoli dopo – e la dinastia merovingia per vedere la futura Francia unita sotto un’unica corona. La regione che i Romani chiamarono Gallia aveva dunque fatto della frammentarietà il suo tratto distintivo. Ma i popoli che la abitavano avevano molti

Qualcuno ha ipotizzato che VERCINGETORIGE fosse complice dei tratti comuni. A cominciare dalla religione druidica, che aveva il suo centro nella foresta dei Carnuti, vicino a Orléans. Qui ogni anno, il sesto giorno dopo il solstizio d’inverno, si celebrava la raccolta del vischio. I druidi erano la classe dirigente, sacerdoti ma anche giudici, insegnanti e guaritori, ritenuti dai loro connazionali depositari di poteri soprannaturali, come predire il futuro e trasformarsi in animali. Ogni “nazione” gallica aveva un re o una ristretta oligarchia al vertice della gerarchia politica, una cerchia di nobili guerrieri e la popolazione composta in gran maggioranza da contadini. Re degli eroi. Come Arminio, l’eroe della resistenza germanica che fermò i Romani nella Battaglia di Teutoburgo nel 9 d.C (vedi prossimo articolo), anche Vercingetorige aveva militato nell’esercito romano come ausiliario. Un cronista di molto posteriore, Cassio Dione (III secolo d.C.), si spinge a dire che era amico personale di Cesare; a partire da questo indizio c’è chi ha supposto che il capo gallico fosse addirittura un agente del proconsole, che lo avrebbe incaricato di scatenare la rivolta per permettergli di consolidare il proprio potere. Poco prima che Vercingetorige (ovvero “Grande re degli eroi”) emergesse dalle nebbie della Storia, Cesare aveva già sedato la rivolta di Ambiorige, il leader più prestigioso che i Galli avessero avuto fino a quel momento. Il proconsole poteva supporre di aver portato a termine il compito di

pacificare la Gallia, dopo sei anni di lotte ininterrotte. Capi giustiziati o esiliati, presidi legionari ovunque, territori talmente devastati che, a detta dello stesso Cesare, nessuno sarebbe stato in grado di sopravvivervi: erano il segno di un dominio imposto col ferro e col fuoco, tanto da aver spinto alcuni storici moderni a parlare di genocidio. Invece il peggio doveva ancora venire. Cominciò tutto a Cenabum, dove in pieno inverno la tribù locale dei Carnuti compì un massacro di funzionari e commercianti romani. L’azione, probabilmente decisa durante la cerimonia della raccolta del vischio e dunque “benedetta” dai druidi, riaccese ovunque il nazionalismo gallico. Ci furono sollevazioni in serie, alle quali mancava solo una guida comune per sfociare in rivolta generale. L’uomo che i Galli aspettavano si trovava tra gli Arverni, uno dei popoli più potenti della Gallia, stanziato nella regione dell’Auvergne (Francia Centrale). Gli Arverni, si narrava, secoli prima avevano partecipato all’invasione dell’Italia, poi si erano spartiti il dominio della Gallia stessa con gli Edui. E sempre un re degli Arverni, tale Luernio, sfoggiava la sua ricchezza percorrendo le strade sul cocchio e gettando manciate di oro e argento, mentre un altro (Bituino) era stato deposto dai Romani nel 121 a.C. Il padre di Vercingetorige, Celtillo, aveva esteso il proprio potere a tal punto che i suoi stessi connazionali-rivali per fermarlo lo avevano giustiziato.

PRONTI A COMBATTERE È il 52 a.C. e i Parisi, i Galli della zona di Lutetia, si preparano alla rivolta che sarà poi sedata dal romano Labieno. Come si vede nella ricostruzione, i Galli furono tra i primi a indossare pantaloni.

Romani e che la rivolta fosse un pretesto fornito a GIULIO CESARE NEMICI SCHIERATI La ricostruzione storica di una battaglia fra Galli e Romani delle associazioni Les Enfants de Finn e Gladius Scutumque.

Giovane baldanzoso. Quando iniziarono a circolare le notizie sull’eccidio di Cenabum, Vercingetorige, che Cesare nel De bello gallico definì di giovane età, eccitò gli animi alla rivolta. Incontrò però l’opposizione della classe dirigente arverna, che lo espulse dalla capitale Gergovia. Ecco come il proconsole, nella sua mirabile prosa asciutta, ne descrive l’ascesa: “Non rinuncia all’iniziativa e arruola nelle campagne i poveri e i disperati. Mes-

so insieme questo nucleo, convince tutti i concittadini che incontra a passare dalla sua parte; li esorta a prendere le armi per la libertà comune; riunite infine truppe numerose caccia dalla città i suoi avversari, dai quali poco prima era stato espulso”. A quel punto, Vercingetorige fu proclamato re dai suoi fedelissimi. Racconta ancora Cesare: “Spedisce in ogni direzione delle ambascerie; scongiura tutti di mantenersi fedeli. In breve tempo lega a sé i senoni, i parisi, i pittoni, i cadurci, i turoni, gli aulerci, i lemovici, gli andi e tutti gli altri che abitano sulla costa dell’oceano”. Ed è sempre Cesare a tramandare le informazioni sullo “stile di governo” del capo dei Galli: “A uno zelo grandissimo accompagna una grandissima severità nell’esercizio del potere; tiene insieme gli esitanti con la gravità delle pene. Infatti fa uccidere col supplizio del fuoco e con ogni altro tormento i colpevoli di gravi delitti, per una colpa più leggera rimanda a casa il colpevole dopo avergli fatto tagliare le orecchie e cavare un occhio, perché siano di esempio ai rimanenti e gli altri si spaventino per la grandezza del castigo”.

La battaglia definitiva

L

’altura su cui troneggiava Alesia era alta 418 metri sopra il livello della pianura. Cesare la circondò con imponenti opere d’assedio: è stato calcolato che i suoi soldati mossero qualcosa come 2 milioni di metri cubi di terra per realizzare otto campi fortificati e 23 campi minori, distribuiti lungo un doppio vallo, uno rivolto verso la città (lungo 16,5 km), l’altro verso la pianura (di 21 km). Oltre il terrapieno alto 4 metri, disseminato di spuntoni a forma di corna di

cervo e preceduto da due fossati riempiti dall’acqua del fiume Oserain, il proconsole allestì 5 successive linee di sbarramento. Logorante. Vercingetorige si mantenne fedele alla sua strategia: evitare il combattimento in campo aperto, nell’attesa che giungessero i rinforzi di suo cugino, Vercassivellauno. Ma il blocco romano si prolungò a tal punto che il capo arverno dovette limitare le bocche da sfamare in città ai soli combattenti, evacuando i civili, che si ridussero a

morire di fame davanti al campo romano. Quando l’esercito di soccorso arrivò, con ben 250mila uomini secondo Cesare, ci fu la battaglia. I Galli tentarono un attacco notturno a tenaglia, ma nell’oscurità non poterono evitare le trappole disseminate dai Romani lungo il terreno. Cesare, inoltre, arginò ogni assalto al vallo grazie alla cavalleria. Quando l’esercito del cugino dovette battere in ritirata, Vercingetorige capì che la rivolta era fallita e non ebbe altra scelta che arrendersi.

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MASTRI COSTRUTTORI E FALEGNAMI La tipica abitazione gallica, a pianta quadrangolare e con un telaio di legno, era composta da una sola stanza con il pavimento in terra battuta, talvolta con un piano ammezzato.

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1

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Nell’Ottocento il CAPO gallo divenne un eroe ROMANTICO e un simbolo di NAZIONALISMO In guerra. Cesare, che in quel momento si trovava a sud delle Alpi, si precipitò per colpire la riottosa Arvernia, noncurante della neve ammassata sui passi. Vercingetorige rispose spostandosi nei territori alleati di Roma e costringendo così il proconsole, in nome del prestigio dell’Urbe, a venire loro in soccorso. Cesare diede inizio a una serie di assedi che culminarono con quello di Avarico, l’odierna Bourges, caduta dopo un contrattacco finito male. Questa sconfitta, paradossalmente, rafforzò il prestigio di Vercingetorige, che aveva sconsigliato di affrontare i Romani in campo aperto. I 36

due antagonisti puntarono allora su Gergovia, dove ebbe luogo l’assedio successivo. E stavolta fu a Cesare che andò male. Per lui non fu una gran batosta, ma molte tribù si decisero allora a passare con Vercingetorige. La resa dei conti fra l’armata gallica (quasi 100mila uomini) e i Romani ebbe luogo ad Alesia, oggi in Borgogna. Quando la città fu alla fame e l’esercito di soccorso sconfitto, il giovane capo arverno rassegnò il proprio mandato davanti all’assemblea dei capi e si consegnò al proconsole. La scena della sua resa, immortalata dal resoconto di Cesare, è certamente una delle più famo-

PARIGI AGLI ESORDI La ricostruzione di Lutetia (Parigi) in 3D. Le città galliche (che Cesare chiamò oppida) erano costruite vicino ai fiumi e fortificate.

QUELLA CASA NELLA PRATERIA Ricostruzione di una fattoria gallica, circondata da un recinto e con diversi animali domestici. Fino al II secolo a.C. c’erano soltanto abitati rurali.

I segreti della casa gallica 1 Le mura erano in legno e ”torchis”, un sistema che impiegava un impasto di acqua, terra e paglia (qualcosa di simile a una sorta di calcestruzzo naturale). 2 L’impasto

del “torchis” si sovrapponeva a rami intrecciati.

3 I popoli celtici come i Galli non conoscevano il camino: si lasciavano fuoriuscire i fumi attraverso un buco ricavato nel tetto.

5 In molte abitazioni c’era un mezzanino. Anche per questo l’impalcatura in legno doveva essere molto resistente.

4 La struttura dell’abitazione era costituita da pali di legno provenienti da alberi solidi e alti, come la quercia o il faggio.

6 I tetti erano fatti di paglia, materiale molto isolante, o di legno (quando si trattava di case prestigiose).

se della Storia. Il proconsole racconta che il capo gallo si presentò al suo cospetto in equipaggiamento completo, su un cavallo bardato di tutto punto, con il quale compì al galoppo un giro intorno alla postazione del vincitore assiso su una sedia curule, prima di scendere di sella, gettare armi e corazza ai suoi piedi e sedersi accanto a lui senza dire una sola parola. Eroe. Il “Grande re degli eroi” non avrebbe dato più noie al futuro dittatore. Fu giustiziato sei anni dopo, strangolato nel carcere Mamertino, dopo essere stato esibito come un trofeo per le vie di Roma. Una fine che contribuì, soprattutto nell’Ottocento romantico, a farne un simbolo del nazionalismo gallico e un campione della libertà. t Andrea Frediani 37

A OVEST

Fiere e ribelli, le POPOLAZIONI IBERICHE diedero filo da torcere ai Romani, che entrarono in HISPANIA attratti dalle ricche RISORSE minerarie. Solo AUGUSTO riuscì ad assoggettarle

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Estremo OCCIDENTE

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n osso durissimo da conquistare. Ecco che cosa si rivelò per Roma il limes spagnolo, la terra dove Ercole – secondo il mito – aveva varcato le colonne del mondo conosciuto. Perché le numerose tribù che la abitavano si opposero strenuamente alla penetrazione dei nuovi venuti. Chi erano. Degli spagnoli preromani, in realtà, si sa poco o niente. Fenici e Greci (i primi ad aver fatto della Penisola iberica il loro serbatoio di risorse naturali, fondandovi importanti colonie) non hanno lasciato testimonianze di contatti coi locali. Quel che è certo è che la Spagna che incontrarono i Romani era un mosaico etnico. A parte i discendenti della misteriosa civiltà tartessica (nel Sud dell’attuale Spagna), forse autoctona o forse influenzata dai Fenici, c’erano gli Iberici, un popolo non indoeuropeo immigrato probabilmente intorno all’VIII secolo a.C., prima dei tempi di Romolo e Remo. Gli Iberici si mischiarono presto con le genti celtiche, parenti dei Galli arrivati intorno al VII-VI secolo a.C. Grosso modo, gli Iberici si stanziarono sulle coste mediterranee, mentre i Celti stavano nelle regioni centrali e nel Nord. Di questi ultimi ci restano i resti di villaggi, piccoli e fortificati come quelli dei Galli, e qualche reperto archeologico. Dalla secolare convivenza con gli Iberici, che invece preferivano vivere in borghi, i Celti assunsero il linguaggio e il rito della cremazione dei morti. Infine c’erano i Lusitani, gente nobile e fiera, dai 38

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lunghi capelli. Proprio fra questi ultimi ci furono i più strenui ribelli alla dominazione romana, nonché i più valorosi capi militari. La conquista. Dopo la vittoria su Cartagine nella Battaglia del fiume Ebro (217 a.C.), i Romani presero il posto dei Cartaginesi. «Come è citato addirittura nella Bibbia, nel I libro dei Maccabei, i Romani si spinsero all’interno della Spagna attratti dalle ricche miniere d’oro e d’argento. In un certo senso, fu la prima guerra spiegata da motivi economici», osserva Lucio Troiani, docente di Storia romana all’Università di Pavia. Lo storico greco Strabone, nel III libro della sua Geografia, parla (solo per sentito dire, perché in Iberia non mise mai piede) di CARRETTO IBERICO Scultura in bronzo del V-III secolo a.C. Rappresenta un uomo a cavallo intento nella caccia al cinghiale. A destra, una scultura degli Iberici.

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Conquiste di Roma 264-191 a.C. Conquiste di Roma 190-133 a.C.

Conquiste di Augusto 27 a.C.-14 d.C.

DUE SECOLI DI LOTTE Nella cartina, le tribù di Celtiberi e Lusitani si opposero a lungo ai Romani, che riuscirono a occupare la Penisola iberica (divisa in Hispania Ulterior e Citerior) solo in età imperiale, dopo due secoli di guerre sanguinose.

AISA/ALINARI (2)

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Gli Iberici furono INGLOBATI nell’impero con la violenza. La loro “ROMANIZZAZIONE” fu imposta più che concordata, tant’è che rimasero per sempre cittadini di SERIE B ALINARI

queste favolose ricchezze minerarie: “Fino a oggi né oro, né argento, né bronzo, né ferro sono stati prodotti, a quanto risulta, con tale abbondanza e qualità in nessuna altra parte del mondo”. Tutti – indigeni e stranieri – furono progressivamente spazzati via dalle legioni di Roma e dai colonizzatori latini. La romanizzazione fu quindi, a conti fatti, più un’assimilazione che un’integrazione rispettosa dei costumi locali. Domati. Una volta colonizzata, la Spagna divenne una delle terre più romanizzate dell’impero. Lo dimostrano, oggi, i resti romani di Cadice o di Siviglia. Non solo. L’ex Iberia, diventata Hispania, fu teatro di alcuni degli scontri interni più duri. Come quello fra Pompeo e Quinto Sertorio, generale romano che fece della Spagna la base della sua rivolta. Al momento della guerra civile romana del 90 a.C., Sertorio si era schierato dalla parte di Caio Mario contro Lucio Cornelio Silla, e proprio alcune sue vittorie in Africa contro i Sillani lo avevano messo in buona luce presso le popolazioni ispaniche. «Grande oratore, rispettoso dei costumi locali, Sertorio creò un senato di 300 membri aperto anche a importanti capi ispanici e si circondò di una fedelissima guardia del corpo di Celtiberi», aggiunge Troiani. «Sertorio divenne talmente popolare in Hispania da guadagnarsi il soprannome di “nuovo Annibale”». Per sette anni Roma tentò di sconfiggerlo con le sue legioni, ma vi riuscì soltanto mettendogli una taglia sulla testa, che ne provocò l’assassinio a tradimento durante un banchetto. Finì così, come un personaggio di Shakespeare ante litteram, l’unico romano che governò in Iberia con il t rispetto e non con l’oppressione.

VILLAGGIO RURALE La cittadella di Calafell, vicino a Tarragona, in Catalogna, costruita dagli Iberici durante l’Età del ferro (VI-I secolo a.C.).

Irene Merli

Gli altri barbari di Spagna

L

a Spagna fu teatro, nella tarda antichità, di due importanti migrazioni “barbariche”, che diedero vita ad altrettanti regni: quella dei Vandali e quella dei Visigoti. I Vandali, di provenienza orientale, nel II secolo d.C. si stanziarono in Boemia (attuale Repubblica Ceca). Nel 335 ricevettero dall’imperatore Costantino I lo status di foede-

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rati (ovvero alleati) e divennero una popolazione considerata strategica da Costantinopoli per la sua posizione lungo il corso del Danubio. Ma l’avanzata degli Unni giunti dalle steppe li spinse sempre più a ovest. Dopo aver raggiunto la Penisola iberica (intorno al 409), i Vandali (che erano ottimi navigatori) sbarcarono nel 429 lungo le coste nordafricane e qui, sotto la

guida di re Genserico (389-477), fondarono un potente regno fra le odierne Algeria, Libia e Tunisia. Nel 534 furono spazzati via dai Bizantini. Seconda invasione. L’altra grande ondata diretta in Spagna fu quella dei Visigoti, popolazione di origine scandinava che regnò in Europa occidentale dal V all’VIII secolo e seppe restare indipendente

dei Bizantini, nonostante i tentativi di questi ultimi di riprendersi l’Iberia. Fu la pressione dei Franchi a spingere i Visigoti fuori dalla Gallia verso la Penisola iberica. Qui occuparono gran parte della Spagna e diedero vita a una società multietnica con capitale Toledo. Solo un’altra grande invasione, quella araba, mise fine, nel 711, al loro regno.

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LA SCONFITTA

Due millenni fa nella FORESTA di Teutoburgo i Germani fermarono

LA TRAPPOLA

C.JEGOU

G

ermania-Italia 3-0. Nella storia del calcio un risultato così non si è mai registrato; nella “grande Storia” sì. L’incontro si svolse 2.006 anni fa tra le piovose foreste del Nord-Ovest della Germania: non tirando pedate, ma a suon di bastonate, sgozzamenti e risse corpo a corpo. In campo non c’erano arbitri, ma nonostante ciò il risultato fu incontestabile: 3 non erano i gol, bensì il numero delle legioni distrutte dai guerrieri germanici; lo 0, poi, esprimeva quanto restava dell’esercito romano inviato a presidio del Reno, confine dell’impero. La disfatta costò forse 23mila morti: in tutta la sua storia, Roma aveva vissuto solo un’altra sconfitta simile, quella patita a Canne per mano di Annibale, nel 216 a.C. Racconta Svetonio, biografo di Augusto, che dopo aver saputo della strage in Germania l’imperatore non riusciva a darsi pace, tanto “da lasciarsi crescere per mesi la barba e i capelli e da sbattere ogni tanto la testa contro le porte gridando: ‘Quintilio Varo, rendimi le mie legioni!’”. Ma Varo, il comandante dell’armata distrutta, non poteva restituire più nulla, perché si era suicidato sul campo dopo aver visto morire i suoi. Colline verdi. Storiografi e annalisti latini battezzarono quel macello “battaglia di Teutoburgo”, dove il toponimo non indicava una città ma un saltus, cioè una catena di alture, all’epoca boscosa e selvaggia, che in Germania chiamano tuttora Teutoburger Wald (“Foresta teutoburghese”) benché in realtà i boschi di un tempo siano ormai in gran parte scomparsi per fare posto a ordinatissimi campi di patate, colza e cereali, tra i quali spuntano cittadine cariche di Storia e leziosi villaggi di fachwerk, le tipiche “case a graticcio” tedesche. Qualche nome? Il capoluogo della zona è Detmold, patria di Ferdinand Freiligrath, poeta romantico e seguace di Marx; non lontano c’è Lemgo, una delle prime città che si schierò con Lutero; e poco più a

42

l’ESPANSIONISMO di Roma. Spaccando l’Europa

DI ARMINIO

MASSACRATI IN 23MILA Ricostruzione della Battaglia di Teutoburgo (Germania). I guerrieri guidati da Arminio sorpresero le tre legioni di Quintilio Varo tra i boschi e le paludi presso il fiume Lippe. Le perdite romane furono enormi: 23mila uomini.

Dopo lo scontro i CENTURIONI prigionieri furono SACRIFICATI alle truci DIVINITÀ dei boschi est ecco Hameln, dove i fratelli Grimm ambientarono la fiaba del Pifferaio magico. Insomma, questa è Germania profonda. Il confine belga dista solo 200 km, ma in poche regioni lo stacco fra il mondo latino e quello tedesco è netto come qui: la causa è proprio la “partita” di Teutoburgo, che dopo 20 secoli produce ancora effetti. Quell’eccidio, infatti, non fu solo un bagno di sangue, ma una svolta epocale, che fermò l’espansione romana in Europa, fissando un confine (politico, culturale e linguistico) destinato a durare. Due fiumi. Ma ora guardiamo un po’ il campo di battaglia. Che in realtà fino a trent’anni fa si conosceva solo per sentito dire: si sapeva che si trovava fra un’altura e una palude nel bacino del Lippe, un affluente del Reno che nasce nella Teutoburger Wald. Nient’altro. Ma era molto, perché aiutava a capire qual era la posta in palio. Prendete una carta della Germania: vedrete due grandi fiumi che scorrono da sud a nord: il più occidentale è il Reno, il più orientale l’Elba. Il primo segna per un tratto il confine con la Francia; il secondo fino al 1990 divideva la Ddr dalla Germania Ovest. Ebbene: dopo che Giulio Cesare aveva conquistato le Gallie (cioè Francia e Belgio), Augusto aveva consolidato le posizioni sul Reno, fondandovi due fortezze: Vetera (oggi Xanten) e Magontiacum (Magonza). Ma Roma non era paga di quegli avamposti: voleva arrivare all’Elba. Pericolosi. A spingere sull’acceleratore non era tanto la smania di conquista, quanto la paura. Di là dal Reno, infatti, vivevano le tribù dei Germani: Cherusci, Catti, Cauci, Brutteri, tutti popoli che l’opinione pubblica romana giudicava barbari pericolosi. “Per indole detestano la pace”, avrebbe det-

to di loro, tempo dopo, lo storico Tacito, notando con malcelato disgusto che in Germania i bambini crescevano “nudi e sozzi” e che gli adulti avevano “occhi fieri e cerulei, capelli rossastri, corpi massicci, a misura di assalto”. Meglio soggiogarli in fretta, dunque. Così, nel 12 a.C., scattò l’invasione: i Romani passarono il Reno e risalirono il Lippe, fondandovi almeno cinque fortini, il più importante dei quali era vicino all’attuale cittadina di Haltern. La situazione era simile a quella che ha fatto da sfondo a mille film western, con i Germani nel ruolo dei pellirosse, i Romani in quello delle giubbe blu, e Haltern nella posizione di Fort Dakota. Inevitabile che i “pellirosse” reagissero: prima ci furono alcune rivolte isolate, poi arrivò la “partita finale” di Little Big Horn, leggi Teutoburgo. Serpe in seno. Veniamo ai protagonisti della tragedia, ovvero ai “capitani” delle due “squadre”. Di qua c’era il già citato Quintilio Varo, un cremonese di 55 anni cresciuto all’ombra di Augusto, che prima di finire in Germania era stato console a Roma, poi proconsole in Africa e legato in Siria: insomma, più un burocrate che un soldato. Il quale però aveva dimostrato tutta la sua durezza tre anni prima in Medio Oriente: quando la setta ebraica degli Zeloti aveva innescato una rivolta, Varo aveva sbaragliato i ribelli e ne aveva crocifisso 2mila. Il “capitano” del fronte avverso è conosciuto in Italia come Arminio, in Germania come Hermann, ma in realtà forse si chiamava Irmin. Capo e figlio di ca-

UNA MINIERA DI “SOUVENIR” Nella cartina a destra, il campo di battaglia come si presenta oggi, con la posizione di alcuni dei 4.500 reperti romani. Dove le legioni in marcia (frecce rosse) furono attaccate dai Germani (frecce nere) ora passano un canale e una strada statale.

QUESTO NON FUNZIONÒ Portafortuna con estremità fallica: non bastò per mutare la sorte romana a Teutoburgo.

Archeologi sulla pista delle monete perdute

BILDERBERG (2)

U

n ragazzo, una moneta e un ufficiale britannico hanno permesso di individuare il luogo della battaglia di Teutoburgo. Del ragazzo nessuno ricorda il nome, ma fu lui, nel lontano 1963, a trovare una

moneta romana (nella foto) tra le zolle di un campo ai piedi della collina del Kalkriese, una trentina di chilometri a nord-ovest di Detmold. Poi arrivò l’ufficiale, Tony Clunn, che nel 1987 prese a scavare nella zona e trovò altre 160 monete. Era la prova che ai piedi del Kalkriese, molti secoli prima, era successo qualcosa di strano. Ma non dimostrava ancora che questo “qualcosa” fosse il massacro del 9 d.C.

Rivelatore. Alla certezza quasi assoluta si arrivò nel decennio 1989-99, quando scavi sistematici portarono alla luce circa 4.500 reperti di epoca romana, fra cui ossa di cavalli e muli, 1.160 monete e 3.100 oggetti sicuramente militari: elmi, spade, punte di giavellotto, proiettili da fionda, bardature per cavalcature, gavette. Dettaglio rivelatore: in questa massa di reperti uno solo (uno sperone) era sicuramente germanico, il resto veniva tutto da Roma. Deduzione: ai piedi

del Kalkriese un’armata romana si era scontrata coi Germani ed era uscita distrutta dallo scontro, mentre gli avversari avevano subìto pochissimi danni. Muraglia. L’ultima scoperta fu la più stupefacente: sul luogo dello scontro c’erano i resti di un muro lungo 600 metri, che i guerrieri germani avevano costruito per chiudere ai Romani ogni via di fuga. E proprio sotto quel muro spuntò un deposito di armi e di oggetti, fra cui una splendida maschera di ferro da parata.

PALUDE Qui c’era un acquitrino dove molti Romani annegarono.

TERRAPIENO Presso il colle i Germani eressero un muro per appostarsi.

CAMPO Qui i Romani tentarono di accamparsi con i carri.

2

3

1

KALKRIESE Su questa altura si erano nascosti migliaia di Germani.

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2

3

Sopra, campanaccio di un animale al seguito (ritrovato nella zona 1); scheletro di un mulo delle salmerie (zona 2); una punta di giavellotto romano (zona 3). A destra, pezzi di corazze, spade ed elmetti; un paio di cesoie usate dai Romani.

T. ERNSTING/BILDERBERG

SEPPELLITI DA 2000 ANNI

45

ALINARI

L’ARMA principale dei Germani era la “FRAMEA”, una LANCIA molto corta e MANEGGEVOLE pi della tribù dei Cherusci, all’epoca della battaglia aveva solo 25-26 anni, eppure si era già fatto notare militando in Pannonia (l’attuale Ungheria) come ausiliario dell’esercito imperiale: tanto che a fine naja gli era stata concessa la cittadinanza romana. Nessuno sospettava che Irmin fosse la classica serpe in seno: in realtà il capo cherusco era un fervente indipendentista, ben mimetizzato. Criticati. Di entrambi abbiamo solo notizie di fonte romana, perché i Germani non conoscevano la scrittura. E di entrambi, come spesso accade dopo le partite perse, a Roma si scrisse malissimo. Valga per tutti il giudizio di Velleio Patercolo, storico minore dell’epoca, che attribuì la batosta a tre fattori: “l’indolenza del capo, la perfidia del nemico e l’ingiustizia della fortuna”. Che Varo non fosse un fulmine di guerra, lo affermano molti; ma si dice 46

così di ogni allenatore, anzi di ogni calciatore, se un Mondiale finisce con una Corea. Quanto al “perfido” Irmin, va detto che probabilmente era solo un freddo professionista e un buon tedesco. Volendo mantenere la metafora sportiva, potremmo paragonarlo a Karl-Heinz Rummenigge, calciatore degli Anni ’70-’80, che giocò per anni nelle file dell’Inter, ma che quando indossava la maglia della sua nazionale non aveva riguardo per nessuno. Infatti fu lui l’autore del gol decisivo contro l’Italia in una delle pochissime partite di calcio della Storia che gli azzurri abbiano perso contro la Germania: un’amichevole giocata nel ’77 a Berlino e finita 2-1. La differenza fra i due è che Rummenigge prima mise ko l’Italia e poi venne a giocare in una squadra italiana; Arminio invece prima militò nelle le-

AUGUSTO NON SI DIEDE PACE Sopra, particolare della Gemma Augustea, scolpita nel 12 d.C probabilmente dall’artista Dioscuride. La figura sul trono è l’imperatore Augusto, in carica all’epoca della terribile sconfitta di Varo.

davvero un 11 settembre, e non solo perché così diceva il calendario. Chi restò nel campo fu trucidato, chi sfuggì all’accerchiamento si buttò nelle paludi e morì annegato o colpito dalle lance nemiche. Rivincita. La cosa non finì lì, perché ogni 11 settembre si porta dietro una guerra in Afghanistan. E infatti 6 anni dopo Roma tornò all’attacco oltre il Reno, prendendosi qualche rivincita grazie a Germanico, generale meno indolente di Varo, nonché figlio adottivo del nuovo imperatore Tiberio. Le sue legioni sconfissero i Germani sul fiume Weser, riuscirono a dare sepoltura ai caduti di Teutoburgo, rimasti esposti agli avvoltoi, e recuperarono due delle tre aquile-insegne perse da Varo (disonore immenso che Roma non aveva digerito). La descrizione che Tacito diede del luogo della battaglia, visitato 6 anni dopo i fatti, è raccapricciante: “In mezzo alla pianura biancheggiavano le ossa, sparse o ammucchiate, a seconda della fuga o della resistenza. Accanto, frammenti di armi e carcasse di cavalli e teschi confitti sui tronchi degli alberi. Nei boschi vicini, are barbariche, sulle quali avevano sacrificato i tribuni e i centurioni”. Forse fu proprio vedendo quel mattatoio a cielo aperto che i Romani decisero di rinunciare alla conquista della Germania e di fissare per sempre il confine del loro impero sul Reno. Da allora l’Europa tedesca e quella romana presero strade definitivamente diverse, parlando, vivendo e persino mangiando in modi inconciliabili. E l’antica lingua tedesca non assorbì neanche una parola latina, a differenza dell’inglese, che pure è a sua volta di ceppo germanico. Per esempio in inglese “battaglia” si dice battle, cioè più o meno come nelle lingue neolatine (dal latino tardo battalia), mentre in tedesco suona kampf o schlacht. Che sono parole dure e aliene, ma in fondo più adatte a esprimere un macello come quello che 2.006 anni fa cambiò la Storia. t Nino Gorio

Hermann supereroe. O no?

I

n Germania Arminio ha spesso assunto il ruolo di eroe assoluto, fino a diventare un mito. Nel Medioevo leggende orali ispirate alla vicenda della Teutoburger Wald crearono la saga di Sigfrido, poi musicata nell’800 da Wagner. Ma a esaltare la figura di Hermann fu soprattutto Lutero, che nel ’500, con un’acrobazia cronologica, usò l’antico guerriero come simbolo dell’antagonismo fra il mondo tedesco e la “corrotta” Chiesa romana.

Monumento. Poi, nel tardo ’800, poco dopo l’unificazione tedesca, ad Arminio fu eretto il famoso Hermanndenkmal, il gigantesco monumento fuori Detmold, santuario della neonata identità nazionale, che oggi è meta di 2 milioni di visitatori l’anno. Intanto in America un’associazione (Ordine dei figli di Hermann) ne ha sponsorizzato una copia

in scala ridotta a New Ulm, nel Minnesota. Infine in Bundesliga (il campionato di calcio tedesco) gioca una squadra dedicata all’eroe di Teutoburgo: l’Arminia Bielefeld. Fatto fuori. Tanta popolarità è però in parte immotivata: nel 21 d.C. Hermann fu fatto fuori dai suoi stessi compatrioti, che ne temevano le mire autoritarie. Particolare della statua di Arminio a Detmold.

BILDERBERG

LEEMAGE/MONDADORI PORTFOLIO

SUL CAMPO Un romano e un barbaro in un bassorilievo del II secolo d.C.

gioni romane e poi le massacrò. Ma per i tedeschi questo è solo un dettaglio, che non ha impedito loro di trasformare Hermann in un eroe senza se e senza ma (v. riquadro in basso): poco fuori Detmold sorge un ciclopico monumento in suo onore, inaugurato dal kaiser Guglielmo II cinque anni dopo la guerra franco-prussiana del 1870. Ovvio che la statua abbia la spada sguainata verso il Reno, cioè verso la Francia. Un  settembre. Resta da dire qualcosa sulla dinamica della battaglia, che fu semplicissima. Tutto maturò nel settembre del 9 d.C., quando nelle foreste del Lippe i faggi iniziavano a tingersi d’oro e i cervi lanciavano i primi bramiti della stagione degli amori. Varo, di ritorno dalle scorrerie estive nei villaggi ribelli dei Germani, stava andando a svernare a Xanten, ma Arminio lo indusse a deviare lungo una strada mai fatta, col pretesto di andare a sedare una nuova ribellione. Il comandante abboccò e finì in un imbuto fra colli e paludi, dove i Germani avevano costruito un terrapieno per sbarrare la strada ai carri. Il 9 settembre scattarono i primi attacchi mordie-fuggi contro la colonna in marcia. Varo proseguì, infilandosi nella trappola. Il 10 nuovi attacchi e nuova decisione di continuare. Infine il giorno seguente i Romani, resisi conto della situazione, decisero di fermarsi e di trincerarsi in un campo provvisorio. Ma era ormai troppo tardi: quel giorno fu

CONFINI

Voluto nel 122 d.C. dall’imperatore, il VALLO DI ADRIANO avrebbe dovuto fermare i BARBARI di Britannia. Ci riuscì solo in PARTE

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F

iglio di tutti gli imperatori deificati, l’imperatore Cesare Traiano Adriano Augusto, dopo che la necessità di mantenere l’impero entro i suoi confini gli era stata imposta per ordine divino […] una volta che i barbari erano stati sbaragliati e la provincia della Britannia recuperata, aggiunse una frontiera di 80 miglia tra le due coste dell’oceano. L’esercito della provincia costruì il vallo sotto la direzione di Aulo Platorio Nepote, legato propretoriano di Augusto”.

ca meraviglia. A maggior ragione se pensiamo che il “mostro”, passato alla Storia col nome di Vallo di Adriano, fu realizzato in soli cinque anni. Le mani sul Nord. Gli interessi romani sulla Britannia risalivano ai tempi di Giulio Cesare (I secolo a.C.) che condusse ben due spedizioni oltre la Manica. Dopo di lui una lunga lista di imperatori, con più o meno successo, pose piede sull’isola. «Ma, per quanto costruito sui successi dei suoi energici predecessori, il merito della conquista fi-

AISA/ALINARI

In queste parole incise su due frammenti ritrovati in una chiesa di Jarrow (Inghilterra) a sud del fiume Tyne, zona immediatamente prospiciente il vallo, si riassume la storia della straordinaria costruzione voluta da Adriano nella prima metà del II secolo d.C. Agli occhi dei Britanni, abituati a ben più innocue fortificazioni di palizzate e terrapieni, quel serpentone di pietra che attraversava la loro isola da est a ovest snodandosi sui verdi altopiani dell’attuale Scozia dovette suscitare non po-

AKG/MONDADORI PORTFOLIO

SERPENTONE DIFENSIVO Un tratto del vallo fatto edificare da Adriano nel 122 d.C. per arginare i popoli della Caledonia (attuale Scozia). Lungo 120 km e alto in origine poco più di 4 metri, divise in due l’isola britannica. A destra, un busto dell’imperatore Adriano, sul trono dal 117 al 138.

A GUARDIA del vallo c’erano 9MILA soldati. Quasi tutti ausiliari e di ETNIE BARBARE, mai Britanni del posto: potevano ribellarsi

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gestione difensiva del territorio proprio costruendo il nuovo limes». Le continue sollevazioni della Britannia Settentrionale lo indussero ad affrettare i lavori di costruzione del vallo, fin dai primissimi anni del suo regno. A capo del progetto mise il suo amico personale Aulo Platorio Nepote, già governatore della Germania Superiore e quindi abituato a problematiche di confine. A lui fu data la carica di governatore della Britannia proprio per impostare e portare avanti i lavori di edificazione del vallo.

La tecnica della “muratura a sacco”

I

l Vallo di Adriano fu edificato quasi completamente con una tecnica ben collaudata che garantiva velocità di esecuzione ed economia: la “muratura a sacco”. Si innalzavano cioè due filari paralleli di pietre calcaree poste lungo linee dritte e re-

golari, lavorate a forma quadrata sulla facciata esterna e a cuneo su quella interna. Lo spazio tra i due muri veniva poi riempito d’argilla (per il 25 per cento) mischiata a pietrame (75 per cento). Pericolo caduta. Il tutto veniva poi rifinito con

malta per stuccare la facciata di pietra e, in alcuni punti, con una passata di calce. Benché la tecnica fosse rapida ed efficace, nel I secolo a.C. l’architetto Vitruvio avvertiva che il “ripieno” di pietrame avrebbe potuto favorire il cedimento del muro.

Resti di granai del forte romano di Housesteads (n° 8 nella cartina).

PASSAGGIO OBBLIGATO

1

Il fossato era interrotto solo da passaggi in terra compressa in prossimità delle porte.

AVVISTAMENTI 2 ll fossato scavato a V era largo 9-12 metri e profondo quasi 3. In alcuni punti l’argine interno era rialzato, per facilitare la difesa in caso di attacco.

MISURE DI SICUREZZA

SCALA

nale della Britannia Settentrionale spetta a Gneo Giulio Agricola, suocero di Tacito e governatore della Britannia per sette anni (77-84 d.C.)», spiega Nic Fields, già docente alla British school di Atene ed esperto di storia militare antica. All’epoca di Adriano, quindi, l’aquila romana spiegava già fieramente le sue ali sulla Britannia. Ma il territorio era tutt’altro che pacificato. Ribelli. Le regioni abitate dalle tribù genericamente chiamate dei Pitti – guerrieri tatuati (cioè picti in latino), considerati gli aborigeni del Nord britannico con Briganti e Caledoni – furono sempre zone calde che i Romani si preoccuparono di tenere sotto stretto controllo già prima della costruzione del vallo. Ci avevano provato con quello che in inglese antico era detto stanegate (“strada di pietra”) un sistema difensivo costituito da una semplice strada militare che univa i due forti di Luguvalium (Carlisle) a ovest e Corsopitum (Corbridge, 4 km a sud del vallo) a est, fiancheggiata da postazioni di controllo e difesa. Una frontiera che Publio Elio Traiano Adriano, il nuovo imperatore incoronato nel 117, giudicò tuttavia insufficiente. D’altronde Adriano la sapeva lunga in fatto di barbari. Era già stato tribuno sui confini del Danubio e del Reno, minacciati dai Germani, nonché governatore della Siria con esperienza diretta sulla frontiera dell’Eufrate. Se a questo aggiungiamo la sua passione per l’architettura, non è difficile immaginare che possedesse una certa dimestichezza con le difese frontaliere. Perciò, quando nel 122 visitò la Britannia a seguito di un viaggio lungo i territori sotto il suo governo, si rese conto che il limes (il confine) più settentrionale dell’impero doveva essere adeguato agli altri e decise di agire. Se altrove, infatti, frontiere naturali come fiumi e rilievi definivano il territorio romano dotandolo di un’efficace difesa, in quel caso il genio latino avrebbe dovuto supplire alle mancanze della natura con una muraglia che avrebbe diviso civiltà e barbarie. In difesa. Fissare confini divenne parte essenziale della politica di Adriano, imperatore filosofo che, succeduto a un guerriero e conquistatore come Traiano, aveva capito che l’impero aveva ormai raggiunto la sua massima estensione, superata la quale sarebbe divenuto ingestibile. «Dopo la scossa di Traiano in politica estera, la rinuncia a nuove conquiste e il ritiro dall’Oriente facilitarono il governo “ordinato” e le attività di pace», spiega Guido Clemente, docente di Storia romana all’Università di Firenze. «Adriano tornò quindi a una

3

Lo spazio tra muro e fossato preveniva il cedimento delle fondamenta del primo lungo l’argine del secondo.

Futuro Vallo di Antonino (142 d.C.)

DI FORTE IN FORTE Le moderne località dei 17 forti del vallo (da oriente a occidente): 1 Wallsend 2 Newcastle 3 Benwell Hill 4 Rudchester 5 Halton Chesters 6 Chesters 7 Carrawburgh 8 Housesteads 9 Great Chesters 10 Magnis 11 Birdoswald 12 Castlesteads 13 Stanwix 14 Carlisle (Luguvalium) 15 Burgh by Sands 16 Drumburgh 17 Bowness on Solway.

Territorio di Pitti, Briganti, Caledoni Londra 8 12 10

17

Estuario del Solway Mare d’Irlanda

Vallo di Adriano (122 d.C.)

14

16 15

11

4

6 9

5 3

13

Isola di Man

Mare del Nord

1

7

2

Britannia (provincia romana dal 43 d.C.)

Ecco come erano strutturati i fortini del vallo, che erano anche i suoi punti di attraversamento.

UN FORTINO A OGNI MIGLIO

POSTO PER TUTTI 9 Nelle camerate trovavano alloggio da una a 4 unità militari dette contubernia, ovvero 8-32 uomini.

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9

7

7

8

VIETATO ACCALCARSI

6

Lo spazio sul camminamento di ronda permetteva il passaggio di non più di due uomini in contemporanea.

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1

DOPPIA ENTRATA 7 3

Un portale posto sul lato nord e uno su quello sud permettevano di attraversare il vallo.

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2

V. SIRIANNI (2)

RESISTENTE

4

Le mura del fortino erano realizzate con “muratura a sacco” (v. riquadro). Lo spazio tra le due file di pietre era in argilla o malta e ciotoli.

UNISCI I PUNTI I castelli militari furono costruiti per primi, e solo in un secondo momento collegati fra loro dalla cortina muraria.

5

6

IL RANCIO È SERVITO Nel fortino (che misurava circa 18 metri di lato) c’era anche un forno per la cottura del pane e la preparazione del rancio.

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AKG/MONDADORI PORTFOLIO (2)

IERI

OGGI

Nei 120 km di vallo le TORRI di osservazione erano 158 e 80 le porte da cui passavano le MERCI Varianti. L’opera si rivelò più difficile del previsto. Nepote fu costretto a variare il progetto di Adriano, aggiungendo apparati difensivi. Nello schema dell’imperatore, infatti, le funzioni di controllo e difesa erano divise rispettivamente tra il muro, dal quale le guarnigioni dei castelli miliari avrebbero individuato i movimenti nemici, e i forti del vecchio stanegate, dai quali le legioni sarebbero intervenute in caso di attacco. Il progetto originario non prevedeva la possibilità di combattere sul muro: il parapetto era largo solo 60 cm e il camminamento di ronda tra gli 1,8 e i 2,3 metri, insufficienti per far passare gli uomini in assetto da battaglia. In più non esistevano feritoie per colpire d’infilata dalle torri, né piattaforme per alloggiare catapulte. La filosofia dell’esercito romano era sempre stata quella di affrontare il nemico in campo aperto e possibilmente nel proprio territorio: il muro sarebbe servito solo come base d’appoggio. Nepote pose le fondamenta in argilla impastata

immediatamente a nord delle valli dei fiumi Tyne, Irthing ed Eden occupandone le sommità per meglio controllare il territorio e partì dalla costruzione di quei castelli miliari, posti cioè a un miglio romano (1.480 metri) l’uno dall’altro, che sarebbero stati la base delle guarnigioni, per poi unirli tra loro con tratti di cortina muraria spessa al massimo 3 m e alta 4,4 m. Vie di accesso. Dotati di due portali, uno sul lato nord sormontato da una torre e uno su quello sud, questi castelli erano le porte d’accesso al muro, i punti da dove le guarnigioni sarebbero partite per le incursioni in territorio nemico ma anche l’edificio fortificato dove alloggiavano da 8 a 32 uomini. Proseguendo nella costruzione, tra un castello e l’altro furono inseriti a intervalli regolari anche torrette di avvistamento e segnalazione, in cui risiedevano non più di 8 uomini. Tutto questo per 80 miglia romane, cioè quasi 120 km, partendo da Wallsend sul fiume Tyne (v. cartina a pagina 64) fino all’estuario del Solway: i

IN COMPAGNIA A sinistra, ricostruzione delle latrine del vallo, con i sedili di legno. Ci si lavava con spugne infilate su bastoni. A destra, quel che rimane dei bagni del forte di Housesteads: l’acqua scorreva in un canale.

SIGNORA BRITANNIA

BRIDGEMAN/ALINARI

La personificazione della Britannia in una moneta in bronzo del 155 d.C. Sotto, un’iscrizione ritrovata sul Vallo di Adriano: ricorda la costruzione a opera della II legione “Augusta”.

Il cantiere del muro funzionava così

U

n progetto di archeologia sperimentale sviluppato a Chesterholm ha fatto i conti alla logistica del cantiere del vallo. Ponendosi l’obiettivo di costruire una replica di un tratto di muro con le tecniche romane, si è calcolato che per ogni 10 uomini impiegati all’effettiva costruzione, ne occorrevano 90 per occuparsi delle materie prime. Solo per la consegna dei materiali lungo il cantiere fu necessario l’impiego di 30mila veicoli, 5.800 buoi e 14.200 muli o cavalli, anche se è probabile che gli uomini stessi si occupassero del trasporto della maggior parte del materiale, almeno stando

alle raffigurazioni scolpite sulla Colonna traiana riguardanti la costruzione di forti militari. Si calcola per esempio che ci siano voluti 3,7 milioni di tonnellate di pietra calcarea solo per il rivestimento del muro (escludendo torri, castelli e forti). Infido. Riguardo invece alle difficoltà riscontrate nella costruzione, gli archeologi sperimentali hanno registrato un particolare impedimento nello scavo del fossato: il terreno reagiva infatti all’umidità a seconda delle condizioni meteorologiche. Diventava duro come una roccia quando il tempo era secco e appiccicoso quando era umido.

VITA MONDANA L’invito a una festa di compleanno tra mogli di ufficiali trovato a Vindolanda (oggi Chesterholm), poco lontano dal Vallo di Adriano.

MURO DA RICORDO

SCALA (3)

Il Vallo di Adriano rappresentato in forma stilizzata sulla copia di un vaso di bronzo risalente al II secolo d.C.

primi 66 km costruiti in pietra e i restanti in blocchi di terra compressa con un’ampiezza alla base di quasi 6 metri. Fin qui tutto era come l’aveva immaginato l’imperatore. Poi c’erano gli optional aggiunti da Nepote. Dai dati archeologici, infatti, risulta che fu tracciata una strada militare sul lato sud del muro, per accorrere più velocemente nelle zone che avessero avuto bisogno di rinforzi in caso d’attacco. Inoltre, un doppio fossato a sud della strada isolava la zona militare da quella civile. «Si decise di aggiungere una serie di forti lungo il percorso del muro e di velocizzare il processo di costruzione riducendone lo spessore da 2,96 metri (10 piedi romani) a 2,35 metri, poi fino a 1,83 metri (8 e 6 piedi)», spiega Fields. Tali forti di seconda linea, originariamen53

Presso i forti sorsero AGGLOMERATI di civili che facevano AFFARI con le truppe di PRESIDIO te non previsti, assunsero la funzione di difesa che mancava al complesso pensato per il controllo del territorio. Che sia stato un ripensamento di Adriano, un’idea di Nepote oppure una necessità nata sul posto dopo i continui attacchi britanni non è dato sapere. Quel che è certo è che 17 forti furono posti a mezza giornata di marcia l’uno dall’altro, dotati di rifornimenti per almeno un anno e di ospedali da campo per rimettere in sesto gli ausiliari di presidio. Al fronte. Come su ogni limes, anche qui le truppe a guardia del confine non erano infatti legionari ma ausiliari, cioè soldati appartenenti alla legione ma privi di cittadinanza romana e reclutati ai confini dell’impero o nelle zone prospicienti. Sotto la dinastia giulio-claudia (I secolo a.C.-I secolo d.C.) gli ausiliari erano reclutati nella zona che avrebbero presidiato, ma dopo la ribellione del 69-70 d.C. di larga parte dei soldati di confine sul Reno si cambiò politica, evitando di formare unità con una troppo forL’innalzamento di un muro è stato per te identità etnica vicino alla losecoli il metodo più efficace per resistere ro patria. ad attacchi e invasioni e per evitare Gli uomini del vallo non erafughe. I più celebri di ieri e di oggi. no quindi Britanni. Prova ne soGRANDE MURAGLIA no alcune lettere ritrovate nel for(Cina, a partire dal III secolo a.C.). te di Chesterholm (l’antica VinNacque dall’idea di contenere le dolanda) sulla linea del vecchio incursioni dei popoli confinanti e delle orde mongole. Misura 8.852 km. stanegate. Nelle missive gli indiLIMES GERMANICO-RETICO geni vengono chiamati sprezzan-

Altri muri

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Vincenzo Sirianni

RICICLATO Un altro tratto del vallo: alcune porzioni sono state depredate per riutilizzare le pietre.

AISA/ALINARI

(Germania, Austria, I-II secolo d.C.). Fortificazioni per 548 km erette dai Romani a protezione dei confini delle province della Germania Superiore e della Rezia. MURO DI BERLINO (Germania, 1961). Circondava Berlino Ovest, enclave occidentale nel territorio della Repubblica democratica tedesca. Misurava 155 km. MURO DEL SAHARA OCC. (Marocco, 1982). Si estende per 2.720 km, difende le miniere di fosfati della zona e controlla la costa, fra le più pescose del mondo. MURO DI TIJUANA (Usa-Messico, 1994). 1.200 km di lamiera e filo spinato per impedire l’immigrazione illegale da parte di messicani e centroamericani negli Usa. WEST BANK BARRIER (Israele, 2004). Voluta per scongiurare attacchi terroristici palestinesi. Lunga 730 km.

temente, dagli ausiliari barbari ma evidentemente non del luogo, “brittunculi”. Riscoperto. Agli occhi dei brittunculi il vallo doveva essere una struttura imponente, eppure nel giro di una generazione la grande muraglia romana fu abbandonata in favore di un’altra, il Vallo di Antonino, costruito nel 142 d.C. a 160 km più a nord. Ma il nuovo muro era inferiore sul piano qualitativo: appena 20 anni dopo, infatti, quello di Adriano fu “rispolverato” anche per le maggiori pressioni al confine. Ci furono seri attacchi nel 180 ma soprattutto tra il 196 e il 197, dopo di che furono necessari pesanti restauri sotto l’imperatore Settimio Severo: un preludio alla crescente instabilità che andava profilandosi sull’isola e che culminò tra la fine del IV e l’inizio del V secolo, quando la presenza romana in Britannia fu messa in seria discussione a seguito dei congiunti attacchi da parte dei Britanni e di Sassoni, Angli e Iuti giunti via mare. Da lì a poco l’aquila romana sarebbe stata spennata e avrebbe spiccato il volo dal Nord lasciandosi dietro quel muro buono ormai solo come cava di pietra. Fu usato a questo scopo fino al ’900. Eppure, dopo quasi due millenni, quel serpentone di pietra ammaccato e spezzettato striscia ancora per la Caledonia destando meraviglia negli occhi dei discendenti dei Britanni e in quelli di chi ne visita le terre. t

presenta

LA STORIA DA LEGGERE

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TIRANNI

LE VITE DEI DESPOTI PIÙ POTENTI E CRUDELI DI TUTTI I TEMPI.

Cenare in mezzo ai nemici impalati mentre si contorcono dal dolore, oppure far frustare il mare per la sua disobbedienza. Proclamarsi tredicesimo apostolo della Chiesa o provocare la morte di milioni di connazionali. Da Vlad “l’Impalatore” al re dei re Serse, dal nero Bokassa al “rosso” Pol Pot, solo i veri tiranni possono mostrare la volontà di ferro, il vanaglorioso egoismo e lo spietato abuso di potere necessari per realizzare qualsiasi cosa bramino, a prescindere da quanto possa essere terrificante o scellerata. Clive Foss descrive la vita di cinquanta tra i più brutali despoti mai esistiti e, muovendosi tra avidità, corruzione, follia, vanità, sadismo e terrore, mostra in tutta la sua spietatezza ciò che è stata e che continua a essere la piaga della disumanità dell’uomo sull’uomo.

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THE QUEEN

Lady di

FERRO Il suo nome voleva dire “ VITTORIA”, e dalla Britannia lanciò la SFIDA a Roma. BUDICCA finì sconfitta, ma per gli inglesi è un’ EROINA

SOGNI DI GLORIA Vedova del re degli Iceni, Budicca condusse nel I secolo d.C. una rivolta dei Britanni contro gli occupanti romani.

attuali Gran Bretagna e Irlanda. Inoltre fu sì una regina, ma spodestata e umiliata, che non si caratterizzò come detentrice bensì come antagonista del potere. Infine, di vincente ebbe solo il nome (tuttora in gallese buddug vuol dire “vittoria”); ma la sua, in realtà, fu una romantica ed emblematica epopea da perdente, stile Che Guevara. DIPINTI DI BLU. Per capire chi fu davvero Budicca prendete due-tre libri antichi, fra cui la Historia romana di Dione Cassio, da cui è tratta la descrizione della “regina” che abbiamo fatto all’inizio. Poi raggiungete le coste paludose del Norfolk, predilette da gabbiani e anatre selvatiche. Gli Iceni vivevano lassù: come tutti i Britanni, coltivavano grano, allevavano bestiame, parlavano una lingua simile al gallese odierno e come monete usavano barrette di metallo. Si depilavano tutto il corpo, salvo baffi e capelli; poi sulla pelle glabra spalmavano una tintura blu. A tramandarci queste notizie è Giulio Cesare, che in Britannia sbarcò, anche se non rimase. Degli indigeni, due cose colpirono il condottiero venuto dal Sud: la dieta e gli usi sessuali. Dieta: “La loro religione”, si legge nel De bello gallico, “vieta di mangiare lepri, galline e oche, animali che essi comunque allevano per proprio piacere”. Usi sessuali: “Hanno le donne in comune e vivono in gruppi di 10-12, soprattutto fratelli con fratelli e genitori con figli; se nascono bambini sono considerati figli dell’uomo che si è unito alla donna per primo”. ROMANI INVASORI. L’incontro fra i Britanni e Giulio Cesare nel 55-54 a.C. fu burrascoso ma effimero. Una tempesta di portata ben più profonda fu quella che si scatenò nel 43 d.C., quando l’imperatore Claudio diede il via alla conquista sistematica dell’isola. I Britanni furono mazziati e sottomessi: solo ai capitribù che deponevano spontaneamente le armi fu concesso di restare

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ILLUSTRAZIONI L. TARLAZZI

A

ltezza: esagerata. Corporatura: massiccia, diciamo pure taglia XXL. Voce: aspra. Capelli: rossastri, poco curati, lunghi fino ai fianchi. Occhi: chiari, di colore indefinito, con sguardo durissimo. Look abituale: una tunica, coperta da un mantello di stoffa scozzese. Accessori preferiti: un collare d’oro, una spilla ferma-abiti e una truce lancia da guerra. Nazionalità: britannica. Residenza: contea del Norfolk. Classe sociale: nobile, all’occorrenza anche militare. Carattere: vendicativo. Dote principale: virilità. Eppure era una donna. Anzi, una madre protettiva, sia verso il suo popolo che verso le sue figlie, pronta a sacrificarsi per entrambi. Visse quasi 20 secoli fa, dal 33 al 61 d.C., quando in Italia si battezzavano (e si ammazzavano) i primi cristiani; poi passò alla Storia come eroina nazionale inglese, per aver guidato una rivolta contro i Romani invasori. Di norma gli storici moderni la chiamano Budicca, ma il nome ci è stato tramandato in molte varianti: da Bunduica a Boadicea, passando per Boudiga, Boudicca, Bodica e Buddug. CELEBRATA. Se volete vedere Budicca come non era, andate a Londra: all’imbocco del ponte di Westminster, davanti al Big Ben, c’è un monumento del 1902, opera di Thomas Thornycroft, che la ritrae come un’Atena vincente, con tanto di peplo greco e di figlie-ancelle nude al seguito. Però non ne vale la pena: Thornycroft, scultore ufficiale della corte vittoriana, farcito di neoclassicismo, non celebrò la vera Budicca ma un’idea di regime, che puntava a riciclare l’antica ribelle in “prima regina d’Inghilterra”, orgoglio di un Paese diventato imperiale. Niente di più falso. Anzitutto, Budicca non regnò mai sull’Inghilterra, ma al massimo sugli Iceni, una delle tante tribù in cui si dividevano i Britanni, il popolo celtico che anticamente abitava le

formalmente indipendenti, ma a una condizione: che all’estinzione della dinastia i loro territori finissero in eredità all’imperatore. Alcuni abboccarono: fra loro c’era Prasutago, re degli Iceni. SMEMBRATI. Ma era solo una trappola, per dividere gli indigeni. In realtà gli accordi tra Roma e gli uomini blu valevano come poi quelli fra Washington e gli uomini rossi d’America: zero. Gli Iceni lo videro quando Prasutago morì, lasciando un testamento dove indicava come eredi le due figlie e come coerede l’imperatore, che allora era Nerone. “Pensava con tale gesto di salvare il regno e la sua casa da ogni offesa; accadde invece l’opposto: il regno fu depredato dai centurioni”, commentò un osservatore al di sopra di ogni sospetto, il romano Tacito. Probabilmente gli inva-

sori giocavano su un equivoco: il diritto romano non prevedeva eredità di corone per linea femminile, quindi per quanto li riguardava la dinastia era estinta e le terre icene toccavano all’impero. Di ben altro avviso erano i Britanni, presso i quali le pari opportunità tra i sessi erano la norma. Il dissidio non fu risolto da avvocati: ai reclami degli Iceni le legioni reagirono con un’ondata di violenze, stupri e devastazioni. La tempesta arrivò fin nella casa del re defunto, dove la vedova (appunto Budicca) era ancora fresca di lutto. Ma lasciamo parlare Tacito: “Budicca”, si legge nei suoi Annales, “fu fustigata e le figlie violentate; poi i nobili iceni furono privati dei loro aviti possedimenti, come Roma avesse ricevuto la regione in dono”. Ancor più dei militari in servizio,

L’ IDOLO di Budicca? Per Tacito era il germanico ARMINIO, che nel 9 d.C. aveva fermato i ROMANI a Teutoburgo

RULLO COMPRESSORE L’esercito raccolto da Budicca mise a ferro e fuoco mezza Britannia, Londra compresa, allora in mano alle legioni di Nerone.

spietati coi Britanni furono certi veterani a riposo, che“inviati da poco a Camulodunum (oggi Colchester, ndt) come coloni, li espropriavano dei campi, chiamandoli prigionieri e schiavi, spalleggiati in questo arbitrio dai soldati, che vedevano simile il loro futuro e speravano di godere altrettanta impunità”. ALLA RISCOSSA. Ed ecco che in questo scenario truculento, Budicca prese in mano la situazione: armò i suoi; strinse un’alleanza di ferro con un’altra tribù, i bellicosi Trinovanti del Suffolk e dell’Essex; poi marciò su Colchester per farla pagare cara a soldati e coloni romani. “Non intendo rifarmi della perdita del regno e delle ricchezze in quanto discendente di nobili antenati”, fu il suo proclama ai ribelli, “ma vendicare, da donna qualunque, la perdita della libertà. Voglio riscattare il mio corpo fustigato e il pudore violato delle mie figlie”. Mentre i guerrieri di Budicca, dipinti di blu ma neri di rabbia, avanzavano su sferraglianti carri da guerra, Colchester pendolava tra supponenza e panico. Prima prevalse la supponenza: in città c’era un tempio al Divo Claudio, l’imperatore della conquista, e gli ottimisti sostenevano che una masnada di barbari nulla poteva contro quel “portafortuna”. Poi fu solo panico: ci fu chi disse

di aver udito ululati nel tempio, chi di aver visto il mare tinto di rosso. E un giorno la statua eretta alla Vittoria romana fu trovata riversa all’indietro. Veri prodigi? Forse solo gli effetti di una guerra psicologica che infiltrati di Budicca alimentavano tra le file nemiche. Comunque sia, ebbero ragione i pessimisti: Colchester cadde. Poi fu il turno di Londra (Londinium), quindi di Saint Albans (Verolamium). In pochi mesi mezza Britannia fu in fiamme, la fanteria di un’intera legione (la IX) fu sterminata e il procuratore Catone, massima autorità romana sull’isola, fuggì in Gallia. L’oltraggio a Budicca fu pagato con un’ecatombe: 70mila morti tra Romani e alleati, secondo Tacito. NOME DI FANTASIA. Ma la fortuna dei Britanni durò poco: Roma non poteva tollerare di essere messa alle corde da una donna, per giunta barbara e dipinta di blu. Il conto fu presentato da un proconsole dal nome buffo, Svetonio Paolino, in “un luogo dall’accesso angusto, una gola chiusa alle spalle da una selva”, che gli storici non hanno mai identificato. Così lo scontro che segnò il futuro dell’Inghilterra si ricorda con un nome inventato: battaglia di Watling Street. In ogni caso fu un’altra ecatombe, con 80mila morti, stavolta quasi tutti indigeni. Perché la disfatta? Perché i Britanni, troppo si-

Teuta, regina dei Balcani

S

e avesse vinto lei, forse oggi la storia dell’Albania sarebbe diversa. Ma Teuta, regina degli Illiri, antichi abitanti del Nord Albania, perse la sua sfida 23 secoli fa, quando tentò di creare un piccolo impero adriatico ai danni delle attuali Grecia, Croazia e Italia del Sud. Scatenata. A narrare la storia di quella donna “arrogante e superba” è Polibio, lo storico greco famoso per aver descritto dal vivo, nel 146 a.C., la

fine di Cartagine. Anni prima, quando Annibale non era ancora calato in Italia, Teuta era salita al trono perché suo marito Agrone era morto di bagordi dopo una vittoria sui vicini Etoli, popolo greco del golfo di Patrasso, e l’erede al trono Pinne era ancora bambino. La sua fu una politica di espansione militare: dalla capitale Scutari attaccò Korkyra (Corfù) ed Epidammo (Durazzo) con l’obiettivo di occupare le due sponde del Basso

Adriatico. Ma Roma non vedeva l’ora di liberarsi degli Illiri, considerati pirati, e nel 229 a.C. attaccò Teuta con forze ingenti: 200 navi, 2mila cavalieri e 20mila fanti. Lei fuggì sulle Bocche di Càttaro, in Montenegro; poi firmò una resa-capestro, che condannava gli Illiri a non navigare con più di due navi per volta. Da allora l’Albania è diventata la Cenerentola dell’Adriatico e i suoi abitanti, ex-marinai, si sono riciclati in montanari.

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curi di sé, affrontarono Paolino come se andassero a un incontro di calcetto a una sagra paesana: portarono anche le mogli e le piazzarono su carri-tribuna ai margini del campo di battaglia, perché facessero il tifo. Gli altri però non si affidavano più solo al Divo Claudio: partirono all’attacco e macellarono con metodo tutto ciò che si trovarono di fronte, uomini, donne e cavalli. Solo Budicca fu catturata viva e gettata in prigione. Ma lei, piuttosto di vivere da schiava, si avvelenò. Dopo la morte dell’eroina del Norfolk, la pace imperiale fu ristabilita e l’Inghilterra romanizzata: per questo oggi in inglese “vittoria” si dice victory, alla latina, e non buddug, alla celtica; per questo gli inglesi per secoli si dimenticarono di quella loro antenata, che si era opposta a un impero

arrogante, a difesa della sua dignità. Curiosamente, se ne ricordarono solo nel primo ’900, quando un altro impero (il loro) dettava legge a metà del mondo. Allora Budicca risorse, vestì il peplo greco e finì sul monumento di Thornycroft. VIALE DEL TRAMONTO. Oggi, tramontato l’Impero britannico, l’immagine dell’antica guerriera sta tornando a una dimensione più reale. Anche perché qualche anno fa, presso Hunstanton (Norfolk), è stato trovato un pezzo di collier d’oro, di rustica eleganza, attribuito proprio a lei. Vero? Falso? Vera è almeno la disperata voglia dei britannici di ritrovare le proprie radici. E Budicca è l’eroina perfetta. I romanzi, i film e le canzoni che t le sono stati dedicati lo dimostrano.

TRAGICA SCELTA Dopo la disfatta del 61 d.C., Budicca fu catturata. Scelse il suicidio per non finire schiava.

Nino Gorio

Come gli ICENI, altri popoli “barbari” schieravano le DONNE in battaglia, come ultima linea di DIFESA

Cartimandua, l’opportunista

N

on tutte le antiche britanne erano eroine indomite come Budicca. Tacito racconta anche di Cartimandua, regina della tribù dei Briganti, che al tempo dell’invasione romana si comportò con opportunismo più mediterraneo che celtico, correndo in soccorso al vincitore pur di mantenere formalmente il suo

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potere: divorziò dal marito (Venuzio) che era anti-romano; si prese come amante un uomo politicamente più duttile (Vellocato) e lo fece re; tradì un leader della resistenza nazionale (Carataco); infine, contestata dal suo popolo e attaccata dall’ex marito, chiese e ottenne per due volte l’intervento delle legioni a propria difesa.

L’episodio che più macchiò la sua carriera risale al 51 d.C.: Carataco, battuto dai Romani nel Galles, si rifugiò presso i Briganti. E Cartimandua, dopo aver finto di dargli asilo, lo consegnò ai nemici. Sparita. Che fine fece questa campionessa di collaborazionismo che regnò nella regione dell’odierna Liverpool dal 40

(circa) al 69 d.C., non si sa. Il secondo intervento romano, infatti, attuato nel clima confuso che seguì la morte di Nerone, fu un fiasco: Venuzio tornò sul trono, l’ex moglie fuggì e di lei non si seppe più nulla. Cartimandua finì per essere disprezzata da tutti, inclusi i suoi alleati-protettori: lo stesso Tacito la definì “crudele, libidinosa”.

DAL NORD

Gli HIGHLANDER di 2mila anni fa che i Romani non sottomisero mai. Erano signori della SCOZIA, ma la loro storia resta ancora un ENIGMA

Attenti ai

PITTI

L.TARLAZZI

INDOMABILI Ricostruzione di uno scontro fra Pitti e Romani intorno al Vallo di Antonino, estremo limes settentrionale dell’Impero romano violato più volte dagli antichi scozzesi nel II secolo d.C.

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I Romani chiamarono CALÈDONI le tribù pitte alleate e stanziate a NORD del Vallo di Antonino, il limes settentrionale dell’impero

G

li highlander, i pallidi e robusti montaLe perplessità sull’aspetto fisico dei Pitti sono innari del ’300 in stile “Braveheart”? Sosomma il riflesso di un mistero delle origini intorno no solo storia recente. Quasi un milal quale le congetture si sprecano. lennio prima dei kilt e dei clan, in ScoTra le teorie più recenti ce n’è persino una che li rizia dominavano loro, i Pitti: bassi, bruni di capelli tiene una tribù di indiani di lingua algonchina arrie di carnagione, almeno stando alle descrizioni dei vati dal Canada. Ma c’è anche chi sostiene fossero un Romani. Questi feroci guerrieri tatuati (cioè picti ceppo pre-celtico assorbito, dopo secoli di rapporin latino) possono a buon titolo essere considerati ti alterni, dai celtici Scoti. O chi invece ipotizza una gli autentici “aborigeni” delle Highlands, i monti loro provenienza non indoeuropea, facendo appello del Nord britannico. Caratteristiche che, unite al al materiale genetico che gli scozzesi attuali – eredi mistero della loro fine, secondo gli antropologi poprobabilmente di una mescolanza tra Celti e un’ettrebbero aver dato origine alle leggende sui pixies, nia ignota – hanno in comune con un altro popodispettosi folletti del folclore nordico. lo dalle esotiche ascendenze, i baschi. Bruni o biondi? All’inizio del DueA sostegno di questa ipotesi ci sarebcento, quando erano già scomparsi da be anche la genealogia per linea matertempo, il cronista islandese Snorri Sturna (titoli e beni, come l’appartenenza luson li descrisse come pigmei che viveal clan, si tramandavano cioè per linea vano in caverne sotterranee. Molti secofemminile). Il monaco e cronista ingleli dopo lo scrittore romantico sir Walse san Beda, nella sua Historia ecclesiater Scott (1771-1832) mostrava ancora stica gentis anglorum, racconta che i Pitdi dare credito a simili credenze: l’auti indicavano come loro patria ancestratore del romanzo storico Ivanhoe se ne le la Scizia, a nord del Mar Nero e abiconvinse osservando le dimensioni ritata da genti di probabile stirpe iranica. dotte degli edifici in alcuni siti archeoDa lì, secondo un’antica leggenda, nel logici delle isole Orcadi. Edifici che ogcorso di una lunga migrazione sarebbegi sappiamo però risalire a epoche più ro giunti via mare fino in Irlanda, i cui remote di quella in cui i Pitti vissero e abitanti gaelici – ansiosi forse di sbaSTILIZZATA Statuina in legno che prosperarono. razzarsi di quei concorrenti – avrebbesuggerisce una figura La presenza di scozzesi purosangue ma ro suggerito loro di proseguire il viaggio umana: è stata trovata dai colori mediterranei è, nella tradizioverso le coste scozzesi. Per convincerli, presso Kenmore, in ne locale, da sempre legata a qualche tioffrirono agli antenati dei Pitti un cerScozia, e rappresenta forse una divinità po di arcaica progenitura: negli Annals to numero di donne irlandesi, alle quali femminile of the Caledonian (1828) si legge che i sarebbe rimasto il diritto di scegliere il degli scozzesi del veri highlanders sono “di complessione sovrano. Al di là del mito, creato forse a V secolo a.C. bruna, quasi sempre con capelli neri e ricci posteriori dagli Scoti per “imparentare occhi scuri”, a confortare il luogo comune che insi” agli indomiti dipinti, resta ciò che dice la Crodividua nel tipo fisico alla Sean Connery le fattezze naca dei Pitti, una sorta di elenco di sovrani di inpiù antiche e genuine della popolazione autoctona. certa datazione: il titolo di Rex pictorum si otteneLe informazioni giunte a noi in questo senso, peva per via materna, o in alternativa per matrimorò, non sempre sono coerenti: riferendosi agli abinio con donne di sangue reale. tanti di quella Scozia ante litteram che i Romani L’ipotesi oggi più accreditata, comunque, vuochiamarono Caledonia (forse dal celtico caoillaoin, le i Pitti discendenti dei primi coloni neolitici ar“uomini della foresta”), Tacito parlò infatti di indirivati in Scozia dalla Spagna, intorno al 7000 a.C. vidui alti e con capelli biondi o rossicci. Scarificati. Anche la caratteristica più famosa Patria ignota. Tutto ciò significa forse che eradei Pitti, l’usanza di tatuarsi il corpo “secondo il loro no Pitti di tribù e aspetto differenti a spartirsi le terre grado”, come scrisse lo storico del VII secolo Isidodel nebbioso Nord? Difficile dirlo, ma la presenza di ro di Siviglia, è anomala: quei tatuaggi non erano guerrieri dalla carnagione olivastra, che ai centurioinfatti realizzati con una semplice tintura ottenuta ni più esperti ricordavano i popoli incontrati in Spadalle radici, come si usava fra i Celti. Erano invegna, sembra a molti storici ragionevolmente certa. ce il risultato di incisioni della pelle. Una confer64

RADICI A destra, un archeosub al lavoro nel Lago Tay e una palafitta ricostruita nello Scottish crannog centre di Kenmore.

LACUSTRI

THE GRANNOG SCOTTISH CENTRE/KENMORE (3)

Il crannog (isola artificiale) di Loch Tay a Kenmore (Scozia). C’erano almeno 18 palafitte, costruite fin dal V secolo a.C. dalla popolazione locale, antenata dei Pitti dei Romani.

ALINARI

ma indiretta si trova nelle parole di Claudio Claudiano, letterato romano dell’era cristiana, che parlando dei connazionali di stanza nell’isola britannica li definì poeticamente la legione “che regge il truce Scoto e studia le esangui figure impresse col ferro sul Pitto morente”. Dai loro progenitori i Pitti avrebbero appreso, oltre a quella del tatuaggio, l’arte di costruire i broch, torri circolari in pietra, e i crannog, isole artificiali su palafitte di cui restano le fondamenta in alcuni

laghi scozzesi. Fra le altre tracce degli antichi scozzesi giunte fino a noi ci sono alcune stele in pietra. Sono di epoca tarda (VI-IX secolo d.C.) e utilizzano segni dell’alfabeto ogham celtico per scrivere parole incomprensibili agli studiosi. Quei pochi segni non aiutano quindi a risolvere l’altro enigma pitto, quello della lingua. Che parlassero un idioma diverso da quello dei Celti sembra provato: san Columba, monaco irlandese ed evangelizzatore della Scozia, nel VI secolo fu costretto a usare un interprete per interloquire con il re pitto Bridei IV. Persino il loro vero nome è un’incognita. Per le tribù celtiche erano i Cruithni (“I colorati”). E Picti è l’appellativo dato dai conquistatori romani. Un nome generico, che a causa della pelle decorata avevano già affibbiato ai Pictones, una tribù celtica della lontana Gallia che nulla aveva a che vedere con i proto-scozzesi. Tra l’altro, la più antica menzione dei Pitti risale al 279, più di due secoli dopo l’inizio della colonizzazione romana in Britannia, e si deve a una fonte latina: il letterato di origine gallica Eumenio, che elencò laconicamente i Picti tra i popoli dell’isola ostili alle legioni. Su questa ostilità, almeno, tutti concordano. Guerriglieri abili e disciplinati. I Romani tentarono più di un’incursione nel territorio dei Pitti, oltre il limes settentrionale dell’impero (dal II secolo difeso dal Vallo di Adriano). Riuscirono anche a batterli qualche volta, ma senza mai affrontare una sistematica campagna di conquista del loro territorio. Superstizione? Paura di un nemico troppo tenace? Piuttosto realpolitik: a dissuadere comandanti e veterani di provata esperienza non furono tanto i ti-

E se fossero stati americani?

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aviganti vichinghi che sbarcano nel Nuovo Mondo secoli prima di Colombo sono ormai una certezza. Ma c’è anche un’altra teoria che ribalta i termini della questione, dando il primato dell’esplorazione non all’uomo bianco che scopre le Americhe, ma all’uomo “rosso” che scopre l’Europa. O almeno la Scozia: secondo questa ipotesi gli enigmatici Pitti altro non sarebbero che i discendenti

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dei Míkmaq, una tribù stanziata nelle estreme propaggini orientali del Canada, dunque nel punto in cui il continente americano è più vicino alle coste scozzesi. Marinai. Le cinquecentesche annotazioni di Jacques Cartier – esploratore francese al soldo di re Francesco I di Valois che incontrò questa popolazione esplorando la foce del fiume San Lorenzo – confermano l’abilità dei Míkmaq come marinai e l’inge-

ALAMY/IPA

Nel V secolo a.C. erano già abili ARTIGIANI. Inoltre allevavano

PECORE, cacciavano cervi e coltivavano GRANO e ORZO

VOLTI REMOTI A sinistra replica moderna di una testa pitta scolpita nel legno, a Kinmore. Sotto, stele di Pitti cristianizzati (VIII-IX secolo),

mori dell’inesplorato Nord quanto la valutazione che un territorio così inospitale non meritasse gli sforzi necessari contro un popolo tanto bellicoso. Un popolo che per di più aveva dimostrato molte volte di essere un pericoloso pioniere delle moderne tecniche di guerriglia. Abili con l’arco, militarmente più disciplinati dei Celti, al punto da aver forse anticipato lo schiltron, la tipica falange scozzese utilizzata più volte con successo contro gli inglesi nei secoli successivi, i Pitti furono considerati dai Romani una spina nel fianco, ma non proprio dei selvaggi. Allevatori e agricoltori esperti, orafi e amanti della musica (inventarono forse l’arpa celtica), quei fieri nemici di Roma avevano fondato in Caledonia un regno diviso in sette distretti, chiamato Fortriu o Pittavia. Uno dei capi Pitti, Calgaco, si guadagnò anche un ruolo negli Annali di Tacito. Prima della battaglia di Monte Graupio (84), lo scrittore romano fa dire all’ispirato leader tribale, durante l’arringa ai suoi uomini: “Siamo al limite estremo del mondo

e della libertà”. Lo scontro si risolse in una schiacciante vittoria delle truppe di Gneo Giulio Agricola, governatore della provincia britannica, ma da allora la strategia romana nei confronti delle nebbiose lande scozzesi divenne decisamente difensiva. Il Vallo di Antonino, la fortificazione che segnava l’estremo limite settentrionale dell’impero, dopo vent’anni di raid e incursioni dei Pitti fu abbandonato, facendo arretrare il limes fino al preesistente Vallo di Adriano, 160 chilometri a sud e di gran

PRIMA DEL KILT

THE ART ARCHIVE/AGF

ALINARI

Guerrieri (donna e uomo) pitti in una stampa del 1585. I tatuaggi sono di fantasia, ma è vero che le donne dei Pitti avevano spesso ruoli alla pari con gli uomini e portavano armi.

gnosità dei loro sistemi per combattere con grasso animale il gelo della navigazione atlantica. Ma soprattutto contengono intriganti analogie tra le usanze dei due popoli. Parentele. I Míkmaq, chiamati “nasi blu” per l’abitudine di tatuarsi con pigmenti azzurri, seguivano anche loro una tradizione matrilineare e avevano sviluppato un sistema di clan i cui membri si riconoscevano dai diversi colori del perizoma utilizzato, proprio come usavano fare i Pitti e come avviene tuttora

con i motivi dei tartan (i tessuti a quadretti colorati) nei kilt degli scozzesi moderni. Per quanto concerne i guerrieri dell’antica Caledonia, le loro immagini incise sulla pietra sembrano suggerire l’utilizzo di copricapi piumati. Si tratta di un’usanza rara in Europa, ma non dall’altra parte dell’oceano Atlantico e soprattutto nella terra dei Míkmaq. Una terra fredda e inospitale, una penisola di erba e nebbie a cui gli europei, forse per una sorta di sesto senso, diedero poi il nome di Nuova Scozia.

MARY EVAN/ALINARI

lunga più difendibile. I secoli successivi videro un alternarsi di ostilità e tregue tra i due avversari, fino alla partenza definitiva delle legioni dalle isole britanniche, nel 453. L’eclissi del nemico romano non rasserenò più di tanto l’orizzonte geopolitico degli “uomini dipinti”. Prima dovettero vedersela con i Britanni e i Sassoni nel Sud (sconfitti solo nel 685, in un’epica battaglia). Poi fu la volta degli invasori vichinghi e soprattutto degli Scoti. Questi ultimi erano Celti venuti dall’Irlanda: segneranno la fine dei Pitti ma, in qualche modo, ne garantiranno anche il futuro. L’alba di Albione. Nel VI secolo, in contemporanea con l’affermarsi del regno scoto di Dalriada (odierna contea di Argyll, Scozia Occidentale) la civiltà dei Pitti, ormai convertiti alla religione cristiana, raggiunse il suo zenit. Ma durò poco. Insediatisi già dal IV secolo nella Caledonia Occi-

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dentale come una sorta di protettorato nel territorio degli antichi signori delle “terre alte” (le highlands), i nuovi venuti gaelici accrebbero la loro influenza, incrociando le armi con i padroni di casa e giungendo nel VII secolo a lambire i confini della capitale pitta, presso l’odierna Inverness. Decade dopo decade, tra una battaglia e un trattato di pace, le secolari ostilità volsero con gradualità inesorabile a sfavore dei Pitti. Sul piano etnico e culturale i due popoli si erano però già mescolati e una nuova entità nazionale, il regno protoscozzese di Alba (denominazione gaelica della regione, da cui deriva l’antico nome della Gran Bretagna: Albione) iniziava a formarsi. Anche le case regnanti di Scoti e Pitti iniziarono ad avvicinarsi, finché lo scozzese Kenneth McAlpin, capostipite della dinastia che regnerà sulle Highlands per buona parte del Medioevo, forte delle proprie conquiste militari – e forse anche del “credito” genealogico datogli dall’avere una principessa pitta per madre – riunì i due troni, debellando nell’841 l’ultima resistenza degli avversari. Decisivo in questo senso fu il sanguinoso e definitivo colpo di mano passato alla Storia col nome di “tradimento di McAlpin”. Invitati nel villaggio di Scone per i negoziati, l’ultimo re pitto Drust IX, la sua corte e i rappresentanti delle 7 casate pretendenti al trono furono trucidati durante un banchetto con un sistema decisamente “barbaro”: sotto ognuno dei sedili erano collocate altrettante botole che nascondevano pozzi irti di lame, su cui i malcapitati finirono impalati dal loro stesso peso. Gli ultimi Pitti. Per i Pitti – dissoltisi nell’etnia e nella cultura vincitrice con un destino simile a quello degli Etruschi “annegati” nel mondo romano – quel massacro fu il colpo di grazia. Scaricati dalla Storia e raccolti dal mito, su di loro cadde un oblio secolare che solo da pochi anni, complice anche la rinnovata consapevolezza politica e culturale degli scozzesi, si tenta di diradare. Clan di antico lignaggio, come i McGregor, rivendicano oggi quarti di nobiltà pitta. Ma l’eredità in apparenza impalpabile sopravvive soprattutto nelle enigmatiche pietre incise, nelle fattezze di qualche highlander bruno e nella toponomastica. Prefissi come aber (per esempio della metropoli scozzese Aberdeen) o pit (di località minori come Pittodrie o Pitmedden) rimandano con certezza agli antichi insediamenti di quegli indecifrabili e misteriosi indigeni delle brughiere. t Adriano Monti Buzzetti Colella

THE ART ARCHIVE

I Pitti, POLITEISTI, avevano culti simili a quelli CELTICI. Ma nel VI secolo erano ormai tutti CRISTIANIZZATI

AUTORITRATTI Una stele dei Pitti dell’VIII secolo d.C. con simboli misteriosi e una rara rappresentazione di guerrieri.

IN NOME DI DIO A sinistra, san Columba converte i Pitti di re Bridei, nel VI secolo, in un dipinto di inizio ’900.

I N O I Z O M E E L I V I WARS. RIV DELLE GRANDI . A I R O T S A L L E BATTAGLIE D

In questo numero tutte le battaglie combattute nel luogo più estremo e inospitale: il deserto. Dai persiani dispersi nel grande deserto egiziano fino alla missione “Desert Storm” in Iraq, passando per la lunga marcia di Alessandro Magno e la sconfitta di Rommel a El Alamein. In più: i reparti di eccellenza prussiani, reportage fotografici dal Vietnam, le uniformi del periodo napoleonico.

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BARBARI TEDESCHI

Dal Reno all’Elba, dai MONTI della

RMN/ALINARI

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n confine lungo quasi 600 km strettamente sorvegliato da 30mila soldati. In più, 900 torri di guardia in legno e pietra, affacciate sui confini naturali dell’Europa Centrale: i fiumi Reno, Elba e, più a sud, altre centinaia di chilometri sulle rive del Danubio. È il limes nord-orientale, la frontiera estrema dell’Impero romano in quella che Giulio Cesare (che nel 55 a.C. passò il Reno coi suoi uomini su un ponte di fortuna) chiamò Germania. Al di là, una terra incognita definita con disprezzo barbaricum. Se oggi “barbarie” è sinonimo di distruzione, la colpa è degli storici di allora, che descrissero l’impero come un’isola di civiltà assediata da bestie umane assetate di sangue. Ma la realtà era un’altra e quella striscia di fortificazioni non fu solo terreno di scontro. Quando, dal II secolo d.C., le tribù sparse domate dalle legioni si organiz-

COM’ERANO A sinistra, statua di prigioniero barbaro del II secolo d.C. forse di una tribù germanica. A destra, un posto di guardia lungo il Danubio, confine naturale dell’impero, ricostruito dagli archeologi: i soldati romani vi potevano vivere molti giorni.

Germania al DANUBIO correva il confine più caldo dell’impero

HEINER MULLER-ELSNER/FOCUS/LUZ

zarono in popoli distinti o federazioni (come quella degli Alemanni) il limes si rivelò tutto meno che una “cortina di ferro” impenetrabile. Linea di confine. Quella linea di confine era anche terra di immigrazione, scambi commerciali, integrazione. Del resto, il termine limes indicava, oltre alla frontiera stessa, le strade militari che la costeggiavano e, in epoca tarda, l’intera regione. «L’idea di un limes inteso come barriera difensiva permanente è messa in discussione dagli storici», spiega Alessandro Barbero, che all’argomento ha dedicato un importante libro (Barbari. Immigrati, profughi, deportati nell’Impero romano, Laterza). «I popoli del Reno e del Danubio iniziarono a fondersi in un impero sempre più multietnico nel II secolo. E in alcune aree, come quella renana, si sviluppò una “civiltà di frontiera”». Se l’influenza romana si estendeva ben oltre il confine (lo provano gli scavi archeologici), molti Germani (accomunati da lingue, divinità e

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BENVENUTI NELL’IMPERO Appena al di qua del confine sorgevano castra (accampamenti militari) come quello di Saalburg (Germania) con villaggi annessi.

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ALT! DOGANA

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Presso il vallo si controllavano tutti i transiti e si riscuotevano i dazi (circa il 2-3 per cento del valore delle merci).

VILLAGGIO DI CONFINE

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Il vicus (di oltre mille abitanti) includeva una mansio (stazione di sosta) e un tempio al dio Mitra.

Alcune tribù potevano attraversare liberamente il LIMES. Altre soltanto strutture sociali, ma spesso divisi fra loro) non chiedevano di meglio che di poter accedere alle terre e ai mercati al di qua del limes, imparavano a parlare latino e lasciavano abiti di pelli e bracae (i pantaloni “barbarici” usati anche dai Galli in Francia) per infilarsi la tunica. Certo, l’opzione bellica e quella della deportazione (destino delle tribù riottose o di quelle in balìa dei bisogni dei coloni) erano sempre sul tavolo di consoli e generali dell’Urbe. Ma Roma aveva a disposizione anche un vasto campionario di soluzioni di72

plomatiche: trattati di alleanza militare, varie gradazioni di autonomia locale, concessione di terreni e di cittadinanza (accordata per esempio ai Goti del Danubio). I Germani, del resto, non passavano il loro tempo razziando i confini. Questa fu piuttosto la specialità dei Vichinghi (i “Germani di Scandinavia”), ma quando dell’impero restava davvero poco, dal VI secolo. Nei primi tempi della superpotenza romana i barbari erano per lo più contadini con un’economia di sussistenza, in perenne migrazione a caccia di terra da zappare o foreste da sfruttare.

LEGIONARIO DEL II SECOLO

GUERRIERO GERMANICO

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TORRI DI GUARDIA

Nel I-II secolo d.C. i legionari erano equipaggiati con la lorica segmentata (corazza a fasce), lancia e gladio e un elmo con protezioni laterali.

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Il limes era delimitato da torri di guardia in legno e pietra da cui si controllavano i passaggi di frontiera.

I Germani combattevano senza corazza, ma indossavano le bracae (pantaloni). Lo scudo germanico in legno o cuoio era stretto e leggero. La spada era di tipo lungo.

Lo scudo era di tipo quadrato, derivato da quello in uso tra i gladiatori ma più leggero.

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PORTE DIFFERENZIATE

OSPREY PUBLISHING

L’ingresso principale del castrum fortificato era la Porta pretoria. Le altre 3 porte erano più piccole.

Fuori dal castrum c’erano un vicus (villaggio) con una villa (tenuta agricola) e terme per i soldati.

BASE MILITARE

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Fortificato e costruito su pianta quadrata, il castrum includeva comando, alloggi dei circa 500 soldati e magazzini.

TIM WEHRMANN

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CASA COLONICA

sotto SCORTA. Per evitare sommosse «Nella maggioranza dei casi i capi tribù chiedevano in modo pacifico di potersi stanziare in zone poco popolate dell’impero», spiega ancora Barbero. In caso di rifiuto diventavano ostili, altrimenti si offrivano come coltivatori ai coloni romani e soprattutto in qualità di soldati. «Già ai tempi di Marco Aurelio (II secolo d.C.) era frequente l’uso di affidare ai “barbari” la difesa delle frontiere», spiega Barbero. Funzionava così: Roma stipulava trattati in cui, in cambio di soldati, le tribù ottenevano territorio e autonomia. «Molti di questi soldati facevano carriera otte-

nendo rilevanti cariche militari e persino il consolato, segno di una completa integrazione nell’élite dell’impero». Su un’iscrizione tombale del IV secolo, si legge: “Franco nel civile, son soldato romano sotto le armi”. L’anonimo legionario germanico non era un caso isolato. Mercato controllato. Emblematica anche la vicenda dell’attuale Colonia, abitata 2mila anni fa da una tribù celto-germanica, gli Ubii. Questi ultimi ai tempi di Claudio, quarto imperatore romano, successore di Caligola e primo “straniero” (era nato nel 10 a.C. a Lugdunum, oggi Lione), ricevettero la cittadi73

Molti IMPERATORI si fecero le ossa amministrando province del limes. E presero il POTERE con le loro legioni “miste” nanza romana. Colonia, sul confine del Reno, era una tipica città di confine, e i suoi abitanti indigeni ebbero un trattamento di favore. Come in ogni tempo e a ogni latitudine, la “civiltà di frontiera” significava un grande mercato. Ma per commerciare (ragione principale per la quale si attraversava il limes) servivano permessi speciali, che l’amministrazione delle province romane concedeva solo per le città di cui voleva favorire (controllandolo) lo sviluppo economico. Colonia era una di queste e la concessione della cittadinanza agli Ubii ubbidiva alla massima divide et impera. Lo capirono al volo gli altri Germani della regione che, secondo Tacito, accusarono Roma di aver “sbarrato i fiumi e la terra e in un certo senso anche il cielo, per impedire incontri e colloqui tra noi” e che, nel 69-70, scatenarono una delle più grandi rivolte germaniche. Allo stesso modo, più a sud, solo gli Ermunduri (una tribù della Retia, nell’attuale Austria) potevano attraversare senza scorta e in qualsiasi punto il confine per spingersi fino ad Augusta Vindelicorum (oggi Augusta, in Baviera), il capoluogo. Altrove, chi giungeva dal barbaricum in terra romanizzata per affari era costretto a rispettare regole ben poco tolleranti: nel 180 l’imperatore Commodo impose ai Marcomanni di radunarsi per il mercato solo una volta al mese, e sempre in presenza di un centurione romano e dei suoi uomini. Roma, generosa con i popoli che portavano braccia per le attività dei coloni e per la guerra, era evidentemente diffidente verso potenziali concorrenti.

Integrazione a doppio senso. Condizionata dal volere del più forte e motivata soprattutto dalla fame di manodopera da parte dei coloni romani, l’integrazione tanto ambita dai Germani alla lunga fu persino promossa da Roma, senza alcuna ombra di razzismo. La domanda e l’offerta di lavoro si erano incontrate. All’inizio si ingaggiarono bande mercenarie per la durata di una sola campagna militare, poi si passò al reclutamento volontario (e spesso anche forzato) per prestare servizio regolare nelle legioni. Caracalla (imperatore dal 211 al 217) è passato alla Storia per aver messo insieme una guardia personale di guerrieri germani (prigionieri di guerra altrimenti destinati alla schiavitù o alle arene come gladiatori). Li chiamò leones e pare li stimasse più dei latini doc. Del resto, fu lui a promuovere un “condono tombale”, la sanatoria che nel 212 concesse la cittadinanza romana a tutti gli abitanti dell’impero. Inclusi gli immigrati insediati a quella data nelle province romane.

ULTIMO BALUARDO A destra, l’arco fatto costruire dall’imperatore Costanzo II a Carnuntum (Austria) nel IV secolo d.C., in piena decadenza romana.

SCALA

DELEGHE

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La celebre statua bronzea dell’imperatore Marco Aurelio. Già ai suoi tempi (II sec. d.C.) si affidava ai barbari la difesa delle frontiere.

Chi erano i barbari “tedeschi” FRANCHI Originari della Franconia (Germania del Sud), il loro nome significa “liberi” e le loro tracce risalgono al III secolo d.C. Nel V secolo fondarono un proprio regno.

BURGUNDI Originari dell’area scandinava, nel III secolo si mossero verso i confini dell’impero stanziandosi sul Reno. Alleati di Roma contro gli Alemanni, nel V secolo fondarono un proprio regno.

ANGLI Stanziati dal I secolo d.C. lungo il fiume Elba, provenivano dalla vicina Anglia, una regione della Germania Settentrionale. Nel V secolo giunsero in Gran Bretagna.

HEINER MULLER-ELSNER/FOCUS/LUZ

SASSONI Stanziati nel Nord della Germania, devono il nome allo scramasax, attrezzo da lavoro dalla lama ricurva usato anche come arma. Si hanno loro notizie fin dal II secolo e nel V secolo giunsero in Britannia con gli Angli.

BILDERBERG/CONTRASTO

MARCOMANNI Appartenenti allo stesso gruppo degli Suebi, in origine erano stanziati lungo il fiume Elba. Intorno al I secolo a.C. si spostarono verso sud. Furono sconfitti dai Romani, con i quali in seguito stipularono fragili alleanze.

PARATA POSTUMA Una maschera di ferro argentato ritrovata durante gli scavi sul sito della Battaglia di Teutoburgo. Veniva indossata dai cavalieri romani durante le parate.

Con il passare dei secoli, l’impero divenne troppo vasto, indebitato e corrotto per essere tenuto insieme e la frontiera divenne sempre più permeabile: guerre interne e miseria lasciavano sguarniti organici dell’esercito e campagne. Per riempire quei vuoti la soluzione più semplice era aprire le porte a nuovi immigrati che, grazie alla pressione degli Unni (nomadi delle steppe orientali), a partire dal IV secolo affluirono sempre più numerosi. Ma ottenere la cittadinanza romana (la green card dell’antichità) non era ormai più in cima ai desideri di chi veniva dal barbaricum. Piuttosto, era l’impero a “barbarizzarsi”. Colabrodo. A far cadere definitivamente il limes fu la “grande migrazione” favorita da un capriccio climatico che raffreddò il Nord Europa nei primi secoli dopo Cristo. I terreni improduttivi costrinsero chi vi abitava a cercare terre a sud. Ciò spiegherebbe un episodio tramandato da fonti antiche: il 31 dicembre 406 si gelò un tratto di Reno e una colonna di migranti di proporzioni mai viste lo attraversò con armi e bagagli. Altro che cortina di ferro: il limes si era trasformato in un’autostrada. E furono proprio generali di origine barbara, da Stilicone (359-408) a Ezio (390-454), gli ultimi a difenderlo. Con più convinzione degli stessi Romani. t Aldo Carioli 75

LA SCONFITTA

L’INIZIO DELLA FINE

La Battaglia di ADRIANOPOLI segna una SVOLTA cruciale nei rapporti fra l’impero e i BARBARI. E niente fu più come prima

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ESERCITO ANNIENTATO Una scena dello scontro in campo aperto nella piana di Adrianopoli: 14 reggimenti romani furono annientati.

bellica. Un certo peso vi ebbe il fattore sorpresa, ma giocarono anche il caso, l’imprudenza, dovuta a un eccesso di sicurezza, e alcuni errori di valutazione da parte dei comandanti romani. Prologo.. L’impero in quegli anni non era affatto in declino: risultava, anzi, attrattivo per grandi masse di barbari che miravano a civilizzarsi e a migliorare le proprie condizioni di vita. E l’impero, che già di fatto era un crogiolo multietnico, aveva bisogno di queste forze nuove. Servivano soldati all’esercito, manodopera ai grandi proprietari terrieri, coloni nelle province più remote e spopolate. I Romani erano sempre più restii ad arruolarsi (ciò favoriva la corruzione negli uffici di reclutamento) e i latifondisti a cedere all’esercito braccia utili nei campi. Ben prima di Adrianopoli, annota Alessandro Barbero, storico e autore del libro 9 agosto 378. Il giorno dei barbari (Laterza), erano iniziate invasioni pacifiche di genti sottomesse: una migrazione di popoli disposti a romanizzarsi. Certo, alla frontiera orientale, quella che corre lungo il Danubio, si guardava con più

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G. RAVA

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uel giorno faceva un caldo infernale. Anche il vento, alzatosi nel pomeriggio, era un soffio infuocato, che non dava sollievo. I piedi dei legionari e gli zoccoli dei cavalli sollevavano nuvoloni di polvere nella pianura riarsa. Il 9 agosto del 378, presso l’odierna Edirne, città della Turchia Occidentale che allora si chiamava Adrianopoli e faceva parte della Tracia, si combatté una battaglia che traumatizzò i Romani quanto la débâcle di Canne e diede una spinta decisiva alla dissoluzione dell’impero. Di fronte a loro stava un’armata di barbari, Goti principalmente, rinforzata da bande di Alani e Unni. I Romani erano in netta superiorità numerica (30mila contro 20mila), ma furono ugualmente sbaragliati e lasciarono sul campo due terzi delle loro forze. Una disfatta che ebbe ripercussioni a cascata, portando paradossalmente al tracollo dell’altra parte dell’impero: quella occidentale. Da un punto di vista tattico-strategico non fu uno scontro memorabile. Non di quelli, per esser più chiari, che si studiano nei testi sacri dell’arte

Più che la forza dei Goti, poterono gli ERR RORI dei Romani. Che sottovalutarono il nemico e non attesero i RIINFOR RZI già in viaggio preoccupazione che ad altri confini: poco o nulla si sapeva di quanto accadeva nelle immense steppe al di là del fiume. E tuttavia i popoli più vicini, Goti e Sarmati, commerciavano da tempo con Roma, oltre a praticare forme primitive di agricoltura e allevamento. E i Goti soprattutto, osserva ancora Barbero, «senza rendersene conto, erano già diventati dipendenti dall’impero». Da tempo, infatti, i Romani assoldavano per le loro campagne militari orientali, specie contro la Persia, bande di mercenari goti, in cambio di prebende, pensioni e regolari sussidi, comprese le forniture di grano. Molte tribù si erano federate proprio per trattare con l’impero questo do ut des vantaggioso per entrambe le parti, eleggendo propri signorotti o principi. Estinta la dinastia di Costantino, era stato l’imperatore d’Oriente Valente, di fede ariana, a proseguire quella politica. Dopo averli puniti, nel 369, per aver sostenuto la ribellione del generale Procopio a Costantinopoli, prese ad assumere mercenari goti da inviare al confine con la Mesopotamia: aveva in animo di dichiarare guerra alla Persia. Non sospese però le sanzioni commerciali, per cui i Goti avevano meno possibilità di far acquisti dai mercan78

ti romani e non ricevevano più sussidi e forniture di grano. Il conseguente impoverimento spinse molte famiglie a vendere i figli come schiavi. In questo clima s’inserì l’aggressione unna. Battaglioni di nomadi unni calarono nel 376 dalle steppe del Nord, traversando Don, Dnepr e Dnestr e massacrando e mettendo in fuga le popolazioni. Profughi. Una prima ondata di profughi tervingi (Visigoti) s’accampò sulla riva del Danubio di fronte ai posti di guardia romani, chiedendo terra demaniale in Tracia dove vivere pacificamente. Per settimane attese la risposta di Valente. L’imperatore si risolse ad accoglierli in pace, ma ordinò di far passare solo i maschi, e disarmati. Evidentemente ne voleva arruolare la maggior parte. A quel punto dilagarono corruzione e inefficienza. Corrompendo i controllori, molti Goti si portarono dietro armi e famiglie; e molti funzionari, con la speranza di accaparrarsi qualche schiava, lasciarono passare donne e ragazze. Non c’erano strutture d’accoglienza adeguate: si formò un apocalittico campo profughi in cui i funzionari lucravano sulle derrate alimentari. Sull’altra sponda, attirata dalla notizia delle porte aperte, s’era riversata una se-

DEMONI BIONDI Sopra, I’attacco “a sorpresa” della cavalleria gotica fu probabilmente la mossa che segnò le sorti della battaglia e la sconfitta dei Romani.

A destra, il ritratto dell’imperatore Valente su una moneta dell’epoca: di lui non si sono trovati neppure i resti.

truppe di Valente, all’impiedi da ore sotto il solleone e a digiuno, avanzarono verso il nemico nel classico schieramento: fanteria al centro, cavalleria alle ali. I Goti li attendevano davanti al cerchio dei loro carri. Avevano appiccato fuochi nella prateria per intossicarli di fumo. Ma in serbo avevano una mossa ancora più astuta: il nerbo della cavalleria, irrobustito da bande di Unni e di Alani, si era spostato in cerca di foraggio e ora rientrava di nascosto, senza sollevare polvere, lungo il letto quasi in secca del fiume Tundza. Epilogo. La sua apparizione inattesa gettò lo scompiglio nelle file romane. L’ala destra dei cavalieri rinculò addosso ai fanti. Quella sinistra, ormai spintasi fino ai carri gotici, s’accorse di avere il vuoto alle spalle e sbandò. La fanteria fece come a Canne: sentendosi stretta nella morsa dei cavalieri nemici, indietreggiò ammucchiandosi su se stessa e fu facile preda degli avversari. Quattordici reggimenti furono annientati: l’esercito dell’Impero orientale non esisteva più. Finita l’epoca della fanteria. Di Valente non si trovarono neppure i resti: probabilmente era stato bruciato vivo nella fattoria in cui aveva cercato scampo. Enorme fu lo choc a Roma: mai si erano arresi ai barbari. Ora si trattava di ricostruire un esercito, riprendere la Tracia, salvare l’Impero d’Oriente. Con quali uomini? Nessuno poteva immaginare quale effetto domino avrebbe innescato la sconfitta (vedi riquadro). Eppure fu quello l’inizio della valanga che travolse l’Occidente. Tanto che molti storici assumono il 9 agosto 378 come data spartiacque tra l’antichità e il Medioevo.t Dario Biagi

Effetto domino

P

er il grande storico del IV secolo Ammiano Marcellino la storia dell’Impero romano si chiude con Adrianopoli. Di certo finisce un primato militare basato sulle legioni. Il principio stesso dell’esercito nazionale, fondamento della potenza romana, entra in crisi, con effetti disastrosi. Sul trono lasciato vacante dalla morte di Valente si insedia Teodosio, il quale si prefigge di ricostruire un esercito emanando norme

severissime: pena di morte per i latifondisti che nascondono eventuali arruolandi e per i disertori, reclutamento forzato di disoccupati, vagabondi, figli di militari e di tutti gli immigrati abili. Mercenari. Ma la coscrizione non funziona lo stesso e il ricorso ai barbari diviene sempre più massiccio e inevitabile. La loro fedeltà dipende principalmente dalla paga, e così l’impero diviene sempre

più ricattabile ed esposto ai tradimenti. Quando, nel 391, Teodosio si arma per punire gli usurpatori del governo occidentale, Eugenio e Arbogaste, si affida a un esercito con 20mila Goti comandati dal loro capo Alarico: lo stesso uomo che nel 410 saccheggerà Roma. Alla barbarizzazione delle forze armate corrisponde un rigurgito di nazionalismo in larghi settori dell’opinione pubblica. A

Costantinopoli, la reazione germanofoba ha successo: il governo riesce a tenere sotto controllo la situazione e a ridurre gradualmente la presenza non nazionale nell’esercito. In Occidente non accade: il peso delle forze ausiliarie, poco affidabili, si fa preponderante. L’elemento barbarico prevale. Il potere finisce, e vi resterà a lungo, nelle mani dei militari. L’impero si arroccherà a Bisanzio.

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AKG / BILDARCHIV STEFFENS

G. RAVA

UNA FINE ATROCE

conda folla di fuggiaschi: Greutungi, ovvero Ostrogoti. Appena i profughi visigoti vennero incolonnati verso l’interno con destinazione Marcianopoli (l’odierna Devnja), gli Ostrogoti si buttarono a guadare il Danubio con zattere di fortuna. Molti annegarono, altri s’accamparono abusivamente in territorio romano. La carovana dei Goti ammessi, capitanata da Fritigerno, chiedeva il permesso di entrare in Marcianopoli per rifornirsi di viveri. Le venne negato e scoppiò la rivolta. I Goti sopraffecero i Romani, mentre il comandante militare della provincia Lupicino banchettava con i leader barbari. Informato dell’insurrezione, Lupicino reagì maldestramente: fece uccidere la loro scorta, ma non ebbe il coraggio di sgozzare Fritigerno e compagni, i quali, una volta usciti dal banchetto, stracciarono l’accordo di pace. In campo. Iniziò così la Guerra gotica, un conflitto che si protrasse fino all’estate del 378. Ora i Romani compivano mosse sbagliate, come quando il generale Saturnino decise di togliere gli sbarramenti ai valichi dei Balcani orientali; ora azzeccavano la tattica giusta (la controguerriglia: raid fulminei e rastrellamenti), in ultimo con Sebastiano, il miglior generale dell’epoca. E fu proprio il successo d’un blitz notturno architettato da Sebastiano (sul fiume Maritza) a convincere Valente che aveva ormai la vittoria in tasca e non gli conveniva attendere i rinforzi mandati dal nipote Graziano, imperatore d’Occidente. Si arrivò così allo scontro in campo aperto nella piana di Adrianopoli. Ci furono trattative in extremis per evitare la battaglia, ma gli interlocutori erano reciprocamente sospettosi e non approdarono a nulla. Nel tardo pomeriggio del 9 agosto le

PROTAGONISTI

La loro AUTORITÀ era talmente estesa da essere tollerati a corte

L’

Impero romano cominciò presto ad avere carenza di uomini disposti a servire nell’esercito, in fredde e sperdute lande di frontiera, lontano da casa per un quarto di secolo. C’era gente disposta a tagliarsi i pollici pur di essere riformata; i grandi latifondisti, poi, si guardavano bene dal privarsi dei loro coloni: tutt’al più, mandavano i più sfaticati e gracili, che come soldati valevano ancor meno che come braccianti. Così gli imperatori finirono per andarsi a cercare i soldati fuori dall’impero, in mezzo ai barbari. Oltre il Reno, oltre il Danubio, c’erano infatti dei marcantoni che vivevano per la guerra, non avevano grandi pretese e ammiravano la civiltà romana. Con il regno di Teodosio (379-395) i barbari nell’esercito imperiale arrivarono a essere talmente tanti che il termine “goto” divenne sinonimo di “soldato”. Il cristianissimo imperatore, d’altronde, era venuto a capo della lunga crisi militare iniziata con la disfatta di Adrianopoli subìta dal suo predecessore Valente nel 378 solo offrendo ai Visigoti uno stanziamento in territorio imperiale e ricchi emolumenti: da quel momento i barbari avrebbero trattato da pari a pari con l’impero, stipulando con Roma dei foedera, patti solenni di mutua assistenza (da cui il termine foederati con cui venivano definite le tribù che combattevano a fianco delle legioni). Scalata al vertice. La torrenziale immissione di reclute barbariche nell’esercito romano aprì in compenso la strada alla meritocrazia. Pare assurdo, ma Roma aveva conquistato il mondo disponendo solo raramente di comandanti all’altezza della situazione. Più spesso, i consoli e i proconsoli si vedevano assegnare il comando di una campagna per sorteggio, per alchimie politiche o per appoggi dinastici che ben poco avevano a che fare con le proprie qualità belliche. Ma adesso l’aristocrazia lasciava volentieri i compiti militari ai barbari, come in qualunque società che, raggiunto un elevato grado di benessere, preferisce delegare ad altri i compiti più sgradevoli. E i barbari più in gamba fecero rapidamente carriera, salendo fino ai vertici dell’apparato militare, rappresentati dai cosiddetti magistri militum. Si trattava dei generalissimi dell’esercito imperiale, sette in tutto: cinque per l’Oriente 80

LA CADUTA Romolo Augusto, ultimo imperatore romano d’Occidente, depone la corona ai piedi del magister militum Odoacre nel 476.

GRANGER/ALINARI

solo per l’ASCENDENTE sui barbari, di cui avevano il comando

e due per l’Occidente. Ma per ciascuna parte solo uno era il comandante supremo, detto praesentalis, ovvero di stanza nella sede imperiale. Tentato golpe. La costante pressione barbarica lungo le frontiere portò a una progressiva militarizzazione dello Stato, e i magistri militum, che si trattasse di barbari, mezzosangue o Romani di estrazione barbarica, finirono per diventare i veri detentori del potere. Il franco Arbogaste fu il primo generale barbaro a mettersi in testa di sostituire un imperatore. Nel 392 uccise (o costrinse al suicidio) Valentiniano II e fece eleggere al suo posto il capo della cancelleria Eugenio. Ma nella parte orientale dell’impero c’era ancora un sovrano degno di tale nome, Teodosio. Questi gli mosse guerra, venne in Italia con un grande esercito composto in gran parte di Goti e lo sconfisse sul Frigido, in una delle più grandi battaglie della tarda antichità. Poi Teodosio, prima di morire, divise l’impero tra i due figli, Arcadio e Onorio, affidando il secondo alla tutela del magister militum Stilicone, figlio di un soldato vandalo e di una romana. Sospettato. Stilicone si trovò alle prese con alcune delle invasioni più devastanti che l’impero abbia mai dovuto subire, e le gestì in modo ambiguo, almeno agli occhi dei tradizionalisti. Per esempio arginò sì gli assalti dei Visigoti di Alarico in Tracia, in Grecia e perfino in Italia, ma senza mai cogliere vittorie decisive, forse per potersi avvalere in futuro del re visigoto contro altri invasori, se non addirittura contro lo stesso Impero d’Oriente. In compenso nel 405 stroncò, ma solo all’altezza di Fiesole (Fi), l’avanzata di una turba multietnica condotta dall’ostrogoto Radagaiso. L’anno seguente, tuttavia, non poté impedire il passaggio del Reno da parte di una moltitudine di Vandali, Alani e Suebi, che devastarono la Gallia per un triennio prima di passare in Spagna e poi in Africa. A quel punto, però, Stilicone era già morto, vittima nel 408 di un repulisti contro il partito filo-barbarico. La sua morte liberò Alarico da ogni vincolo con l’impero e lo spinse ad assediare, espugnare e saccheggiare Roma nel 410. Carrierona. Il successivo magister militum fu un romano. Ma un romano anch’egli filo-barbarico: Flavio Costanzo. Questi sposò la sorella 81

dell’imperatore, Galla Placidia, e nel 421 venne elevato al trono come co-imperatore, prima di spegnersi con sospetta rapidità. Dopo una breve serie di mezze figure, nel 429 fu la volta di Ezio, un romano (forse con ascendenze sarmatiche) che aveva trascorso l’infanzia e l’adolescenza come ostaggio tra Goti e Unni, acquisendone mentalità, tecniche belliche e alleanze. Ezio raggiunse la carica di magister militum dopo lunghe lotte di potere, e rimanendo indenne – grazie al sostegno dei suoi alleati Unni – anche dopo aver tentato un colpo di Stato. La sua opera nell’arginare l’erosione dei territori imperiali fu titanica. Nel corso del trentennio che lo vide protagonista lo si trova vincente su tutti i fronti. Ma anche Ezio, come Stilicone, si espose al sospetto di non voler assestare il colpo decisivo ad Attila. Fatto sta che, poco dopo la morte del re unno e il venir meno della sua minaccia, fu lo stesso Valentiniano III a ucciderlo con le sue mani nel 454. Anche in questo caso la sua morte fu seguita da un sacco di Roma, a opera stavolta dei Vandali di Genserico, e dalla caduta della dinastia teodoside, che sancì la fine della stabilità dinastica dell’Impero d’Occidente. Ruoli invertiti. Dell’assenza di una figura imperiale autorevole approfittò Ricimero, magister militum di padre suebo e madre visigota. Ricimero lasciò andare in malora il resto dell’impero e si concentrò sulla salvaguardia della sola penisola italica, nonché del proprio potere: si mantenne in sella per sedici anni, dal 456 al 472, svolgendo un ruolo rilevante nell’elezione come nell’eliminazione di ben quattro imperatori. Morì durante il sacco di Roma operato dalle sue stesse truppe – le truppe dell’esercito imperiale! – nella guerra civile contro l’imperatore Procopio Antemio. Il nipote Gundobaldo, che gli succedette nella carica di generale supremo, si liberò presto di quel fardello per andare a sedere sul trono del regno burgundo; ma non senza aver prima eletto un nuovo imperatore, Glicerio. La carica di generalissimo andò invece a Flavio Oreste, un romano pannonico che aveva svolto a lungo servizio alla corte di Attila. Il nuovo magister militum non esitò a marciare su Ravenna, costringendo alla fuga il nuovo imperatore Giulio Nepote e insediando al suo posto il proprio figlio, Romolo Augusto. Ma nonostante i suoi trascorsi barbarici, Oreste era ancora troppo romano per poter gestire le rivendicazioni dei barbari dell’esercito, i quali, al pari degli altri popoli insediatisi nell’impero, pretendevano terre in Italia. I soldati trovarono un leader nel nuovo magister militum, lo sciro Odoacre, che ucci82

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Finché esisteva una MINACCIA esterna, la loro sopravvivenza politica era GARANTITA

se Oreste e detronizzò Romolo Augusto. Era il 476: Odoacre restituì le insegne imperiali a Costantinopoli e divenne il sovrano d’Italia. Finché un nuovo barbaro, l’ostrogoto Teodorico, non venne a mettere fine al suo dominio col beneplacito dell’imperatore d’Oriente. t Andrea Frediani

STILICONE Particolare del Dittico consolare di Stilicone (359-408), che ritrae intagliato in avorio il magister militum.

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3

L’ALBA DELL’ITALIA

UN POSTO AL SOLE

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DEA/GETTY IMAGES

Partiti dalla SVEZIA, dopo un viaggio lungo 6 secoli i Goti giunsero da noi. E il loro capo TEODORICO fondò il primo REGNO italiano

I

L’assedio di Perugia da parte del re ostrogoto Tòtila nel 548, in un affresco di Benedetto Bonfigli (1420-1496). È un episodio della Guerra gotica, che oppose Ostrogoti e Bizantini per il controllo dell’Italia. A destra, la stele di Rök (Gotland, Svezia) le cui rune ricordano Teodorico il Grande, re d’Italia dal 493 al 526.

CONTRASTO

TERRA CONTESA

l primo re d’Italia non aveva i baffi all’insù, non si chiamava Vittorio Emanuele e non era un piemontese, bensì un austriaco con avi ucraini e svedesi: un perfido eretico, che non si limitò a confinare il papa dei suoi tempi in Vaticano, ma lo chiuse in carcere; un mostro sanguinario, che Satana venne a prendersi di persona, per scaraventarlo nel cratere dell’Etna. O forse solo un genio in anticipo sulla Storia, che la Chiesa perseguitò da morto, oltraggiandone la salma e la memoria, per la semplice ragione che non era riuscita a piegarlo da vivo. Benedetto barbaro. Si chiamava Thiudareicks, nome germanico che significa “Potente sul popolo”, storpiato però dai Bizantini in Teodorico, che in greco suona più o meno “Dono di Dio”. Visse 14 secoli prima di Vittorio Emanuele II, di Garibaldi e della breccia di Porta Pia, dal 454 al 526. Regnò sugli Ostrogoti (cioè “Goti dell’Est”, contrapposti ai Visigoti, loro cugini dell’Ovest), il popolo che 12 anni dopo la fine dell’Impero romano superò le Alpi e fondò appunto un Regno d’Italia, con capitale Ravenna e cittadini di lingue, religioni e usi diversi. Fu la più importante invasione “barbarica” della nostra storia, quella degli Ostrogoti: l’unica dove l’uso delle virgolette è d’obbligo, perché in realtà portò una ventata di civiltà, dopo gli anni decadenti e cupi del tardo impero. Grazie a Teodorico, infatti, la Penisola conobbe principi di una modernità sorprendente: libertà di culto, laicità dello Stato, distribuzione delle terre, certezza del diritto, messa al bando della giustizia privata. Ma chi erano questi Goti, barbari tutt’altro che barbari? Per rispondere è necessario un lungo flash-back. Fucina di genti. “A settentrione, nelle onde salmastre dell’oceano, c’è una grande isola: la Scandzia, che ha la forma di una foglia di limone con i lati schiacciati per tutta la sua lunghezza”. In estate quel Paese remoto “ha luce continua per 40 giorni e 40 notti” e benché sia “una fabbrica di popoli, anzi l’utero 85

Lago Vättern

Prima migrazione dei Goti (II secolo a.C.-IV secolo d.C.) Migrazione dei Visigoti (IV-VI secolo d.C.) Migrazione degli Ostrogoti CRIMEA C (IV-V secolo d.C.) Regno di Teodorico (493-526)

Göteborg

LA GÖTA

Fondata dai Goti all’inizio del I secolo d.C. col nome di Danparastadir

ND

Dnepr

Kiev

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A IN A

D a nu b i o

Tolosa Ravenna

ANI BALC

Toledo Roma

Capitale del regno visigoto dal 507

D a nu b i o

Adrianopoli

Qui i Romani tentarono di respingere i Visigoti, nel 378

Saccheggiata dai Visigoti nel 410

La grande MIGRAZIONE dei popoli del NORD fu spinta da una MINIGLACIAZIONE, che rese impossibile vivere in Scandinavia delle genti” è però “non solo inospitale per gli uomini, ma crudele anche con le belve”: tanto che d’inverno i lupi, quando cercano di attraversare il mare gelato per raggiungere terre più accoglienti, “restano accecati per il troppo freddo”. La storia dei Goti può iniziare così, in modo simile ai “c’era una volta” delle fiabe: in un’isola che in realtà non è un’isola (la “Scandzia”, alias Scandinavia Meridionale); su un mare che d’inverno non è un mare, ma una lastra di ghiaccio (il Baltico); e in un tempo senza tempo, quando in Scandzia non c’erano ancora calendari, lusso da popoli ricchi. Fu allora che due tribù (Visigoti e Ostrogoti appunto) riuscirono nell’impresa che era fallita ai lupi: partirono dalla Svezia e sbarcarono oltre il Baltico, in Polonia. Nomi rivelatori. A narrarci quell’epopea è un libretto in latino, intitolato De origine actibusque Getarum, pubblicato nel 551 a Bisanzio. Autore: tale Jordanes, un goto diventato funzionario imperiale, che in realtà vendeva farina di un sacco altrui. Infatti il suo libro era un sunto di un’altra opera (l’Historia gothica, scritta a Ravenna e oggi perduta) con l’aggiunta di qualche licenza poetica, tipo la Scandzia definita isola e l’estate artica riferita al Sud sve86

dese, dove il sole di mezzanotte è frequente come i caribù a Catanzaro. Eppure l’essenza del racconto, cioè l’origine scandinava dei Goti, è vera. Lo provano i molti toponimi che a nord del Baltico ricordano quegli antichi migranti: la Svezia del Sud si chiama tuttora Götaland e la seconda città del Paese Göteborg (“Fortezza dei Goti”), mentre in mare spunta un’isola coperta di erica, prediletta dal regista Ingmar Bergman, detta Gotland. Di più: a sud-ovest di Stoccolma un grande lago azzurro (il Vättern) divide due province, Östergötland e Västergötland, i cui nomi sembrano evocare proprio Ostrogoti e Visigoti. Fuga dai ghiacci. L’archeologia conferma che i Goti (o i loro avi con altro nome) abitavano lassù almeno dal 1500 a.C.: allevavano pecore, coltivavano ortaggi, adoravano Thor e Odino. Resta da capire perché, a un certo punto, decisero di partire. «Durante l’Età del bronzo», spiegava Hermann Schreiber, storico e scrittore viennese, noto studioso dei Goti (è morto nel 2014), «si verificò per cause non ancora accertate un peggioramento del clima. La vita, che già prima era tutt’altro che facile, in certe zone divenne impossibile».

SULLE ORME DEI GOTI Nella cartina, le migrazioni dei Goti e i luoghi legati alla loro storia. Della stirpe gotica facevano parte anche i Gèpidi, che finirono per fondersi con gli Avari. A destra, un ritratto di Teodorico.

E i Cimbri vivono ancora sulle Alpi battendo più volte i Romani (107 e 105 a.C.). A fermarli riuscì Caio Mario, che nel 102 a.C. sconfisse i Tèutoni ad Aquae Sextiae (oggi Aix-en-Provence) e nel 101 i Cimbri ai Campi Raudii (probabilmente presso Vercelli, ma secondo alcuni nel Ferrarese). Massacro. Lo storico greco Plutarco riferisce che la seconda battaglia fu uno spietato massacro: i barbari uccisi sarebbe-

ro stati 120mila, tutti lasciati insepolti; e a scontro finito i vincitori avrebbero infierito anche su donne e bambini. Ciononostante i superstiti si stanziarono stabilmente in alcune località alpine. Tuttora la lingua cimbra è parlata da un migliaio di persone fra Luserna (alias Lusèrn, Trento) e Roana (alias Robaan, Vicenza). Il Trentino ha riconosciuto a questa piccola comunità lo status

di minoranza etnica, mentre sull’Altopiano di Asiago esiste una scuola di cimbro, che tenta di salvare dall’estinzione l’antico idioma. Lingua barbara. Anche 8 comuni dei Monti Lessini (Verona) vantano ascendenze cimbre, ma di fatto l’unica località veronese dove si parla ancora la “lingua dei barbari” è Giazza (alias Ljetzan) minuscola frazione di Selva di Progno.

COSTA/LEEMAGE

È

opinione corrente che le invasioni barbariche coincidano col tramonto dell’Impero romano. In realtà le migrazioni di tribù germaniche verso il Sud Europa iniziarono molto prima, quando l’impero non esisteva ancora: a cominciare furono i Cimbri e i Tèutoni, che intorno al 120 a.C. calarono dall’attuale Danimarca verso la Provenza, la Spagna e la Pianura Padana,

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Durante i regni BARBARICI in Italia si FUSERO due diverse tro, che dopo 5 generazioni marciò lungo il Dnepr nell’attuale Ucraina, si chiamava Filimero. Ma il più grande di tutti fu Ermanarico, che regnò nel 350-376 sui soli Ostrogoti, ormai padroni di un potente Stato tra Kiev e la Crimea. Incursioni. In questa prima fase il mondo romano non subì invasioni, ma sporadiche guerre di confine sì. I Goti fecero sanguinose incursioni in alcune città greche dell’Asia Minore (Calcedonia, Efeso); arrivarono a uccidere in battaglia un imperatore che li aveva attaccati (Decio, nel 251); suscitarono gli scandalizzati commenti dello storico romano Ammiano Marcellino: “Imperversarono con omicidi e rapine, fecero scorrere sangue, appiccarono incendi, fecero violenza a uomini liberi, commettendo ovunque orribili scelleratezze”. Che la realtà non fosse questa, o non solo questa, lo dimostra però la condotta degli stessi Romani, che coi Goti stipularono ripetuti trattati di collaborazione, ar-

SIGNORI D’IBERIA Miniatura del X secolo con alcuni dei sovrani visigoti che regnarono sulla Spagna.

IL PALAZZO CHE NON C’È Il “palazzo di Teodorico” a Ravenna. In realtà, sarebbero i resti di una chiesa.

COSTA/LEEMAGE

In carenza di testi scritti, a parlare sono altre fonti: «Che l’esistenza fosse durissima», continua Schreiber, «ce lo dicono i corredi sepolcrali. Attrezzi da lavoro, trovati in tombe femminili, ci fanno capire che anche le donne erano costrette a compiti pesanti». E sempre dalle tombe si può ricavare un preciso e raggelante modello demografico del mondo gotico: «Su tre figli di una famiglia, di norma solo due arrivavano ai 18 anni; in zone più inospitali addirittura solo uno. La vita di chi diventava adulto, poi, durava in media 40 anni». Compagni di viaggio. Fu così che la Scandinavia si trasformò nella “fabbrica di popoli” e nell’“utero delle genti” di cui parla Jordanes. Infatti i Goti non furono i soli a lasciare il Nord in cerca di un posto al sole: prima di loro dallo Jutland erano partiti Cimbri e Tèutoni (v. riquadro); secoli dopo dalla Svezia emigrarono anche i Longobardi (v. a pag. 57); infine, a Medioevo avanzato, dai fiordi norvegesi (e non solo) sarebbero partite le spedizioni dei Vichinghi. I “condottieri” che spinsero a sud questi popoli furono due, sempre gli stessi: si chiamavano Fame e Gelo. Ma a guidare i Goti c’erano anche re in carne e ossa. Che furono molti, perché la “lunga marcia” dalla Scandzia all’Italia non fu un blitz: durò più di sei secoli e si svolse a tappe (v. cartina). Il re dello sbarco in Polonia fu tale Berig, vissuto forse intorno al 150 a.C. Un al-

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culture: quella GRECOROMANA e quella GERMANICA

I “cugini” Visigoti di Spagna

M

olto più a lungo del regno ostrogoto d’Italia durò quello visigoto, che ebbe in un primo tempo per capitale Tolosa (Francia) e poi Toledo (Spagna). Fondato nel 412 dal successore di Alarico, Ataulfo, questo regno durò infatti per ben tre secoli e 34 generazioni di sovrani. Legalizzati. Dopo un primo tempo di conflittualità, l’impero riconobbe ai nuovi venuti lo status di foederati, legalizzandone di fatto l’invasione

(418). Più dei Romani, a creare problemi ai Visigoti furono i Franchi, etnia germanica concorrente che li confinò oltre i Pirenei (507). Cattolici. In Spagna i “barbari” lasciarono tracce profonde: convertiti nel 589 al cattolicesimo, nel VII secolo diventarono strenui difensori del mondo cristiano contro l’islam. Il loro regno cessò di esistere nel 711, quando gli Arabi occuparono gran parte della Penisola iberica.

rivando spesso a usare i vicini “barbari” come soldati per risolvere le loro lotte di potere interne. Un esempio: Licinio, nemico di Costantino, aveva un esercito formato in parte da Goti. Tutto però cambiò alla fine del IV secolo, perché dall’Asia cominciarono a premere altri popoli, barbari senza virgolette. A causa della loro posizione geografica, i Goti ne subirono l’urto prima dell’impero, nel 375. Inutilmente Ermanarico cercò di fermarli; poi, sconfitto e disperato, si suicidò. Nel 378 i Goti cominciarono a cercare scampo in massa verso ovest, oltre il Danubio, confine dell’impero. Visti con l’occhio dei Romani, erano degli invasori; ma se si guarda la realtà da una posizione più neutrale erano solo profughi in cerca di terre sicure. Avanguardia. I primi a muoversi furono i Visigoti: passato il Danubio, trovarono un “comitato di accoglienza” bizantino, armato fino ai denti, ad Adrianopoli (oggi Edirne, in Turchia); ma si fecero strada a forza, si stabilirono nei Balcani e anni dopo, con un disinvolto giro di valzer, si arruolarono nell’esercito imperiale di Stilicone. Poi, quando questo si sfaldò e l’Italia divenne un’anarchica terra di nessuno, con un altro giro di valzer invasero due volte la Penisola (401 e 408) e saccheggiarono Roma (410). Infine emigrarono in Francia e poi in Spagna (v. riquadro). Tratti leggendari ha assunto nel tempo la figura del re visigoto che guidò le campagne d’Italia, Alarico, che morì in Calabria e fu sepolto nel letto del fiume Busento, deviato per l’occasione. Giosuè Carducci gli dedicò una nota poesia (“Cupi a notte canti suonano / da Cosenza su’l Busento, / cupo il fiume gli rimormora / dal suo gorgo sonnolento [...]”) ma Alarico gode fama immeritata: infatti con lui l’Italia conobbe solo il peggio dei Goti. Malelingue. Sorte opposta ha avuto l’ostrogoto Teodorico, un gigante della Storia, che però la tradizione (cattolica ma non solo) ha coperto di infamia. Quando morì, la sua salma fu tumulata nel mausoleo reale a Ravenna, ma fu ben presto sottratta da zelanti frati, che la dispersero altrove, mentre un papa (Gregorio Magno) sparse la voce che il “tiranno” era sceso all’inferno anima e corpo attraverso un vulcano. E secoli dopo il solito Carducci scrisse un’ode dove un cavallo nero, incarnazione di Satana, rapiva il re per gettarlo nel cratere dell’Etna. Eppure Teodorico fu un barbaro civilissimo: l’unico che non ci fu bisogno di convertire, perché arrivò in Italia già cristiano; l’unico che guidò un’“invasione autorizzata” nientemeno che dall’imperatore; l’unico passato alla Storia più per opere di pace che di guerra. Perché tanto astio, allora? 89

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do: nel 523 Teodorico chiese a Giovanni di intervenire perché in Oriente fosse garantita agli ariani la stessa libertà di cui godevano i cattolici in Italia. Il papa non collaborò e Teodorico lo spedì in carcere fino alla morte. Gli ultimi anni del re ostrogoto non furono all’altezza dei precedenti. Sentendo vacillare il suo progetto di un’Italia multietnica e multireligiosa, Teodorico cominciò a vedere nemici ovunque e incrudelì. Oltre a papa Giovanni I, ne fece le spese il filosofo Boezio, che l’anziano sovrano condannò a morte nel 525, pochi mesi prima che la natura facesse altrettanto con lui. Screditato. Sottolineando le crudeltà degli ultimi anni, il papato fece presto dimenticare i decenni di buon governo del re. E l’immagine del tiranno sul cavallo nero sostituì quella vera, riprodotta sulle monete dell’epoca: un uomo dal volto rotondo, con occhi grandi e tranquilli, capelli a caschetto e vezzosi riccioli biondi sulla fronte. Anche il Regno d’Italia finì male: 9 anni dopo la morte del carismatico re, l’Impero d’Oriente pensò bene di riprendere direttamente il potere sulla Penisola. Ne nacque un feroce conflitto, noto come Guerra gotica (535-553), che spazzò via il ricordo del trentennio felice. Alla fine l’Italia diventò bizantina: i Goti non c’erano più. O meglio, non erano più un popolo a sé: mescolati agli indigeni di lingua latina, diventarono italiani. t

CONCORRENTI ORIENTALI Sopra, una placca in bronzo degli iranici Alani, contro cui i Visigoti si scontrarono in Spagna. Sotto, pietra scolpita dell’XI secolo: il re goto Ermanarico uccide il figlio adultero di fronte a Odino.

Nino Gorio AKG/ MONDADORI PORTFOLIO

Colto e preparato. Il futuro re era nato nel 454 in Pannonia (attuali Austria e Ungheria), forse a Neusiedel, ma era cresciuto a Bisanzio. Infatti l’Impero d’Oriente aveva permesso ai “barbari” di stabilirsi in terre romane, più sicure dell’Ucraina, ma a garanzia di pace aveva chiesto loro ostaggi di sangue reale: uno era appunto Teodorico, che approfittò del soggiorno sul Bosforo per studiare la cultura greco-romana. Così, quando l’Impero d’Occidente cadde (476) per un golpe del mercenario Odoacre, l’imperatore d’Oriente Zenone incaricò Teodorico, goto civilizzato, di ristabilire l’ordine. La situazione era paradossale: degli stranieri invadevano l’Italia, culla dell’impero, su invito dell’impero stesso. Ma in fondo era un affare: non si rischiavano vite romane e si metteva un barbaro contro l’altro. Così Teodorico partì coi suoi (488), sconfisse e uccise Odoacre, si installò a Ravenna (493) e si autoproclamò re d’Italia; Bisanzio ratificò l’incoronazione (498). Sovrano illuminato. Subito il re goto diede ottima prova di sé: restaurò acquedotti, abbellì Ravenna, garantì la sicurezza, promulgò leggi-quadro uguali per tutti (l’Edictum Theodorici, che oggi chiameremmo Costituzione), razionalizzò l’agricoltura con una redistribuzione delle terre (un terzo ai Goti, due terzi ai Romani) e soprattutto promosse la convivenza multietnica, lottizzando compiti e poteri: ai Romani affidò la cultura e l’amministrazione statale, ai Goti l’ordine pubblico e la difesa, ai Greco-Bizantini le opere pubbliche e l’arte. Identica lottizzazione fu applicata in campo religioso. In un’Italia prevalentemente cristiana, ma divisa fra cattolici ed “eretici” ariani, toccò proprio a Teodorico (ariano) garantire chi pregava Dio in modo diverso. Così, seguendo una sorta di manuale Cencelli ante litteram, il re divise chiese e battisteri fra le due confessioni. E, cosa inaudita per l’epoca, difese persino la libertà di culto degli ebrei, imponendo che fossero ricostruite a spese dei cristiani alcune sinagoghe distrutte. Tramonto di sangue. L’idillio durò trent’anni, nonostante l’opposizione del papato, che puntava a diventare l’unica autorità in Italia. I pontefici con cui Teodorico si scontrò furono due: Simmaco e Giovanni I. Neutralizzare il primo fu facile: il re convocò un sinodo di vescovi compiacenti e lo fece rimuovere. Più complicata la vertenza col secon-

THE ART ARCHIVE/AGF

Teodorico era un cristiano di fede ARIANA, che osò incarcerare il PAPA. Per questo fu OSTEGGIATO e demonizzato dalla Chiesa di ROMA

ASSEDIO CAPITALE

ROMA è stata una delle città più assediate della Storia. E durante le GUERRE GOTICHE se la vide davvero brutta

L’URBE SOTTO ATTACCO N

ella prima metà del VI secolo l’Italia, che fino a pochi decenni prima era stata il centro del mondo conosciuto, e aveva ospitato la capitale di un impero secolare, era un possedimento ostrogoto. Come si fosse arrivati a una geopolitica tanto curiosa è presto detto: nel 476 l’ultimo imperatore occidentale, Romolo Augustolo, era stato deposto dal capo dell’esercito, il barbaro Odoacre, che non si era premurato di eleggere un sostituto, dichiarandosi vassallo dell’imperatore d’Oriente. Ma quando quest’ultimo ne aveva avuto abbastanza, gli aveva mandato contro uno dei suoi generali barbarici, Teodorico, anche per levarselo di torno. Questi, nel 489, aveva invaso la Penisola con tutto il suo popolo, impossessandosene e creando un regno romano-barbarico, che avrebbe garantito una certa stabilità, almeno fino alla sua morte, nel 526. UNA DONNA, NO! A Teodorico successe la figlia Amalasunta, che riconobbe subito l’autorità del nuovo, volitivo imperatore Giustiniano. Ma c’era un partito, tra i Goti, che non intendeva sottostare al governo di una donna, per giunta vassalla dell’imperatore: fu suo marito e cugino Teodato a eliminarla, offrendo così a Giustiniano, nel 535, il pretesto per intervenire. L’offensiva bizantina portò subito al recupero della Sicilia e della Dalmazia, e immediatamente dopo di Napoli, espugnata dal trace Belisario, trionfatore poco prima dei Vanda92

PIOGGIA DI FRECCE Nel 537 i Goti di Vitige avvicinano alla cerchia muraria di Roma le torri mobili d’assedio, trainate dai buoi. Ma non hanno fatto i conti con le frecce dei Bizantini sotto assedio, guidati da Belisario, che colpiscono le bestie. Le torri non si avvicineranno neanche agli spalti.

J. CABRERA

BELISARIO adottò misure STRAORDINARIE, come cambiare di continuo gli ufficiali di GUARDIA alle porte della città

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i lupi, saracinesche di legno dotate di aculei, sganciate per schiacciare gli assalitori. Nel settore della Porta Prenestina, a est, i Goti riuscirono ad aprire una breccia, ma Belisario li ricacciò indietro e anzi condusse un contrattacco fino a uno dei loro campi. Nella zona vaticana, gli assedianti diedero l’assalto al Mausoleo di Adriano, ma i difensori frantumarono le statue presenti sulla sommità della rocca e ne scagliarono i pezzi sui nemici inerpicatisi con le scale. Alla fine della giornata, Vitige dovette ritirarsi dopo aver lasciato sul campo un quinto del proprio esercito. Solo dopo questo scacco il re goto si rese conto di dover bloccare anche la metà meridionale della città, dove il Tevere conduceva a Portus e quindi agli approvvigionamenti via mare. E così il blocco si fece serrato, costringendo i Romani a rifornirsi più lontano, ad Anzio e Terracina, con i rischi che ciò comportava. Seguirono giorni di scaramucce tra la cavalleria mercenaria di Belisario e gli assalitori, che venivano regolarmente attirati sotto le mura dai raid degli Unni in forza ai Bizantini e bersagliati con le macchine da getto. Ma almeno in una circostanza la nostra fonte deve ammettere che il generale subì una sconfitta campale, ai Campi Neroniani, dove Belisario si era inopinatamente spinto cercando uno scontro in campo aperto. E un altro relativo insuccesso dovette registrarlo all’inizio dell’estate, quando sacrificò cospicui contingenti per tenere impegnati i Goti mentre una colonna faceva entrare in città le paghe dei soldati, provenienti da Terracina. ALLA FAME. Con l’estate, però, iniziarono i patimenti degli assediati, tanto più che Vitige si decise a bloccare anche le vie di rifornimento di terra, ponendo un presidio a ridosso della Via Appia. Procopio descrive scene penose di gente che si cibava dell’erba cresciuta lungo le mura o del grano falciato con grandi rischi dai cavalieri che osavano avventurarsi all’esterno, rivendendolo a prezzi esorbitanti; si facevano salsicce con la carne dei muli morti, e i cadaveri lasciati insepolti finirono per diffondere epidemie. Ma presto anche i Goti iniziarono a passarsela male: Belisario li mise in una scomoda posizione tagliando anche a loro i rifornimenti, grazie all’azione dei suoi luogotenenti che occuparono tutti i centri circostanti. MAGNUM/CONTRASTO

li in Africa. I suoi successi provocarono la caduta dell’imbelle Teodato, rilevato dal più determinato Vitige. Questi decise subito di abbandonare l’Italia Centrale all’avanzata del generale bizantino e trincerarsi all’altezza di Ravenna, che essendo stata la capitale dell’impero nell’ultimo secolo della sua esistenza, aveva una maggiore valenza politica di Roma. Ma l’Urbe aveva ancora un peso simbolico rilevante, tanto che il re goto dovette subito pentirsi di aver lasciato che Belisario la occupasse, nel dicembre 536, senza colpo ferire: non a caso, per i Romani iniziava allora un quindicennio di tribolazioni. DURA RISPOSTA. Il contrattacco goto ebbe luogo nel marzo dell’anno seguente, quando Vitige si presentò davanti alle mura della città, che Belisario aveva provveduto a restaurare, con almeno 30mila uomini (sebbene la nostra fonte, Procopio di Cesarea, parli di 150mila effettivi); talmente tanti, rispetto ai 5mila di cui disponeva il generale come guarnigione, che i Goti contavano di prendere la città d’assalto. Il generale bizantino si fece sorprendere dal loro arrivo mentre era in ricognizione con un migliaio di uomini oltre la Porta Salaria, ed ebbe la peggio: nella confusione della rotta, non riuscì neppure a farsi aprire le porte dai difensori, e dovette combattere sotto le mura, per riparare all’interno solo al crepuscolo, con pochi superstiti e grazie a una sortita che respinse l’assalto nemico. Vitige dovette così rassegnarsi all’assedio, che pose elevando sei campi fortificati lungo tutta la cinta muraria. Per tutta risposta, Belisario sbarrò con massi le porte, murando le bocche degli acquedotti e sostituendoli con due mulini sul Tevere, collocati su barche legate a un ponte, con una catena protettiva per difenderli dai tronchi d’albero che gli assedianti gli inviavano contro fruendo della corrente. Ma i Goti preparavano un nuovo attacco, che sferrarono il diciottesimo giorno di assedio, lungo tutto il semicerchio settentrionale, da Porta Prenestina al Mausoleo di Adriano, ora Castel Sant’Angelo. Vitige lanciò all’assalto delle mura ben quattro torri semoventi alte fino alle merlature, riempiendo i fossati con fascine di legno e canne. BASTARONO I DARDI. La difesa adottata da Belisario fu di una semplicità disarmante: egli stesso scagliò le prime tre frecce contro i buoi che trainavano i macchinari, e subito dopo una gragnola di dardi sterminò gli animali rendendo le torri inutilizzabili. Seguì l’azione delle macchine da getto, frecce e massi scagliati da baliste e onagri, che lasciarono avvicinare alla base del muro solo pochi Goti; questi ultimi furono neutralizzati mediante

IL LIBERATORE Nel 536 a Belisario era andata meglio: aveva conquistato Napoli senza quasi combattere, poi a Roma aveva sbaragliato facilmente i Goti, accolto come un liberatore dalla popolazione che aveva subito il malgoverno degli occupanti. Qui, il suo ingresso nell’Urbe.

Sotto, quel che resta della fortezza di Masada, la città giudea presa dai Romani con una rampa d’assedio.

GETTY IMAGES

Quando Roma attaccava: Masada

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on la caduta di Gerusalemme nel 70 d.C., i Romani si illusero di aver posto fine alla ribellione in Giudea. Ma gli zeloti più irriducibili si erano asserragliati in tre fortezze, due delle quali conquistate dai capitolini in breve tempo. Rimaneva la terza, un caposaldo costruito da Erode su un’altura dalle pendici a strapiombo nei pressi del Mar Morto, che si presentava inespugnabile: Masada. Il nuovo

procuratore Flavio Silva si trasferì alle pendici del monte nell’autunno del 72, dedicando all’assedio un’intera legione, la X Fretensis, i cui effettivi erano triplicati dalla presenza di ausiliari e non combattenti ebrei: 15mila uomini in tutto, contro i 960 zeloti della fortezza, in parte donne e bambini, al comando di Eleazar ben Ya’ir. Alla romana. Silva fece erigere un muro di pietrisco alto 1,8 metri tutt’intorno all’altura,

e allestì ben 11 torri e 8 campi trincerati. Ma il solo sentiero praticabile per la sommità della rocca era stato ostruito dagli zeloti con pesanti macigni, e ci voleva ben altro che un muro di circonvallazione per stanare i difensori. Il procuratore individuò una collinetta accanto all’altopiano, la cui altezza era inferiore di 137 metri a quella di Masada, e si mise in testa di costruire un terrapieno che unisse le due

asperità e costituisse una rampa per accedere alla fortezza. I Romani elevarono il terrapieno a un’altezza di 91 metri, con un’inclinazione a salire di 20 gradi; ne rimanevano da colmare una cinquantina, parte dei quali fu compensata da una piattaforma di blocchi di pietra, costruita sotto il bersagliamento dagli spalti. Restò un dislivello di 17 metri, che era necessario colmare per portare le macchine ossidionali a

livello della cinta muraria. Il compito fu affidato a una elepoli arietaria, torre alta 27 metri che, accostata alle mura, nell’aprile del 73 vi aprì una breccia. I Romani andarono a dormire sicuri di poter espugnare il caposaldo il mattino dopo. Sorpresa! In effetti, vi penetrarono all’alba senza trovare resistenza; ma solo perché, come scoprirono subito dopo, gli zeloti si erano tutti suicidati, a parte due donne e cinque bambini.

SCALA

AKG/MONDADORI PORTFOLIO

A COLPI DI STATUE I Bizantini si difendono gettando addosso agli assedianti statue e marmi del Mausoleo di Adriano. Sopra, l’imperatore Giustiniano.

VITIGE finì per ritirarsi dopo un anno d’assedio, al termine del suo 69° COMBATTIMENTO sotto le mura della città

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di papa Vigilio. I cittadini chiesero allo stesso Bessa, come scriveva lo storico Edward Gibbon, “di provvedere al loro mantenimento, o di permettere che uscissero dalla città, oppure di farli immediatamente uccidere. Bessa rispose senza commuoversi che era impossibile mantenere, pericoloso lasciar partire, illegale uccidere sudditi dell’imperatore”. Dopo un anno e mezzo di blocco quattro sentinelle, da tempo senza stipendio, finirono per aprire le porte ai Goti, che distrussero parte delle mura e fecero evacuare la città, che rimase deserta per 40 giorni. Belisario ne approfittò per impadronirsene di nuovo, resistendo nel 548 a un mese di assedio da parte di Totila. Il re goto tornò l’anno seguente, dopo che il valoroso generale bizantino era stato richiamato in Oriente, e ancora una volta delle sentinelle gli aprirono le porte. Questa volta Totila attribuì valore alla conquista, ma tre anni dopo giunse in Italia la sua nemesi, l’eunuco Narsete, che lo sconfisse nei pressi di Gualdo Tadino riconquistando l’Urbe dopo un breve assedio, il quinto in una guerra che aveva prostrato la Penisola lasciandola alla mercé dei successivi invasori, i Longobardi. t Andrea Frediani

UN RE GUERRIERO Vitige era stato acclamato re dei Goti per il suo valore in battaglia dove si era distinto contro Bulgari e Franchi.

GETTY IMAGES

I Bizantini arrivarono anche ad assalire uno dei campi goti, prima di ricevere rinforzi per 5mila uomini, che il generale fece sfilare sotto il naso di Vitige lungo il Tevere durante una tregua trimestrale. L’armistizio si rivelò fatale per gli assedianti, perché nel frattempo i Bizantini occuparono un gran numero di centri strategici lungo tutta la Penisola, arrivando a minacciare la stessa Ravenna, capitale del regno gotico. Vitige tentò il tutto per tutto con tre azioni per varcare le mura: attraverso un acquedotto, contro la Porta Pinciana e corrompendo alcuni abitanti della zona vaticana. Gli andò male. L’insuccesso costò al re il trono e ai Goti i loro domini a sud del Po. La loro riscossa sarebbe arrivata solo con l’avvento del nuovo re goto Totila che, nel 545, pose un nuovo assedio all’Urbe limitandosi ad attendere la resa della guarnigione, orfana di Belisario. TOTILA IL VENDICATORE. Fu un blocco serratissimo, che costrinse il popolo a vivere di carogne di cavalli, cani, gatti, topi, di ortiche bollite, di una pappetta di crusca da tempi di carestia e, in alcuni casi, addirittura dei propri escrementi; Procopio afferma che la gente cadeva stecchita per strada con i rovi in bocca. I ricchi si rovinavano per qualche staio di grano, che si pagava fino a 40 volte il prezzo consueto, mentre il comandante della città, Bessa, speculava sugli invii di cereali dalla Sicilia a opera

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DALL’AFRICA

Non erano più VIOLENTI dei soldati romani. E fecero rifiorire CARTAGINE. Eppure i Vandali divennero sinonimo di BARBARIE

INVASORI VANDALI SACCHEGGIO “PACIFICO”

CORBIS/CONTRASTO

A sinistra, il sacco di Roma del 455 in un’illustrazione del 1865: i Vandali saccheggiarono la città, ma non uccisero. A destra: le rovine di Cartagine (Tunisia), capitale dei Vandali dal 439 al 533, anno in cui fu conquistata dai Bizantini.

AGK/MONDADORI PORTFOLIO

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oma, anno del Signore 455. L’impero è alla frutta: le sue frontiere sono diventate uno sterminato colabrodo, la sua corte un ginepraio di complotti, il suo cuore (l’Italia) una specie di porto franco dove scorrazzano le armate dei barbari. In maggio-giugno una di queste armate, guidata dai famigerati Vandali della Tunisia, entra nella capitale e la saccheggia. L’imperatore Petronio Massimo, sul trono da due mesi, tenta la fuga; ma viene preso, lapidato, decapitato, poi squartato in mille pezzi e buttato nel Tevere come mangime per i pesci. Innocenti (o quasi). Chi uccise Petronio? Non accusate i Vandali. L’imperatore fu squartato da soldati romani, imbufaliti con quel sovrano codardo che se la svignava abbandonando i sudditi al ca-

os, come se non fosse maggio ma già l’8 settembre (del 1943). Quanto ai Vandali, razziarono oro, argento e opere d’arte, ma per il resto si comportarono in linea con la futura Convenzione di Ginevra: non uccisero civili, né bruciarono case. Così voleva un accordo preso con papa Leone I: saccheggio libero, ma niente sangue. E il re vandalo Genserico era un barbaro di parola. A scagionare i Vandali per l’atroce fine di Petronio Massimo sono cinque autori antichi, tutti di parte avversa agli invasori, quindi non sospettabili di odio antiromano: un prefetto bizantino (Procopio di Cesarea), uno storico dei Goti (Jordanes), un vescovo spagnolo (Idazio), un santo francese (Prospero d’Aquitania) e un funzionario imperiale (Sidonio Apollinare). I primi quattro, sia pure con 99

differenze di dettaglio, concordano nell’attribuire il regicidio ai Romani. Solo il quinto dice che i sicari erano mercenari Burgundi, ma al servizio di Roma. Strana sorte, quella dei Vandali. Gli uomini di Genserico furono autori dell’unico “saccheggio concordato” della Storia, privo di violenze e di “vandalismi” superflui; di certo non furono i migliori, ma neppure i peggiori fra i popoli che al tramonto dell’impero invasero l’Europa Occidentale; e in ogni caso durante il sacco di Roma sfoggiarono meno barbarie dei Romani. Eppure il loro nome, privato della maiuscola, è diventato un aggettivo spregiativo: per noi “vandalo” è chi fa danni gratuiti senza altro movente che il gusto di distruggere.

Anomali. Perché dunque questa pessima fama? Anzitutto i Vandali erano barbari anomali: gli unici dotati di una marina militare; gli unici con basi in Africa; gli unici che fecero più morti in pace (causa lotte religiose) che in guerra; quasi gli unici (insieme ai Visigoti) che non si limitarono a invadere l’impero, ma penetrarono fin dentro Roma. Altra anomalia: a differenza di Franchi, Longobardi e altri che si convertirono nel Medioevo, i Vandali erano cristiani già prima dell’invasione, tanto che in guerra portavano una Bibbia a mo’ di bandiera. Quegli strani barbari erano di stirpe germanica e in origine non vivevano in Africa, ma nell’odier-

Furono tra i primi POPOLI GERMANICI a convertirsi al CRISTIANESIMO. E impararono il DIRITTO romano

INTERFOTO/ALINARI

Genserico naviga verso l’Africa, in un’incisione dell’800.

Grandi navigatori (ma non gli unici)

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ome erano fatte le navi vandale? Esattamente come quelle romane, perché per decenni i barbari del Nord Africa non ebbero cantieri e si limitarono a usare quelle catturate ai nemici in Spagna e Tunisia. Solo verso la fine del loro regno ne fabbricarono in proprio, con legno di pino della Corsica. Relitti. Chi vuol vedere una nave vandala non ha che da immergersi nel basso Tirreno: al largo di Amantea e Vibo Valentia (latitudine circa 39° N, longitudine circa 15° E)

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a grande profondità ce n’è una, affondata nel 455 al ritorno dal sacco di Roma, col bottino (pare) ancora a bordo. Altri relitti potrebbero trovarsi in Corsica, dove i Vandali mandarono fino a 120 navi per combattere ribelli locali. Marina militare. Contrariamente a ciò che si crede, i Vandali non furono gli unici barbari con una flotta. Anche gli Ostrogoti ne possedevano una, tanto che la loro capitale Ravenna aveva il porto di Classe. Però i Vandali furono gli unici a usare le navi per atti di guerra e di pirateria.

tanto le ossa, 15 secoli fa li descriveva così: “Sono tutti bianchi nel corpo e biondi di capelli, alti di statura e belli d’aspetto”. Nei boschi. Divisi in due tribù sorelle (Hasdingi e Silingi) fino al II secolo quei giganti belli e biondi rimasero (quasi) tranquilli nelle loro foreste, popolate di alci e di bisonti, in un eterno presente senza Storia scandito solo dalle primavere e da periodiche guerricciole coi popoli vicini. Che per gli storici di oggi sono manna: infatti i Vandali non ebbero una loro storiografia, ma i loro nemici sì. Perciò quelle frequenti risse fra “cugini” generarono citazioni altrui, diventate col tempo notizie preziose, anche se frammentarie. Qualche esempio? Il goto Jordanes cita un antico eroe del suo popolo dall’eloquente nome di Vandalaharius (in lingua originale Wandala-harjis, cioè più o meno “Ammazza-Vandali”). E il longobardo

BRIDGEMAN/MONDADORI PORTFOLIO

IN MARCIA L’avanzata dei popoli nomadi verso Roma, in un dipinto dell’800. I Vandali arrivavano dalla Polonia.

na Polonia. Il loro vero nome era Wandili e il loro mitico avo era un dio di nome Manno. Poi il nome fu storpiato e Manno fu detronizzato dalla variante del cristianesimo chiamata arianesimo. Della loro storia più antica si sa poco e solo da scavi archeologici condotti in Slesia, regione già tedesca e ora polacca, intorno a un monte dal nome bilingue (Zobten/Sobotka) che nella preistoria era sacro e che oggi voci popolari dicono abitato da streghe. Dal 1875 in poi, fra il “monte delle streghe” e i dintorni di Breslavia, sono state trovate tombe con monete, armi e soprattutto resti umani che permettono di ricostruire l’aspetto fisico dei Wandili. Riassume Hermann Schreiber, studioso austriaco dei popoli barbari: «Erano alti, di ossatura robusta, con una dolicocefalia (cioè con crani più lunghi che larghi, ndr) piuttosto marcata e il naso affilato». Procopio di Cesarea, che di loro non vide sol-

SCALA

LIBERACI DAI BARBARI San Giusto e san Clemente intercedono affinché i Vandali lascino la Francia, in una pala d’altare del 1460.

La cattiva REPUTAZIONE di cui godettero si deve al fatto che non strinsero mai ACCORDI. Né con l’impero, né con la Chiesa di Roma Paolo Diacono, nella Historia Langobardorum, informa che “i Vandali, guidati da Ambri e Assi (due condottieri, ndr), avevano conquistato i territori vicini e, imbaldanziti dalle continue vittorie, intimarono ai Longobardi di pagare un tributo o di prepararsi alla guerra”. In viaggio. «Tutto cambiò nel III-IV secolo, quando la crescente pressione degli Unni e di altre genti asiatiche mise in moto un effetto domino che spinse a ovest uno dopo l’altro i popoli dell’Est Europa», osservava qualche anno fa Nicoletta Francovich Onesti, già docente di Filologia germanica all’Università di Siena e autrice di un libro sull’argomento (I Vandali. Lingua e storia, Carocci). Quelle migrazioni vanno sotto il nome di invasioni barbariche, ma il termine è improprio perché gli invasori erano più che altro profughi da terre invase, talvolta feroci come tutti i disperati. I Vandali cercarono scampo in Dacia (Romania) e Pannonia (Ungheria). E Roma tentò di assorbire quegli “extracomunitari” sfruttandoli come manodopera a basso costo: l’imperatore Costantino (274-337), per esempio, arruolò Vandali nelle sue legioni. Ma non bastò: nel 401 i pronipoti del dio Manno passarono nel Norico (Austria) e in Rezia (Svizzera), poi sul Reno (Germania), dove la notte di Capodanno del 407 superarono il fiume gelato entrando in Francia. Non era finita. Nel 409 i Vandali invasero la Spagna e nel 429 traghettarono in Africa. Raccontato così, quell’esodo sembra una marcia trionfale. Invece fu una continua fuga da nemici mutevoli ma invariabilmente più forti di loro: dall’Ungheria i Vandali partirono perché incalzati dai Goti; dalle Alpi perché cacciati dai Romani del generale Stilicone (che per beffa del destino 102

era un mezzosangue vandalo); dalla Francia perché battuti dai Franchi; dalla Spagna perché costretti dai Visigoti. Più bruciante di tutte fu la tappa francese, dove quel popolo in fuga perse anche il suo re, Godigisl. Insomma, i “terribili” Vandali furono in realtà per lungo tempo i due di picche del mondo barbaro, sempre perdenti. Un indizio curioso, citato da Schreiber, lo conferma: nel 1921 in Slesia si trovarono monete romane di epoca repubblicana, quando il mondo latino e quello vandalico non avevano rapporti. Secondo lo studioso austriaco, la spiegazione possibile è una sola: «È lecito pensare che i Romani, ai tempi in cui le truppe germaniche che militavano sotto le loro insegne erano ancora scarse, rifilassero loro monete fuori corso».

RADICI VANDALICHE Il sarcofago di Stilicone a Milano. Stilicone (359-408) fu generale e console romano, di padre vandalo.

L’arma segreta anti-Vandali

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ontro i Vandali, i nomadi del Sahara usarono un’arma infallibile: la puzza dei cammelli. Lo racconta lo storico bizantino Procopio in un passo della sua Guerra vandalica, un’opera in due libri, scritta in greco. Durante il regno di Trasamundo (496-523) lo Stato afro-barbarico si scontrò coi Maurusi, nomadi libici che non

volevano assoggettarsi ai nuovi arrivati. Ribelli. Trasamundo mandò una spedizione armata per piegarli, ma il capo mauruso Cabaone fece disporre in circolo dei cammelli e ordinò ai suoi arcieri di aspettare i nemici al riparo degli animali. I cavalieri vandali, dotati di armi a corto raggio e quindi specializzati nel corpo a corpo, andarono alla

carica. Ma “quando si furono portati a distanza abbastanza ridotta per entrare in azione, i cavalli, spaventati dalla vista e dall’odore dei cammelli, si rifiutarono di avanzare ulteriormente. E i Maurusi, ben coperti, scagliarono nugoli di frecce contro i cavalli e i cavalieri vandali, tanto che gli attaccanti furono costretti alla fuga”.

evi all’invasione. Eppure è certo che non tutti gli invasi vedevano nei Vandali un babau come quello descritto dal trio di santi Girolamo-Possidio-Leone. In controtendenza fu per esempio un vescovo francese, Salviano di Marsiglia (ca.400-480), che scrisse testualmente: “Nelle loro preghiere [i Romani, ndr] chiedono l’arrivo dei barbari”. Salvatori. Espresso in un trattato intitolato Il governo di Dio, il punto di vista di Salviano suona così singolare che merita qualche dettaglio in più. In sintesi: il mondo romano è ormai corrotto; in particolare lo sono le città d’Africa, “piene di mostruosi peccati”; quanto ai Vandali, invece, “è lontana da loro qualunque impurità”. Deduzione: “Come Dio giudichi […] lo dimostrano i fatti: loro crescono ogni giorno, noi diminuiamo”. Di qui le preghiere pro-invasori, con l’augurio che tutto vada in malora e che il vento barbarico, duro ma moralizzatore, prevalga. In effetti, una volta stabilitisi in Africa, i Vandali non furono più gli sbandati erranti dei decenni precedenti, ma crearono uno Stato autoritario e relativamente efficiente. Ridussero le tasse, inventarono un nuovo calendario, crearono una rete di notai incaricati di gestire l’apparato statale, lottarono contro la prostituzione, assorbirono e applicarono il diritto romano più di quanto facesse negli ultimi

SCALA

Turbolenti. Certo che, dopo essere stati truffati dai pataccari romani, cacciati dagli Unni e incalzati dalle etnie sorelle, gli ingenui mercenari polacchi si fecero tutt’altra fama: «Furono senz’altro più turbolenti di altri barbari e fecero molti danni all’impero, con cui non strinsero mai patti», riassume Francovich Onesti. Alcune fonti antiche confermano: il padre della Chiesa san Girolamo (347420) attribuisce a sette popoli barbari, Vandali inclusi, la responsabilità di “vescovi arrestati”, “sacerdoti assassinati” e “chiese distrutte o riciclate in stalle”. I ricordi delle loro violenze sono numerosi soprattutto in Spagna e in Africa. “Gunderico distrusse Siviglia, mettendo mano in modo irriverente sulla basilica di San Vincenzo”, tramanda Isidoro, vescovo spagnolo. Di “città saccheggiate, fattorie rase al suolo, proprietari massacrati o fuggitivi, chiese private dei vescovi” parla anche san Possidio, vescovo in Numidia nel V secolo. E una lettera di san Leone Magno, papa fra il 440 e il 461, accennando a stupri nei conventi africani, commentava: “Le suore furono conciate in modo irriferibile”. Tutto vero? Su Isidoro, che visse due secoli dopo i fatti e quindi riportava notizie di terza mano, si possono nutrire riserve. Ma è difficile mettere in dubbio gli altri racconti, firmati da personaggi co-

NELLA PARTE DEI MACELLAI

LESSING/CONTRASTO

Il martirio di san Nicasio di Reims da parte dei Vandali in una vetrata del ’200 oggi al Louvre di Parigi. Fu un vescovo francese del ’700 a coniare il termine “vandalismo”.

tempi l’impero stesso; inoltre restaurarono le antiche mura di Cartagine, conquistata nel 439 e scelta subito come capitale. Certo il regno vandalo non fu paragonabile, per prestigio e struttura, a quello che avrebbero poi fondato gli Ostrogoti in Italia. Però una sua rude dignità l’aveva, tanto da meritarsi le lodi del solito Salviano, che dopo aver descritto il Nord Africa come “terra del latte e del miele”, abbondante “di ricchezze e di delizie”, aggiunse: “Non sarebbe stato affatto strano se quella gente barbara si fosse data a eccessi, là dove la natura stessa era in un certo senso smodata”. Eppure “nessuno di loro si è rammollito”. Integralisti. Torniamo ora al quesito iniziale: perché i Vandali, che non furono peggiori di altri barbari, sono passati alla Storia come paradigma assoluto di violenza gratuita? I motivi sono almeno due. Uno lo ha spiegato Nicoletta Francovich Onesti: «A differenza degli Ostrogoti, che in Italia favorirono la convivenza fra religioni diverse, i Vandali furono assolutamente integralisti e tentarono di imporre a forza l’arianesimo sul cattolicesimo. Ciò fece sì che gli storiografi coevi, tutti cattolici, mettesse104

ro in rilievo gli aspetti più negativi del loro mondo». Tra le fonti antiche già citate troviamo tre santi (un vescovo, un papa e un padre della Chiesa) più due vescovi non canonizzati. E rileggendo le “imputazioni” contestate ai barbari, notiamo che in stragrande maggioranza non si riferiscono a violenze contro comuni cittadini, ma contro obiettivi cattolici. I Vandali, più che teppisti stile Arancia meccanica, sarebbero stati dunque fanatici simil-khomeinisti impegnati in una spietata guerra di religione, che in Africa vide gli ariani nel ruolo di boia e a Bisanzio in quello di vittime. Probabilmente, però, nella demonizzazione dei Vandali ebbe un ruolo anche un secondo elemento, che chiameremo “fattore C”, ovvero Cartagine. Durante la Terza guerra punica (149-146 a.C.), il romano Catone aveva lanciato il tormentone “Carthago delenda est”. Quel monito a distruggere Cartagine, nemica per eccellenza, era stato messo poi in pratica. Ma lo slogan era rimasto nell’inconscio romano, benché Carthago fosse rinata latina e fedele. L’idea che la città di Annibale fosse ridiventata capitale di un regno ostile resuscitava un incubo.

AISA/ALINARI

Sbarcarono in SARDEGNA nel 456 e vi regnarono fino al 534. Come i Romani, usarono l’isola per esiliarvi i loro NEMICI

LESSING/CONTRASTO

CASTIGABARBARI Sopra, moneta con l’imperatore d’Oriente Giustiniano, che nel 533 piegò i Vandali. Sotto, nel riquadro, guerrieri vandali scolpiti nel Duecento sulla facciata della cattedrale di Reims (Francia). Stanno per uccidere il vescovo locale, Nicasio.

Ammiragli barbarici. Il “fattore C” divenne più assillante quando i Vandali, caso quasi unico tra i barbari, si dotarono di una potente flotta. Ciò avvenne in due fasi. Già nel 422, conquistando Cartagena (in Spagna), i Vandali avevano messo mano su alcune imbarcazioni, usate poi per occupare le Baleari e per traghettare in Africa. Dopo la conquista di Cartagine e la confisca delle navi locali (da pesca, da carico e da guerra) la flotta si decuplicò. E ciò permise ai Vandali di sbarcare in Sicilia, Sardegna e Corsica, creandovi colonie stabili. Così i neo-Cartaginesi presero un ruolo simile a quello che era stato dei Cartaginesi veri: trafficavano via mare, controllavano le rotte, praticavano la guerra di corsa. Finì che il Mediterraneo, ex Mare Nostrum dei Romani, fu ribattezzato Wentilseo (“Mare dei Vandali”). E a ragione, visto che a metà del V secolo i barbari afro-polacchi erano padroni delle acque a ovest della rotta Taranto-Tripoli. Roma bollò quel regno marinaro con epiteti vari, traducibili in un concetto moderno: Stato-canaglia. Ma le

“canaglie” la zittirono saccheggiandola. Per Roma fu quasi il colpo di grazia: infatti 21 anni dopo l’Impero d’Occidente cessava di esistere. Ma a Cartagine la festa durò poco: nel 533 l’imperatore d’Oriente, Giustiniano, mandò in Africa il suo generale Belisario, che sbaragliò i Vandali, liquidò il loro regno e azzerò le chiese ariane. L’ultimo re di Cartagine, Gelimero, fuggì sul Rif marocchino, una zona montuosa fuori mano, oggi feudo dei coltivatori di cannabis. Ma poi, nel 534, vinto dalle ristrettezze si consegnò dietro garanzia di incolumità e morì in esilio. Riesumati. Fine della Vandali-story? No, perché 1.260 anni dopo, mentre in Francia divampava la rivoluzione giacobina, un vescovo di nome Grégoire puntò il dito contro le devastazioni di chiese da parte della folla. E volendo usare toni forti, evocò l’immagine degli antichi barbari signori di Cartagine, così come l’avevano tramandata vescovi e santi. Finì che la rivoluzione fu bollata con un neologismo incomprensibile ai più: vandalisme. Da allora il nome degli ex Wandili è entrato nell’uso con la v minuscola: il “fattore C”, lo spauracchio cartaginese, era diventato il “fattore V”. t Nino Gorio

Guerrieri moralizzatori

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barbari del Nord Africa furono durissimi sia con le prostitute che con quelli che oggi chiamiamo viados. Repulisti. “Hanno estirpato da ogni luogo dell’Africa l’indecenza degli uomini effeminati e aveva-

no anche in orrore la pestilenza delle meretrici”, riferiva Salviano di Marsiglia, vescovo dell’epoca. Ma nel regno neo-cartaginese non si puniva solo il sesso a pagamento: anche vestirsi in abiti poco castigati era reato.

Niente corna. Colpa molto grave era poi l’adulterio. Sotto il suo regno (428-477) Genserico puniva le adultere facendole esporre nude in pubblico. Il successore Unerico introdusse una fantasiosa variante:

le colpevoli, sempre nude, dovevano girare per la città a dorso d’asino, tenendo la coda dell’animale in mano. Dettaglio curioso: oltre alla donna veniva punito con la stessa pena anche il marito cornuto.

ILLUSTRAZIONI DI J. CABRERA

UNNI

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L’ULTIMA A

DALLE STEPPE A sinistra, un soldato romano (a terra) ucciso da un ostrogoto e, a cavallo, un guerriero unno. A destra, una spada cerimoniale del V sec. d.C proveniente dall’Europa dell’Est, probabilmente unna.

metà del V secolo un uomo dominava gran parte del mondo conosciuto. Il suo impero, dai contorni indefiniti, si estendeva a nord fin oltre le steppe russe, a sud al corso del Danubio, a est fino al Mar Caspio e a ovest all’Ungheria. Tempo prima, un contadino gli aveva portato una spada trovata nel proprio campo, e il condottiero l’aveva spacciata per la spada sacra degli Sciti, il cui possesso lo destinava a essere “il signore dell’universo”. E signore dell’universo, Attila, re degli Unni, fu lì lì per esserlo davvero. Spregiudicato. Liberatosi di Bleda, il fratello maggiore con cui avrebbe dovuto condividere il regno ereditato dallo zio Rua, il sovrano si diede subito da fare per estendere la sfera di controllo degli Unni, puntando deciso sulla parte orientale dell’Impero romano. Con una serie di scorrerie e devastazioni lungo il Danubio, costrinse Costantinopoli a versargli un ingente tributo annuo, che ebbe termine solo quando sul trono salì il determinato Marciano. Era il 450. Proprio allora Attila ricevette una lettera della sorella dell’imperatore d’Occidente Valentiniano III, Giusta Grata Onoria, che lo implorava di liberarla dal marito impostole dal fratello, offrendogli in cambio la sua mano e metà dell’impero. Per quel che ne sappiamo, quella di Onoria potrebbe essere una delle tante storielle fantasiose dei cronisti bizantini, che amavano attribuire alle donne la responsabilità di eventi bellici; o forse la principessa intendeva davvero mettere in atto un complotto per esautorare l’imperatore suo fratello: in fin dei conti, il

INTERFOTO/ALINARI

Dopo quella dei CAMPI CATALAUNICI, ottenuta nel 451 contro gli Unni di ATTILA, per Roma non ci furono più grandi successi in BATTAGLIA generalissimo dell’Occidente Flavio Ezio, un tempo amico degli Unni, aveva conferito ad Attila il titolo onorifico di magister militum (in pratica, generale) e allora l’intervento del sovrano delle steppe potrebbe configurarsi come un tentativo di colpo di Stato. Punto debole. La sola cosa certa è che Attila aveva ottimi motivi per rivolgere le sue attenzioni alla pars occidentis. Era di gran lunga il settore più debole e meno unito, ed Ezio, che era dovuto ricorrere proprio agli Unni per molte delle sue campagne militari, non disponeva di truppe sufficienti a fronteggiare un’invasione in massa. La sola possibilità di allestire un’armata consistente era, per il generalissimo, quella di rivolgersi ai Visigoti stanziati in Gallia, quegli stessi Visigoti con cui aveva guerreggiato fino a pochi anni prima e con cui vigeva una precaria alleanza. Non a caso, prima di muoversi Attila inviò una lettera in cui esortava il re visigoto Teodorico a rinunciare ad appoggiare i Romani. Poi richiese ufficialmente la mano di Onoria e la relativa dote, ovvero la metà dell’impero. Ma Valentiniano rispose che la successione poteva avvenire solo in linea maschile. Quindi il re unno colse a pretesto una guerra civile tra i Franchi stanziati lungo il Reno per intervenire a favore di una delle due fazioni in lotta, e nella primavera del 451 mosse verso la Gallia con un esercito che le fonti più iperboliche indicano in 700mila uomini. In realtà non dovevano essere più di 30mila. Abbastanza, comunque, per provocare il diboscamento delle foreste lungo il Reno per costruire le zattere necessarie a passare il fiume. 107

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SCALA

L’esercito ROMANO era per due terzi formato da BARBARI. Che COMBATTEVANO altri barbari

ESERCITO MULTIETNICO Sopra, elmo unno con paraguance ritrovato in Dalmazia. A sinistra, due guerrieri franchi: anche tra le file del re unno erano schierati barbari di diversa origine: Franchi, Gepidi, Sciri, Sàrmati, Ostrogoti...

Così, mentre Ezio si dava da fare per convincere il suo vecchio nemico Teodorico che Attila rappresentava una minaccia tanto per i Visigoti quanto per i Romani, gli Unni, insieme ai contingenti dei popoli loro tributari, devastavano senza pietà l’intera Gallia. Treviri, Magonza, Strasburgo, Cambrai, Worms, Metz, Reims, Arras, Amiens, Parigi sono solo alcune delle città violate dalle orde di Attila. E quasi non c’è santo dell’epoca nella cui agiografia manchi un episodio edificante legato all’invasione unna. Ripiegamento. Il perno della strategia difensiva di Ezio divenne Aurelianum, l’odierna Orléans: lì gli alleati Alani di re Sangibano ebbero il compito di resistere all’assedio degli Unni per dare tempo al generalissimo di radunare le forze. E proprio quando le mura della città stavano per sgretolarsi sotto i colpi degli arieti dei barbari, intorno al 14 giugno del 451, l’esercito imperiale, affiancato dai Visigoti, comparve in lontananza, obbligando Attila a sgomberare il campo. Il re unno ripiegò a est, nella Champagne, fermandosi in un luogo imprecisato tra Châlons-surMarne e Troyes, denominato Campus Mauriacus o Campi Catalaunici, dal nome della popolazione celtica dei Catuvellauni che abitava la regione.

Ammucchiata di popoli. Forse è il 20 giugno quando il sangue inizia a scorrere su quest’“angolo di mondo divenuto arena d’innumerevoli genti”, scrive Giordane, il solo cronista che ci abbia raccontato nei dettagli lo scontro. Uno scontro che fu l’ultimo evento di dimensione epica della storia di Roma, anche se, paradossalmente, di romano ebbe davvero poco. Entrambi gli schieramenti, infatti, erano spiccatamente multietnici. Da una parte Ezio esibiva sulla destra i Visigoti di Teodorico, al centro gli Alani di Sangibano, e a sinistra i suoi, probabilmente in maggior misura barbari piuttosto che Romani. Dall’altra Attila schierava al centro i suoi Unni, a sinistra – quindi di fronte ai Visigoti – gli Ostrogoti dei tre fratelli Valamiro, Teodemiro e Videmiro, e a destra – di fronte a Ezio – i Gepidi di Ardarico. Ma tra le file del re unno c’erano anche Èruli, Rugi, Turingi, Sciri, Sàrmati e Franchi, tanto per citare i popoli più rappresentati. L’esordio. La battaglia venne inaugurata, forse nel corso della notte precedente, da uno scontro tra Gepidi e Franchi Salii, questi ultimi alleati dei Romani e guidati da Meroveo, capostipite della celebre stirpe dei Merovingi. Secondo la nostra fonte, già questo combattimento avrebbe lasciato sul campo 15mila morti. Attila, comunque, si decise ad attaccare solo dopo aver consultato gli aruspici, che gli predissero la vittoria a patto che fosse caduto un importante capo della coalizione avversaria. Al re unno la cosa sta bene: vuole la morte

Il micidiale arco compposito deegli Unni

P

ochi popoli, nella Storia, possono vantare un’abilità pari a quella degli Unni nel tiro con l’arco. I cavalieri di Attila erano in grado di penetrare un’armatura da cento metri di distanza su un cavallo in corsa, e capaci di tirare sia da destra che da sinistra. Un ruolo importante nell’effi-

cacia dei loro tiri lo svolgeva il celebre arco composito, asimmetrico, con un braccio più lungo, e caratterizzato da una composizione mista di legno, tendini d’animale, corno e osso, che permetteva una maggiore flessibilità e quindi una gittata doppia rispetto agli archi normali. Si trattava di uno strumento

che presumeva una lunga lavorazione. Mesi di lavoro. Durante l’inverno, legno e corno venivano uniti con colla d’animale: il freddo, infatti, favoriva l’indurimento. In primavera si aggiungevano tendini d’animale inzuppati di colla, e per altri due mesi si attendeva il perfetto assemblaggio dei

componenti. Infine veniva aggiunto dell’osso sulle punte, per favorirne la potenza; poi qualche guerriero di rango lo faceva ricoprire d’oro. Precisi. Le frecce erano in canna, un materiale più adatto del legno ad assorbire le vibrazioni al momento della scoccata, permettendo un tiro più dritto.

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ALAMY

GIORDANE racconta che il torrente che scorreva giù nella PIANA era gonfio del sangue dei soldati UCCISI. Ma esagerava di Ezio, che probabilmente non ha mai conosciuto personalmente, ma che forse mira a sostituire. Tempo prima gli aveva mandato in regalo il nano personale del fratello Bleda, ma il generalissimo lo aveva rispedito al mittente. Movimenti di truppe. Sono le tre pomeridiane quando il re unno si decide ad agire, mandando i Gepidi a occupare un’altura a ridosso della pianura dove sono schierati gli eserciti. Troppo tardi: Ezio e i Visigoti lo hanno preceduto, ed escono vincitori dallo scontro per la conquista della sommità. Ad Attila non resta che riordinare le truppe in ritirata, arringarle e mandare di nuovo all’attacco Unni e Gepidi, stavolta contro il centro e la sinistra nemica. Ma la cavalleria, su cui Attila basa la sua tattica, non riesce a sfondare, e si scatena un corpo a corpo feroce, che fa dire a Giordane: “Se bisogna credere agli anziani, un ruscello che in quella piana corre via quasi a fior di terra, gonfio, e non di piogge come poteva succedergli, ma del molto sangue dei morenti, si sarebbe trasformato in un torrente”. Ezio risponde mandando Teodorico all’attacco degli Ostrogoti, e anche in quel settore lo scontro è cruento. Talmente cruento che si avvera la predizione fatta ad Attila: ma è Teodorico a morire, forse caduto da cavallo e calpestato dai suoi stessi uomini, oppure trafitto dal giavellotto di un ostrogoto di nome Andage. Ciononostante i Visigoti, condotti dall’erede al trono Torrismondo, riescono a prevalere, e possono così lanciarsi contro il fianco del centro unno, già pressato dagli uomini di Ezio. Al re non resta che ordinare il ripiegamento, che riesce ad attuare grazie anche al sopraggiungere delle tenebre e nonostante l’inseguimento del caparbio Torrismondo, il quale giunge fin sotto la palizzata del campo nemico. Attila sembra scorato: fa addirittura erigere una pila di selle su cui intende gettarsi dopo che vi sia stato appiccato il fuoco, “perché nessuno doveva gloriarsi di averlo ferito, né un padrone di genti poteva cadere in balia di avversari di poco conto”. E attende l’attacco nemico, che però non arriva. Esitazione. Al campo imperiale, infatti, succede qualcosa

che non ha ancora trovato una spiegazione univoca tra gli storici. Il solo dato certo è che Torrismondo decide di tornarsene a casa, a Tolosa, privando Ezio delle truppe necessarie a dare il colpo di grazia all’avversario. Dobbiamo supporre che il nuovo re visigoto, spiccatamente anti-romano, non avesse alcuna intenzione di aiutare Ezio a celebrare un trionfo personale, né di manifestare ulteriore zelo nei suoi doveri di federato dell’impero; d’altra parte, si sa che aveva quattro fratelli in grado di soffiargli la successione, e la sua preoccupazione principale doveva essere quella di assicurarsi il trono del padre. Tuttavia, molti ipotizzano che a Ezio non convenisse cancellare dalla faccia della terra Attila, la cui potenza giustificava, in un certo senso, la carta bianca che l’imperatore gli aveva dato nella gestione degli affari di Stato. In ogni caso, il re unno poté non solo ritirarsi indisturbato alla volta della sua capitale, in un luogo imprecisato dell’Ungheria, ma addirittura tornare l’anno seguente per una rivincita, stavolta direttamente nella penisola italica. E in quest’ultima circostanza Ezio, privo del supporto dei Visigoti, dovrà rimanere a guardare mentre gli Unni devasteranno la Pianura padana. Solo il versamento di un cospicuo tributo da parte di un’ambasceria di cui faceva parte il papa Leone Magno distoglierà Attila dal proseguire la campagna verso Roma. E forse anche la sua superstizione, che gli fece temere la morte in caso di saccheggio della città eterna, com’era accaduto per Alarico solo un trentennio prima. Fine imprevista. I suoi scrupoli risulteranno tuttavia inutili: l’anno successivo il re unno sarebbe morto comunque, vittima dei suoi bagordi, e in capo a due anni i suoi figli sarebbero stati sconfitti da una coalizione di popoli tributari guidata dagli stessi Gepidi che avevano valorosamente combattuto ai Campi Catalaunici. L’impero unno era finito, giusto vent’anni prima di quello romano d’Oct cidente. Andrea Frediani

PRONTI PER LA GUERRA A destra, un cavaliere romano dell’epoca e, di fianco, un elmo romano in ferro del V secolo d.C.

DALL’EST A sinistra, uno yak, bovino asiatico, effigiato su una placca argentea unna.

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INTERFOTO/ALINARI

erché gli Unni riescono ad avere ragione anche di quelli che, sul campo, magari verrebbero vinti a stento, col terrore che ispirano: d’un nero orribile l’aspetto, non faccia, ma, se così si può dire, come una massa informe di carne; non occhi, ma come due buchi. È quel loro terribile sguardo a tradirne la proterva ferocia che li fa incrudelire perfino sui figli, e questo dal primo giorno di vita quando, ai maschi, tagliuzzano le guance perché imparino a sopportare le ferite prima del gusto del latte. Allora invecchiano senza barba, come sono stati giovani senza bellezza, perché le cicatrici lasciate dal ferro sui loro volti vi spengono la prima, avvenente, morbida peluria. Sono piccoli, ben formati, agili poi e adatti quant’altri mai a cavalcare. Larghi di spalle, arco e frecce sotto mano, il loro portamento è fiero, la testa sempre orgogliosamente alta. Ma sotto figura d’uomini vivono in una degradazione di bestie». Giordane (VI secolo)

Gli uominni-ccavalllo

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J. CABRERA

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operti di indumenti di lino o di pelli di quei topi dei boschi cucite insieme, non è che abbiano una veste per quando si trovano a casa e un’altra per quando escono: una volta infilata, questa specie di sudicia tunica deve cadere a brandelli, logora dall’uso, prima che se la tolgano o se la cambino. La testa usano proteggersela con un berretto dagli orli ribattuti, le gambe pelose con pelli di capra. I calzari, ritagliati alla meno peggio, impediscono loro di camminare liberamente: questa la ragione per cui se ne stanno inchiodati su quei cavalli vigorosi quanto sgraziati, e sulle loro groppe, talvolta cavalcandoli alla donnesca, sbrigano ogni faccenda: di giorno e di notte, dal vendere al comperare, dal mangiare al bere e, allungati sul corto collo della loro bestia, al dormire, perfino al sognare. Ed è ancora a cavallo che si consultano circa gli interessi della comunità». Ammiano Marcellino (ca. 330-395)

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IL DECLINO

210 CAUSE

Tante sono le IPOTESI formulate per spiegare la caduta dell’Impero romano. Ma forse neanche di CADUTA si trattò, solo di trasformazione

L’

impero non era ancora nato e già uno storico greco romanizzato, Polibio, si interrogava sul futuro di quella repubblica che si stava estendendo una conquista dopo l’altra: “Due sono i modi in cui ogni tipo di Stato suole perire: un modo è la rovina che viene dall’esterno; l’altro, viceversa, è la crisi interna. Difficile prevedere il primo, determinato dall’interno il secondo”. Sostanzialmente è proprio questo lo schema su cui ancora si discute per capire perché quella straordinaria costruzione che fu la romanità sia crollata. Teorie contrastanti. Un grande storico francese, André Piganiol, nel 1947 scriveva: “La civiltà romana non è morta di una morte naturale. È stata assassinata”. Ma da chi? Dai temibili e truci barbari che l’hanno assalita per secoli fino a sfinirne le capacità di resistenza? O dai nemici interni, dalla burocrazia, dalla corruzione, dall’incapacità di imperatori pavidi e stupidi, dalla crisi economica, dalle rivolte e dalle guerre civili, dalla rivincita della campagna sulla città come ipotizzava Rostovcev nel secolo scorso, dal pacifismo dei cristiani come sosteneva lo storico inglese Gibbon nel Settecento, dal lusso e dall’estensione

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eccessivi come scriveva nello stesso periodo Montesquieu? C’è solo l’imbarazzo della scelta: sommando le tesi degli storici nelle varie epoche si arriva a ben 210 cause della caduta dell’Impero romano, alcune perfino in contraddizione tra loro. Ma è lo stesso concetto di caduta che la moderna storiografia ha rivisto e sostituito col termine più consono di “trasformazione”. Alla crisi politica, sociale ed economica del III secolo, che produsse 22 imperatori in cinquant’anni, a partire da Massimino il Trace nel 235, fecero infatti seguito le brillanti riorganizzazioni di Diocleziano e Costantino, che permisero all’Impero d’Occidente di sopravvivere ancora per quasi due secoli. Quei secoli fatali sono stati definiti in vari modi: “basso impero”, “tarda antichità”, “tardo impero”. In ogni caso, un periodo con caratteristiche sue peculiari, né migliore né peggiore di quelli che l’avevano preceduto: solo differente. Linea di confine. Per convenzione la linea di demarcazione tra l’Antichità e il Medioevo ha una data precisa: il 476, anno in cui un ragazzo dal nome altisonante, Romolo Augusto, fu pacificamente deposto da un capo barbarico (ma al servizio dell’impero).

ESAGERATI Orde di barbari saccheggiano Roma, in un dipinto di Thomas Cole del 1836. È la visione più classica (e inesatta) della fine dell’impero.

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LE TRASFORMAZIONI DELL’IMPERO DAL 235

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Augusta Treverorum

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Bysantium Nicomedia

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Palmyra

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AFRICA

Mare Leptis Magna

Caesarea

Internum Alexandria

Hierosolyma

Dall’Impero d’ OCCIDENTE nacquero i REGNI romano-barbarici, PRECURSORI di molti dei moderni STATI EUROPEI

DECADENZA MORALE

BRIDGEMAN/ALINARI

Gli ozi che avrebbero “rammollito” la società romana, in un dipinto francese del 1847.

Città principali Province in mano a usurpatori Perdite da invasioni (260-271) Impero d’Oriente dal 395 Italia di Odoacre (476-493) Invasioni barbariche (dal 251)

Verrebbe da dire che i veri colpevoli siano stati proprio loro, i barbari. Di certo i barbari c’entrano, in un modo o nell’altro. Lo storico inglese Peter Heather ha evidenziato come la progressiva erosione di territori avesse sottratto all’amministrazione centrale reclute per l’esercito e risorse per pagare le truppe, rendendo lo Stato sempre più indifeso di fronte alle minacce. L’impero, infatti, cominciò ad andare in pezzi dal 378, quando i Goti vinsero i Romani ad Adrianopoli (vedi articolo pagine precedenti) e scorrazzarono per lungo tempo indisturbati in Tracia (tra le attuali Grecia e Turchia): da allora fu un susseguirsi di invasioni, infiltrazioni e scorrerie lungo tutti i confini. Non solo: intere regioni furono sottratte all’autorità centrale da ribellioni a sfondo sociale, come i cosiddetti bagaudi in Gallia (Francia), contadini e derelitti fuggiti dai latifondi e datisi alla macchia, o a sfondo religioso, come i circoncellioni in Africa. Persa l’Africa a opera dei Vandali, persa la Gallia, divisa tra Visigoti, Alani, Burgundi, Franchi e Alemanni, persa la Spagna, oggetto di disputa tra Visigoti e Suebi, perse le regioni danubiane, risucchiate dagli Unni e dai loro popoli satellite, l’amministrazione divenne sempre più rapace nei confronti della popolazione residua (perdendone il sostegno con tassazioni insostenibili) e sempre meno solvente verso l’esercito (col tempo pagato non più in solidi, soldi, ma in natura, ovvero obbligando le già stremate popolazioni locali a fornirgli direttamente vestiario, cibo e perfino alloggio). Il cerchio si chiuse quando i barbari – sempre loro – reclutati nelle armate romane per compensare la carenza di reclute, insoddisfatti della paga, arrivarono a pretendere territori in Italia ed eliminarono il comandante supremo dell’esercito, Flavio Oreste, che si opponeva alle loro pretese, deponendo il di lui figlio e imperatore Romolo Augusto. Il resto, tutto il resto, sembra essere soprattutto frutto di consunzione, quasi fisiologica in una grande civiltà. Cause interne. Nel caso dell’Impero romano, di malfunzionamenti di un sistema logoro, nel quale i contrasti superano le armonie e le sinergie, se ne possono individuare a iosa. Per questo molti storici non trovano possibile che popoli rozzi e ignoranti, disorganizzati e confusionari, abbiano avuto infine ragione di uno Stato ben strutturato e organizzato. Ramsay MacMullen, uno degli storici più attratti dalle “cause interne”, ha incentrato la sua analisi sulla perdita di etica nella gestione della cosa pubblica. Lo studioso americano ha evidenziato la diffusione capillare della corruzione tra la sovrabbondante burocrazia imperiale, e an-

che nell’esercito, a ogni livello, con tangenti, esazioni illecite ed estorsioni pressoché istituzionalizzate, in una sorta di “privatizzazione” dell’impero che ne minò la coesione politica, l’efficienza amministrativa e la solidità finanziaria. “Dalla stesura delle ricevute fiscali in un ufficio municipale alla scelta in Roma dei consoli dell’anno successivo, ogni atto di governo era in vendita”, ha scritto. I governatori, poi, interessati soprattutto al profitto personale, impoverivano le province con la loro rapacità, senza che qualcuno, da Roma, provvedesse più ad arginarne gli eccessi. La venalità insomma, nei suoi vari risvolti, danneggiò ed erose l’impero più di ogni altro fattore. Ne emerge il quadro di una crisi economica progressiva, aggravata dall’inflazione, dalla svalutazione e da una tassazione spropositata, nella quale confluirono tutte le disfunzioni di un sistema sfuggito al controllo degli imperatori, sempre più isolati, e compromesso da spinte centrifughe e particolarismi. Passaggio di testimone. Siamo indubbiamente di fronte a un impero ormai indebolito, e quindi non più in grado di respingere le minacce, tanto esterne, come le infiltrazioni lungo le frontiere, quanto interne, ovvero i generali barbari che si sostituiscono agli imperatori (v. articolo pagine precedenti). Un impero in procinto di morire di vecchiaia, insomma, del quale, in Occidente, altri popoli raccolsero il testimone prima che si spegnesse definitivamente, rivitalizzandolo e ripartendo di nuovo. Certo, costoro hanno impiegato secoli e secoli – almeno tutti quelli dell’Alto Medioevo – per riportare il livello dell’amministrazione, delle arti e della società a una qualità paragonabile a quella dell’Impero romano dell’età aurea. Ma, lungi dall’essere un elemento di rottura con la romanità, ne sono stati i prosecutori, adottando i sistemi di amministrazione civile dei loro predecessori, in parte le loro leggi, e forgiando e definendo, attraverso i cosiddetti regni “romano-barbarici”, molti degli Stati di cui si compone oggi l’Europa. Dunque la portata della fine della civiltà romana va ridimensionata. Nel 476 i barbari pugnalarono l’Impero romano ma, ben lungi dall’ucciderlo, lo resero solo monco. Monco della sua parte occidentale, dove, semplicemente, non si ritenne più necessaria la presenza di un sovrano unico. A Oriente, invece, l’Impero romano durò altri mille anni: solo alla fine del Medioevo, ormai ridotto per estensione ai dintorni di Costantinopoli, ricevette il colpo di grazia t dai Turchi ottomani nel 1453. Andrea Frediani 115

ANNI BUI L’IMPERO SI È ROTTO Un’immagine evocativa della frantumazione dell’Impero romano. Il mosaico (in realtà integro) si trova a Ravenna, sede imperiale dal 402 al 476.

UN MONDO Dopo la CA ADUTA dell’Impero d’Occidente, invasioni, CARESTIE e guerre resero l’Europa una terra DESOLATA A

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LESSING/CONTRASTO

V

aste paludi, fiumi e torrenti senz’argini, brughiere inestricabili, foreste immense frequentate dai lupi, boschi spesso in fiamme interrotti da piccole radure. Pochissimi uomini, raccolti attorno a bicocche di fango o di legno, raramente di pietra. Tutt’intorno, siepi di rovi, qualche orto striminzito e campi incolti, rozzi tratturi percorsi da viandanti e città in rovina separate da grandi spazi vuoti e assediate dalla vegetazione. È il paesaggio dell’Europa dopo il V secolo, un mondo che cercava di riprendere forma. Invasioni, peggioramento del clima e recessione economica avevano trasformato la campagna punteggiata di ville e poderi dell’antichità in una landa desolata. Che fine avevano fatto il millenario Impero romano e le sue città scintillanti? Se li erano spartiti i popoli nomadi del Nord e dell’Est. In meno di due secoli il baricentro dell’Occidente si era spostato. Nel 330 Costantino aveva trasferito la capitale dell’impero a Costantinopoli. Una decisione saggia – l’antica Bisanzio era il crocevia commerciale tra l’Europa e l’Asia – che però declassava Roma a capitale di serie B e l’Italia a periferia dell’impero. Impero che neanche cent’anni dopo (395) fu diviso in due. Fu proprio questa l’epoca in cui la rete di strade e commerci che univa la lontana Britannia all’Egitto e la Grecia alla Spagna cominciò a sgretolarsi. La corte imperiale d’Occidente prese a vagare per il Nord Italia: prima fu nella Milano di sant’Ambrogio poi, per sfuggire ai Visigoti di Alarico, nel 402 si rifugiò tra le paludi di Ravenna, che Onorio, primo sovrano dell’Impero d’Occidente, trasformò in raffinato centro artistico. Proprio qui fu catturato l’ultimo imperatore d’Occidente, Romolo Augustolo. Venne deposto nel 476 dal re barbaro Odoacre, segnando per i posteri l’inizio del Medioevo e la fine del mondo antico. Facce nuove. I futuri padroni d’Europa parlavano lingue incomprensibili (è questo il significato originario di “barbaro”) come quelle germaniche e furono i protagonisti di una delle più grandi migrazioni della Storia, accelerata anche da un abbassamento della temperatura media avvenuto tra il VI e l’VIII seco-

Nell’Alto MEDIOEVO quasi ogni centro urbano aveva la sua città no ai Pirenei, i Goti Occidentali (Visigoti) si presero la Spagna, si convertirono al cristianesimo e respinsero gli Unni pagani, Vandali e Alani si stabilirono in Nordafrica. I popoli germanici fondarono i loro regni nel Nord della Germania e in Danimarca. In Italia si insediarono i Goti Orientali (gli Ostrogoti, convertiti al cristianesimo), seguiti poi dai Longobardi delle regioni danubiane. I primi si impegnaSCALA

lo. Il crollo del limes (il confine presidiato dalle legioni) rese accessibili le temperate terre meridionali e i popoli in fuga dalle gelide steppe vi si riversarono. Costantinopoli seppe resistere grazie alla migliore organizzazione, mentre l’Impero d’Occidente cominciò a perdere i pezzi: già nel 407 i Romani lasciarono la Britannia, che tornò in mano a Scoti e Britanni, poi sopraffatti da Angli e Sàssoni. I Franchi unificarono la Gallia fi-

rono in una ventennale guerra con i Bizantini, che riportò in Italia la peste bubbonica e spopolò la Penisola. I secondi – che nel 569 avevano invaso l’Italia con qualche centinaio di migliaia di individui – fecero di Pavia la loro capitale e furono, tra alterne vicende, i paladini della Chiesa di Roma fino all’arrivo di Carlo Magno (774). Fu questo il primo punto fermo dell’Alto Medioevo. Nel corso della sua lunga durata (due secoli) il Regno longobardo creò le condizioni degli sviluppi successivi. I Longobardi non permisero che si realizzasse l’aspirazione dell’Impero bizantino di ricostituire l’unità dell’antica Roma attorno al Mediterraneo. Senza di loro, forse, oggi saremmo tutti greco-ortodossi. E senza le leggi fissate dal loro re Rotari, basate sulle consuetudini germaniche e intrecciate poi con il diritto romano ed ecclesiastico, non sarebbe nato il diritto medioevale. Recessione. Con i regni barbarici muoveva i primi passi anche l’Europa delle nazioni. Un’Europa con pochi europei, però. Dai 67 milioni di abitanti al massimo dell’espansione romana si era scesi ai 27 dei primi secoli del Medioevo, cioè meno di 3 abitanti per km². In tutta Italia, verso il 700 d.C., si contavano appena 4 milioni di persone. Meno cittadini, meno contribuenti, quindi meno soldi per la finanza pubAL GALOPPO Figurina in oro di un guerriero longobardo. I regni barbarici furono il ponte tra antichità e Medioevo.

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CORBIS

RE CRISTIANO Lotario I, imperatore del Sacro romano impero (IX secolo), in un libro liturgico conservato alla Biblioteca nazionale di Parigi.

morta, in ROVINA blica. E per colmare i buchi di bilancio l’amministrazione centrale (o ciò che ne rimaneva) dovette aumentare sempre più le tasse. Per aggirare il fisco, i piccoli proprietari presero a vendere i loro terreni ai latifondisti, trasformandosi in coloni di terre che prima erano le loro. La campagna, sempre più spopolata, divenne così una distesa a pascolo o incolta, facile preda della foresta che avanzava. La città non se la passava meglio. “Spesso era soltanto lo scheletro di una villa romana invasa dalla natura rurale: quartieri in rovina circondati da campi arati, un muro di cinta restaurato alla meglio”, ha scritto lo storico francese Georges Duby. Molte località, soprattutto quelle costiere, scomparvero del tutto: 13 su 24 nella sola Etruria Meridionale. I centri che sopravvissero si chiusero dentro cinte murarie: come Verona, porta settentrionale della Penisola. Questa attività edilizia coinvolse i templi che non erano stati trasformati in chiese e le grandi architetture romane, smantellate per ricavarne materiale da costruzione e calce. Guerra al bosco. Il Medioevo si inaugurò dunque come un periodo essenzialmente rurale. Ma le braccia per dissodare quei radi appezzamenti scarseggiavano. Con la fine delle conquiste militari e la crisi dei commerci gli schiavi erano infatti diventati merce rara, anche se ve ne furono ancora fino al Mille. L’attività agricola si ridusse a una mera economia di sussistenza: si coltivava giusto per sfamare la famiglia. Poi ci si mise anche il clima da mini-glaciazione, fra il VI e l’VIII secolo: la coltivazione del frumento fu sostituita da quelle di ségale e avena, cereali meno raffinati, ma anche meno delicati. Le rese agricole restarono però scarse. Dove il bosco non si lasciava domare, si cercava almeno di sfruttarlo come “dispensa”, mangiando funghi, radici, erbe e bacche. Fu così che il Medioevo divenne l’età d’oro del sapere erboristico. La selvaggina non era più una rarità esotica e la caccia cessò di essere un passatempo per ricchi. «I diritti di caccia furono per lungo tempo un bene condiviso», spiega il medievista Massimo Montanari, dell’Università di Bologna. «Solo

Verona

Milano Pavia

Ravenna

Genova

DUCATO DI SPOLETO Roma

DUCATO DI BENEVENTO Franchi Longobardi Bizantini Cagliari Slavi Arabi Territori contesi Patrimonio di san Pietro

Palermo

L’EMBRIONE DEL VATICANO L’Italia verso il 750 d.C. Nell’VIII secolo i Longobardi concessero al papa i territori del “Patrimonio di san Pietro”.

dal IX-X secolo sarebbero diventati un privilegio per pochi. Ancora al tempo di Carlo Magno (VIII-IX secolo) le foreste del re erano a disposizione». Persino la vita delle mucche cambiò radicalmente: al tempo di Roma antica i bovini erano utilizzati soprattutto come animali da lavoro e vivevano fino a 1015 anni, adesso diventavano bistecche già verso i 5 anni. Una strada tortuosa. Il contrasto tra l’antichità e il Primo Medioevo è evidente anche nelle strade. Basta confron-

tare i tratti delle vie consolari giunti fino a noi e gli itinerari medioevali per notare la differenza. Le prime avevano soprattutto uno scopo militare ed erano perciò dritte e lastricate. Gli uomini medioevali, invece, camminavano o spingevano i loro carretti trainati da asini e cavalli su strade tortuose di terra battuta, con un tracciato disegnato a seconda delle chiese da visitare e dei mercati da frequentare. Ma su queste strade stava avanzando, molto lentamente, una nuova epoca. t Aldo Carioli

I bisonti nella Pianura Padana

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n Italia, nell’Alto Medioevo, la perdita di potere dell’esercito romano, le invasioni barbariche, lo spopolamento e la crisi dell’economia portarono alla cosiddetta “reazione selvosa” (ritorno a una condizione più vicina a quella naturale). Nel giro di un centinaio d’anni ricomparvero le specie originarie: ontani, pioppi e salici popolarono di nuovo gli acquitrini, e le

querce tornarono elemento dominante nelle zone non paludose. Ritorni. Nei boschi si ricreò l’ambiente adatto a ospitare animali che erano quasi scomparsi, come castori, cinghiali, lontre, bisonti, uri (buoi selvatici) e orsi. Questi animali sopportarono bene l’improvviso abbassamento della temperatura media, inferiore di circa un

grado rispetto a oggi. La situazione cambiò solo verso il 900-1000, quando l’aumento della popolazione e della temperatura fecero tornare il territorio verso condizioni pre-medioevali. Dopo il Mille, abbazie e monasteri accelerarono l’opera di dissodamento e di disboscamento. Così l’agricoltura tornò nelle aree più fertili, come la Pianura Padana. (m. f.)

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ORIGINI

IN FUGA

SCALA

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ochi popoli hanno visto il loro destino segnato dall’altalena climatica come i Vichinghi. Fin dalle loro origini. L’aumento delle temperature che seguì l’ultima Grande glaciazione raggiunse l’apice intorno a 5mila anni fa, dopodiché il clima divenne improvvisamente più instabile, con l’alternarsi di bruschi ritorni del gelo e periodi decisamente più caldi. Tra il 1300 e l’800 a.C. ci fu un repentino e deciso abbassamento delle temperature e nel Nord Europa i ghiacci tornarono velocemente ad avanzare, mettendo in seria difficoltà le popolazioni che nel frattempo vi si erano stabilite. Tra queste c’erano anche i Vichinghi, ovvero i popoli scandinavi. Assediati. Agli inizi del I millennio a.C. fitte foreste di abeti, cresciute in un clima favorevole, si diffusero dall’Asia attraverso le regioni centrali e meridionali della Scandinavia, mentre le terre più settentrionali venivano gradualmente e inesorabilmente occupate dai ghiacci. Ghiaccio e foreste finirono per sottrarre alle popolazioni scandinave terra da coltivare, costringendo quelle genti a migrare verso sud.

DAI GHIACCI EVERETT/CONTRASTO

Il destino dei VICHINGHI fu inesorabilmente legato ai capricci della CALOTTA POLARE: quando arretrò prosperarono, ma quando AVANZÒ...

Fu un periodo durissimo, che probabilmente ispirò la leggenda del Ragnarök, lo scontro finale tra le divinità della luce (e del bene) e quelle dell’oscurità (e del male). Preceduto da un interminabile e rigidissimo inverno che getterà l’umanità nel caos, secondo il mito il conflitto provocherà la distruzione del mondo, che poi però rinascerà dalle proprie ceneri. Isolati. Anche per questo passato climaticamente difficile, fino alla fine dell’VIII secolo d.C. la maggior parte dell’Europa continuò a ignorare l’esistenza di questo popolo organizzato in tribù, con un’agricoltura primitiva ma che vantava una grande abilità nella pesca, e soprattutto nell’arte della navigazione e della guerra. Impegnati a sopravvivere procacciandosi merluzzi, i rudi scandinavi non misero il naso fuori dai confini delle loro terre d’origine (v. cartina nelle altre pagine) fino al 700 circa. Fu allora che nelle regioni più settentrionali dell’Europa gli inverni cominciarono a divenire meno lunghi e rigidi, e le estati più asciutte e calde. Un paio di secoli di clima assai più mite permisero finalmente di coltivare terreni prima gelati e sterili, innescando una veloce cre-

scita demografica. Il che costrinse infine i Vichinghi a lasciare le terre dell’estremo Nord che, limitate da strette insenature e ricoperte di fitte foreste, offrivano pochi spazi utili per l’agricoltura e l’allevamento: per le ormai numerose comunità divenne inevitabile cercare casa altrove. Così, quando l’8 giugno 793 una piccola flotta saccheggiò l’isola inglese di Lindisfarne e ne sterminò la popolazione, l’Europa “civilizzata” fece conoscenza con il lato più bellicoso dei Vichinghi. Nel secolo che seguì, le veloci imbarcazioni degli uomini del Nord (detti per questo anche Normanni) percorsero i mari (Mediterraneo incluso) e risalirono i fiumi (come la Senna, nell’875) seminando il terrore. Vini d’Inghilterra. Già intorno alla metà del IX secolo navigatori come Floki Vilgerdason spinsero le loro imbarcazioni (i drakkar) fino alle isole Fær Øer, in precedenza colonizzate da monaci irlandesi. E verso la fine del I millennio il clima ci mise ancora lo zampino: nuove rotte si liberarono dai ghiacci. Tra il IX e il XIII secolo l’Europa poté godere infatti di un periodo insolitamente caldo, noto come

ROTTE POLARI A sinistra, testa di statua vichinga ritrovata a Vendel (Svezia). Risale al VIIVIII secolo, quando il boom demografico e il ritiro dei ghiacci spinsero i Vichinghi a lasciare la Scandinavia (nella foto grande, dal film Beowulf & Grendel, del 2005).

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In GROENLANDIA al raffreddamento climatico si aggiunse il IX SECOLO

ISOLA DI BAFFIN

SCANDINAVIA

GROENLANDIA

XX SECOLO

XIV SECOLO FÆR ØER

LABRADOR

ISLANDA

SCOZIA INGHILTERRA

TERRANOVA

IRLANDA M. PATERNOSTRO

NORMANDIA

LE ROTTE VICHINGHE Prime spedizioni (VIII-IX secolo) Spedizione di Erik il Rosso (985)

Spedizione di Bjarni Herjolfsson (986) Spedizione di Leif Eriksson (1000) Spedizione di Thorfinn Karlsefni (1005) Corrente (fredda) del Labrador

Optimum climatico del Medioevo, caratterizzato da inverni generalmente miti ed estati calde e non troppo piovose: le temperature medie in Europa e Nord America erano molto probabilmente superiori a quelle odierne, mentre durante la stagione estiva nei mari più settentrionali il ghiaccio si ritirava così a nord che era possibile navigare in relativa sicurezza anche in piena zona polare. In tutto il Nord Europa i secoli a cavallo del passaggio di millennio portarono un clima eccezionalmente benevolo, che garantì con regolarità abbondanti raccolti e permise alla vite da uva di attecchire ben oltre il suo limite attuale: buona parte dell’Inghilterra fin verso la fine del XII secolo produsse grandi quantità di vino di qualità eccelsa, suscitando la feroce invidia dei francesi. Amico Sole. A causare il riscaldamento del clima durante il Medioevo fu in primo luogo il Sole, che aumentò la quantità di calore emessa, fino a raggiungere un massimo tra il 1100 e il 1200. L’energia rilasciata dalla nostra stella varia infatti periodicamente: sono variazioni leggere, che però hanno un gran122

Corrente (calda) del Golfo Terre originarie dei Vichinghi Terre colonizzate dai Vichinghi Limite dei ghiacci perenni

de impatto sul clima della Terra. Grazie al Sole, nel giro di pochi decenni l’agricoltura divenne praticabile anche nel Grande Nord e i navigatori più temerari si spinsero fino ai confini più settentrionali del continente senza rischiare di rimanere bloccati tra i ghiacci: occuparono le Orcadi, le Shetland (Scozia) e infine, nell’874, stabilirono una colonia in Islanda. La supremazia dei popoli scandinavi raggiunse livelli tali che nel 1066, vincendo la battaglia di Hastings, Guglielmo il Conquistatore divenne il primo re d’Inghilterra di stirpe normanna. La Terra verde. A spingere il navigatore normanno Erik il Rosso fino alle remote terre della Groenlandia furono invece i suoi guai con la giustizia: esiliato prima dalla Norvegia e poi anche dall’Islanda a causa di alcuni assassinii, l’irrequieto vichingo decise infine di avventurarsi ai confini occidentali del mondo conosciuto, verso misteriose isole avvistate decenni prima da una nave fuori rotta. Fu così che nel 985 Erik giunse sulle coste meridionali della Groenlandia, dove lo accolsero un clima

VERDE GHIACCIO Le rovine della chiesa eretta a Brattahild (Groenlandia) nel 1300. L’insediamento, fondato nel 986 da Erik il Rosso, era allora in declino.

FREDDO MORTALE Statuetta di Baldur, dio della luce la cui morte provocherà il Ragnarök, la fine del mondo. Il mito ebbe forse origine da una crisi climatica.

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fattore umano: lo SFRUTTAMENTO intensivo del SUOLO

Vinland, la dolce terra d’America ca ci sono e si trovano a L’Anse-aux-Meadows (Terranova). Reperti. Qui, negli Anni ’60, gli archeologi hanno trovato tracce di otto edifici del 1000 circa che potevano ospitare un centinaio di coloni, oltre ai resti di una fornace. Nessuna traccia, invece, di sepolture; il che significherebbe che era solo un avamposto. «Le saghe affermano che Vinland era ricca di tutte quelle risorse che mancavano alla

Groenlandia», racconta il biologo Jared Diamond nel capitolo sui Vichinghi del suo libro Collasso (Mondadori). «Il clima relativamente temperato e una stagione vegetativa più lunga, erba alta e inverni miti permettevano di pascolare il bestiame all’aperto tutto l’anno». (a. c.)

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nche nella terra di Vinland, come in altre regioni del Nord Europa, intorno al Mille cresceva la vite, pianta oggi confinata a regioni più calde, grazie al clima allora mite. Ma che cosa sappiamo di quei coloni a lungo dimenticati? Di Vinland, negli Anni ’50 del secolo scorso, fu “scoperta” persino una mappa, poi rivelatasi un falso realizzato una ventina d’anni prima. Ma le prove dell’arrivo dei Vichinghi in Ameri-

e un paesaggio decisamente diversi da quelli di oggi: temperature miti e fitti boschi, prati in abbondanza e legna da ardere, oltre a spazi sconfinati a disposizione. Una “terra promessa” che Erik ribattezzò Grønland, ovvero “Terra verde”. Una quindicina d’anni dopo il figlio di Erik, Leif Eriksson, raggiunse il Labrador e Terranova, mettendo piede in Nord America quasi 500 anni prima di Colombo. Toccata e fuga. Già nel 986 Bjarni Herjolfsson aveva avvistato una terra di fitti boschi: si trattava del Labrador, cui egli diede il nome di Markland (“Terra delle foreste”). Nelle saghe si legge che era “piatta e ricca di foreste, e declinava dolcemente verso il mare”. Secondo gli storici si trattava in particolare della costa meridionale dell’Isola di Baffin. Ma l’audacia tipica della sua famiglia spinse Leif più lontano, fino all’isola di Terranova, dove fondò un insediamento e dove ebbe modo di venire in contatto con le popolazioni locali, gli indiani Innu. Leif trovò quella terra così fertile e dolce che decise di chiamarla Vinland, cioè “Terra della vite” (v. riquadro a destra). Tuttavia, a causa della grande distanza dalla madrepatria (e degli attriti con le tribù locali) dopo pochi anni quell’avamposto fu abbandonato. Le comunità vichinghe nel Vecchio Mondo, al contrario, proprio fra l’XI e il XII secolo toccarono l’apogeo. In particolare in Groenlandia, ricca di pascoli e bagnata da mari e fiumi assai pescosi, numerosi scavi archeologici hanno dimostrato la presenza, intorno al 1250, di molte fiorenti cittadine e di diverse centinaia di grandi fattorie, mentre in Islanda già intorno al 1100 la popolazione raggiunse le 80mila unità. Un nuovo, brusco e devastante cambiamento climatico era però in agguato.

L’ambiente NATURALE dei Vichinghi aveva due RICCHEZZE: pellicce e la preziosa CERA D’API ULTIMA SPIAGGIA La costa di Terranova dove intorno al Mille approdò la spedizione di Leif Eriksson. Ma la colonia non prese piede.

ASTUTI Sotto, il dio norreno Loki (con le labbra cucite, forse simbolo di doppiezza) era sinonimo di astuzia, una dote cara ai navigatori. Sulla destra, una decorazione a forma di serpente, da una nave vichinga.

Il grande freddo. Nel corso del XIV secolo in tutta Europa le temperature tornarono a precipitare rapidamente: stava iniziando quel lungo periodo di gelo oggi noto agli studiosi come Piccola era glaciale. Il Sole, superato il massimo della sua attività, aveva infatti cominciato a emettere via via sempre meno energia. Inoltre, la graduale ritirata della Corrente del Golfo verso rotte più meridionali fece bruscamente venire meno all’Europa le stagioni più miti. Le colonie più settentrionali dei Vichinghi furono le prime a pagarne le conseguenze: già nella seconda metà del XIII secolo, quando ancora gran parte dell’Europa godeva di inverni miti ed estati calde, i pascoli della Groenlandia si coprirono di neve e di ghiaccio e la rotta sicura tra Islanda e Groenlandia divenne ben presto impraticabile a causa del graduale avanzamento verso sud della calotta polare. Dopo il 1300 solo occasionalmente alcune imbarcazioni osarono sfidare le insidie dell’o-

ceano aperto per portare rifornimenti alla terra che era stata di Erik il Rosso. Deserto bianco. Circa un secolo più tardi, alcuni mercanti tedeschi che si erano fatti largo tra i ghiacci fino alla Groenlandia, riferirono di averla trovata disabitata, con villaggi e fattorie in rovina: il brusco voltafaccia del clima non aveva lasciato scampo alla colonia vichinga, che si era estinta condannata da fame e freddo. Ad accelerare la scomparsa dei Vichinghi dalla Groenlandia contribuì anche l’ostilità, alimentata proprio dal cambiamento climatico, di un popolo proveniente dall’estremo Nord, gli Inuit, costretti a migrare a causa del tremendo gelo che si stava impadronendo delle terre più prossime al Polo. Gli attacchi di queste tribù in fuga si fecero sempre più numerosi mentre i coloni vichinghi, privati dei rifornimenti di ferro necessari per forgiare le loro proverbiali asce e spade, si trovarono impreparati a rispondere all’inaspettata minaccia. Ma, anche fuori dalla Groenlandia, fu tutta la civiltà vichinga a soffrire profondamente quel drastico peggioramento climatico: tempeste sempre più violente e frequenti resero quasi impossibile la navigazione, soprattutto in quei mari da cui erano partiti i Vichinghi, ovvero Mare del Nord, Mar di Norvegia e Nord Atlantico. In pochi decenni quei rudi marinai tornarono a isolarsi tra gli impervi e aridi fiordi della Scandinavia. t Andrea Giuliacci

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RAZZÌE

COME DEMONI URLANTI

A SORPRESA Incursori vichinghi sbarcano sulla costa dell’Inghilterra nell’VIII secolo. La loro imbarcazione era il drakkar, dal profilo stretto e slanciato.

Quando i VICHINGHI, che dominavano i mari, decisero di impadronirsi delle coste, gli inglesi scoprirono la loro FEROCIA

C. COLLINWOOD

C

ome serpenti d’acqua, simili a mostri marini antidiluviani dalle fauci spalancate, i drakkar vichinghi avanzavano tra le onde nere del Mare del Nord. Gli esploratori guardavano a occidente, verso la riva deserta indistinguibile dal mare, quando ancora la luce del mattino non permetteva di vederne le frastagliate spiagge di ghiaia e le piccole falesie. Era l’8 giugno del 793 secondo il calendario giuliano e i monaci dell’isola di Lindisfarne ancora non immaginavano quanto stava per accadere: i presagi che avevano riempito le settimane precedenti si sarebbero avverati proprio quella mattinata. Sulla costa nord-orientale dell’Inghilterra, nelle terre del regno anglosassone di Northumbria, un monastero di confine, perso su un pezzo di terra che diventa isola due volte al giorno con l’alta marea, testimoniava una fede evangelizzatrice che ancora si confrontava con i residui di culture pagane. A Lindisfarne riposavano i resti del santo patrono di quella regione, Cutberto. Ciò ne faceva una meta tra le più importanti del mondo cristiano, sicuramente il luogo più santo nell’Inghilterra dell’VIII secolo. Un monastero e un centro abitato significavano ricchezza in un mondo ancora così poco urbanizzato e “barbarico”. Una ricchezza la cui notorietà aveva evidentemente travalicato le acque che separavano l’isola britannica dalle coste della Norvegia. Si avverano i presagi. Quando dalla scogliera videro ondeggiare le teste di drago intagliate nella quercia sulle prue delle lunghe e sottili navi, ai monaci che vivevano in quelle semplici strutture di pietra grigia dovettero essere subito chiare le ragioni delle terrificanti apparizioni di fulmini a ciel sereno e di draghi volanti che li avevano funestati precedentemente. Urlanti, coperti di semplici cotte di maglia di ferro o di giacche trapuntate, con calzoni che fasciavano le gambe stretti fino alle caviglie, brandendo asce o spade sopra le loro teste, i Vichinghi norvegesi facevano il loro terrificante ingresso sulla scena mondiale come grandi star, inaugurando una lunga stagione di conquista e incursioni. 127

I GUERRIERI provenienti dalla SCANDINAVIA iniziarono in questo modo due secoli di INCURSIONI in Europa Un piccolo numero di uomini, una banda tribale, senza costumi esotici, senza fantomatiche quanto fantastiche corna sugli elmi, non certo un esercito ma risoluti, sicuramente preparati, abituati a un “gioco” che avevano già fatto a casa con i loro vicini. Quel giorno di giugno si erano solo allontanati un po’ di più (parecchio di più!) del solito dai confini usuali delle proprie razzìe. Era infatti prassi normale, come in tutte le culture tradizionali di piccola scala, praticare raid presso i clan vicini, per lo meno verso quelli considerati nemici. Questo tipo di operazione aveva un termine in lingua norrena che ne definiva espressamente l’attitudine: Strandhögg, il combattimento sulla spiaggia. Per Odino. Proprio dalla spiaggia adiacente al monastero di Lindisfarne cominciò lo spietato saccheggio dei guerrieri pagani. Invocando Odino, le lame delle asce vichinghe si abbatterono sui monaci e sui loro servi trucidandoli con una ferocia da invasati. I giovani, gli abili al lavoro, le donne vennero risparmiati e messi in catene, portati sulle navi per diventare schiavi. Il bestiame sgozzato e macellato, gli edifici religiosi saccheggiati. Tutto quello che era prezioso e trasportabile (e tutto era prezioso per quelle società povere, anche un paio di sandali usati o una tunica logora) veniva trascinato sulle navi con meticolosa perizia. Un buon lavoro, lo si sarebbe definito guardandolo con occhi disincantati e cinici. Forse un fenomeno nuovo in quelle dimensioni ma, come abbiamo visto, già sperimentato per secoli nei rapporti intertribali. Tutto quello che non si poteva muovere o che non era ritenuto utile, i preziosi manoscritti per esempio, veniva devastato e dato alle fiamme. Rapidamente si faceva terra bruciata; un deserto di cenere e morte, una sottile striscia di terra lorda di sangue dove solo gli animali saprofagi trovavano ristoro tra i corpi dei monaci nudi e mutilati. Chi ben comincia... La prima razzìa vichinga documentata, quella che segna l’inizio della loro espansione, racchiude in sé già tutte le caratteristiche di quella strategia. Non era comunque la prima volta che i pirati del Nord approdavano sulla costa inglese, accenni a loro incursioni si ritrovano in qualche cronaca, ma mai prima di allora identificati in modo preciso. Dopo Lindisfarne molte altre ne seguirono. La razzìa infatti era il nucleo dell’azione bellica di quegli anni. Come nel mondo preistorico e protostorico, dopo i grandiosi scontri degli imperi classici, il Medioevo tornava agli 128

scontri elementari. Semplici razzìe o forse qualcosa di più, condotte lungo i confini occidentali di un continente, l’Europa, che sotto assedio come un orso si chiudeva infastidita per difendersi al meglio possibile dagli attacchi di un esercito di api. Razzìe insinuanti che correvano dalla periferia fino a zone centrali, dalle regioni di confine mal difese fino alle poche città sopravvissute al crollo dell’Impero romano.

IL CAROLINGIO Fante carolingio dell’VIII secolo, simile a quelli che difesero Parigi dai raid vichinghi. Coperto da una corta cotta di maglia, impugna una grande spada simmetrica a due tagli e uno scudo tondo in legno e pelli conciate rinforzato da un umbone e da ribattini in metallo.

IL VICHINGO A destra, guerriero con cotta di maglia di ferro, spada con elsa cruciforme, scudo di legno leggero, ascia a due mani per il corpo a corpo e casco a cupola con nasale. Aveva anche l’arco (usato sia nella caccia che in battaglia).

ISOLE SHETLAND

LA ROTTA DELLE INCURSIONI

Bergen

NORVEGIA

Prima ondata di incursioni vichinghe

Kaupang

G. ALBERTINI

Seconda ondata

SVEZIA

SCOZIA DANIMARCA

Mare del Nord

Lindisfarne Jarrow

IRLANDA

Hedeby Amburgo

York

Dublino Limerick

GALLES

I N G H I LT E R R A Londra

Cork

Gand Amiens SACRO Parigi Rouen R OMANO Bayeux

IMPERO

Nantes

Orléans

Oceano Atlantico

AQ U I TA N I A Luni Santiago

ASTURIE Toledo

AL-ANDALUS

Siviglia

T

atticamente ben organizzate, le incursioni vichinghe partirono da Norvegia, Svezia e Danimarca già dalla fine dell’VIII secolo e andarono avanti fino all’Anno Mille e oltre per conquistare territori e aprire così nuovi mercati. I Vichinghi riuscirono a espandersi in Islanda e nel Principato di Kiev, dove si insediarono, nelle isole britanniche, in Irlanda, nel nord della Francia e dei Paesi Bassi.

Ruolino di marcia. La prima a essere invasa fu la Northumbria, sulla costa nord-est dell’Inghilterra, con il saccheggio di Lindisfarne, nel 793. Ma già nel IX secolo erano penetrati nel Kent, in Gallia, avevano invaso Siviglia e persino Pisa. I guerrieri del nord (altro nome dei Vichinghi) fecero anche una scorreria a Luni e dilagarono nell’Italia del Sud e in tutto il Mediterraneo.

G. RAVA (2)

Invasioni nordiche

La base formativa del guerriero: il clan alcune qualità morali erano ritenute indispensabili. In famiglia. Come molte società arcaiche anche quella vichinga era basata sui legami familiari, sul nucleo allargato in modo esteso ai cugini di vario grado, anche molto lontani, che condividevano un antenato comune, spesso

mitico. Tutto si basava sul clan, che in antico norreno veniva definito œtt. La fedeltà ai legami di sangue era il cemento per ogni azione militare che imponeva ai membri di un clan di difendersi vicendevolmente e di celebrarne l’onore con coraggio e destrezza ma anche con virtù non propria-

mente definite guerresche come poesia e canto, che servivano a tramandare le esperienze pratiche del passato. Qualità utili erano anche la disonestà e la malizia. Soprattutto, si riteneva importante prendersi gioco del nemico, che andava sbeffeggiato e terrorizzato oltre che vinto. CORBIS

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l segreto del successo delle bande vichinghe stava essenzialmente nella formazione del carattere che il contadino-guerriero scandinavo acquisiva durante gli anni della giovinezza e poi teneva allenato con il lavoro e la guerra. Oltre alle necessarie capacità manuali e fisiche, anche

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La loro principale attività era il SACCHEGGIO, praticato con rapide INCURSIONI mordi e fuggi sferrate a SORPRESA

QUELLO CHE RESTA Sopra, le rovine del monastero di Lindisfarne con in primo piano la stele nota come “Pietra del Domesday vichingo”, il giorno del giudizio.

PREDONI A sinistra, raid norvegese sulle coste irlandesi, più o meno quello che accadde a Lindisfarne l’8 giugno 793, quando i guerrieri del nord attaccarono l’abbazia.

Tra l’VIII e l’XI secolo l’Europa, che dai confini di Roma imperiale si era ormai allargata fino alle terre dei Germani, subì un’ondata di invasioni che si caratterizzarono per l’esasperazione di quella pratica guerresca primaria che è la razzìa. A differenza dei popoli, chiamati barbari dal mondo classico, che tra II e V secolo migrarono verso occidente con famiglie e masserizie per sfuggire ad altre aggressioni e trovare nuove terre, le genti che assaltarono l’Europa cristiana nel cuore dei secoli bui medioevali lo fecero senza intenti politici di dominazione né ricercando terre in cui spostarsi, bensì per pura attività predatoria e motivi sostanzialmente economici. Raider da ogni dove. I razziatori di questi secoli sono noti: i Saraceni da sud, attraverso le rotte del Mediterraneo e lungo le coste italiane, della Francia Meridionale o delle isole; gli Ungari da est correndo a cavallo lungo le pianure alluvionali dei grandi fiumi come il Danubio, il Reno e il Po; i Vichinghi da nord, dalla Norvegia e dalla Danimarca, lambendo le coste settentrionali dell’Europa e infilandosi, attraverso gli estuari oceanici, lungo i fiumi navigabili. Tre secoli di “guerra allo stato puro” per citare il medievalista Aldo Settia, dove l’unico scopo era quello primordiale della rapina o della sopravvivenza, a seconda da dove lo si guardava. Strategicamente parlando tali operazioni erano di natura molto semplice, frutto dell’istinto. Si partiva con poche scorte alimentari prese dalle fattorie, abbastanza per sopravvivere una settimana o poco più. Era essenziale, per quelle economie primitive, non impoverire troppo le riserve di cibo di comunità sempre a rischio di carestia. Più tardi, con l’estensione di queste operazioni a un raggio più lungo, a una prospettiva più complessa dove la visione strategica diventava anche politica e coloniale, comandata e decisa da autorità più alte quali principi o re,

i problemi di rifornimento si attenuarono grazie alle scorte più ampie di quelle organizzazioni protostatali. Ma per le prime razzìe era necessario ottenere un risultato positivo che non mettesse a rischio il rientro stesso dei predoni. A dirigere queste razzìe erano in genere capi minori, potremmo definirli capi tribù o capi clan, semplici signori locali. Erano poco più che autorevoli proprietari terrieri che organizzavano i propri uomini, i parenti prossimi e i lavoratori delle loro terre, e li conducevano oltre il mare, cioè a occidente. In sostanza, si trattava di piccoli imprenditori della razzìa con un briciolo di volontà di autopromuoversi. Le caratteristiche principali dei raid erano soprattutto la velocità dell’azione e la sorpresa: poco altro importava, anche il numero non era determinante. Si è calcolato che fosse molto comune organizzare un raid anche solo con una nave. Eppure, bastava anche un unico drakkar (le tipiche imbarcazioni vichinghe, strette e slanciate) a scatenare il panico nell’intera società stanziale europea, perfino alla corte di Carlomagno o nella sede papale nella lontanissima Roma, proprio come oggi l’azione di un singolo uomo bomba che si fa esplodere in una metropolitana muove giustamente all’orrore l’opinione pubblica mondiale. A macchia d’olio. La strada comunque era aperta. Da quel momento in poi, per tutto il IX secolo fu un ripetersi di incursioni piratesche lungo l’Inghilterra Settentrionale, la Scozia e l’Irlanda, per allargarsi poi al litorale nord-europeo, lungo il corso dell’Elba e della Senna fino alle grandi città francesi: Rouen, Chartres, Tours, Parigi. Ma i Vichinghi dilagarono anche verso il Portogallo, la Spagna Meridionale, il Nord Africa e le coste italiane. Nel nostro Paese è rimasta memoria di un attacco vichingo alla città di Luni, vicino all’odierna La Spezia. La grande stagione delle razzìe tribali cedette il posto a una visione politica più a lungo raggio, in mano ai monarchi danesi o ai grandi feudatari norvegesi. Le dimensioni degli eserciti cambiarono e la durata delle scorrerie divenne più simile a spedizioni militari mosse da impulsi colonizzatori: intere aree venivano occupate e il loro ceto dirigente rimpiazzato. t Giorgio Albertini 131

VINCITORI E VINTI

Mentre l’impero e il mondo PAGANO tramontavano, un nuovo POTERE lentamente si affermava: il CRISTIANESIMO

IL VERO EREDE C



Sopra, il risveglio delle baccanti dopo la frenesia della festa in onore di Dioniso, in un dipinto di Lawrence AlmaTadema (1887). Sotto, la sepoltura dei martiri nelle catacombe cristiane di Roma in un quadro di Jules Lenepveu (1855).

BRIDGEMAN/MONDADORI PORTFOLIO (2)

IDEALI OPPOSTI

hi prega poco va in galera, chi prega tanto fa carriera”. In realtà, nella versione originale, l’adagio usa il verbo “rubare”, non “pregare”. Ma questa versione adattata descrive molto bene il quadro politico-religioso dell’impero dal IV secolo in poi. Infatti i cristiani, che fino a Diocleziano (sul trono dal 284 al 305) erano stati perseguitati o almeno emarginati, a partire dal regno di Costantino (306-337) presero d’assalto le stanze dei bottoni. E “pregare”, cioè essere cristiani, non fu più solo una scelta religiosa, ma una via per scalare posizioni sociali. Chi sale, chi scende. Così, nel giro di pochi decenni, i rapporti di forza tra Stato e Chiesa si ribaltarono: se nel 300 i cristiani non avevano neppure il diritto di esistere, nel 375 un vescovo come sant’Ambrogio governava di fatto l’impero guidando la mano di Giustina, reggente per conto dell’imperatore Valentiniano II, un orfanello di 4 anni. Non solo: nel 390 lo stesso Ambrogio costringeva l’imperatore d’Oriente Teodosio a umiliarsi, facendo penitenza dei suoi peccati. Un caso limite? Mica tanto, perché già da mezzo secolo altri cristiani, meno noti e spesso meno santi di Ambrogio, facevano il bello e il cattivo tempo a corte. Uno dei più loschi fu un eunuco di nome Eusebio: un faccendiere che ai tempi di Costanzo II (337-361) “pregando” molto divenne praepositus sacri cubiculi (alla lettera: “responsabile della sacra camera da letto”), cioè il funzionario statale più vicino

all’imperatore. E in quel ruolo brigò, rubò, creò documenti falsi e ne distrusse altri veri, tutto a vantaggio suo e dei suoi correligionari. Sul fronte opposto, almeno a partire dal 390, chi “pregava poco”, cioè chi era pagano, divenne passibile di conseguenze penali. Lo prova una lettera scritta nel 391 dall’imperatore Teodosio a un prefetto di nome Rufino, dove si raccomandava che chi “ha tentato un’ingiuria alla religione compiuta [...] sia multato nei beni mobili e immobili, poiché si è reso servo della superstizione pagana”. Insomma: in meno di un secolo il mondo si era ribaltato, la Chiesa era diventata Stato e gli ex perseguitati si erano trasformati in persecutori. Ammessi al culto. All’inizio della “rivoluzione cristiana” furono tre “D”: una donna, un decreto e una data. La donna si chiamava Flavia Giulia Elena, era nata forse in Bitinia (nel Nord dell’attuale Turchia) nel 250 circa e aveva origini umili: fonti antiche, fra cui sant’Ambrogio, la definiscono stabularia, che può voler dire “stalliera” o “ostessa”. Per vie non note, a circa 20 anni questa Cenerentola dell’antichità divenne moglie (o concubina) di Costanzo Cloro, militare rampante e futuro imperatore. Elena era cristiana e probabilmente convertì anche il suo uomo. La coppia durò un ventennio circa. Poi Costanzo ripudiò la compagna per convolare a nuove nozze. Intanto però Elena gli aveva dato un figlio: appunto Costantino, che ereditò il trono del padre ma 133

fu sempre molto legato alla madre, subendone l’influenza anche quando lui aveva ormai 40 anni e lei più di 60. Ed eccoci alle altre due “D”, la data (il 313) e il decreto (l’Editto di Milano) che sancirono la libertà di culto in tutto l’Occidente. A firmare la riforma fu Costantino, ma a ispirarla fu l’ex stabularia, che oggi la Chiesa venera come sant’Elena. A prima vista l’editto era un capolavoro di imparzialità teologica: “Daremo ai cristiani e a tutti la libera possibilità di seguire la religione che ciascuno vorrà, perché ogni divinità del cielo possa essere pacifica e ben disposta verso di noi e verso tutti coloro che sono in nostro potere”. In realtà però “libera possibilità di religione” era un eufemismo per non dire che il trisecolare braccio di ferro tra Roma e i cristiani era stato vinto dai secondi, a cui di fatto ora si dava carta bianca perché si prendessero qualche rivincita. Risarciti. E le rivincite arrivarono davvero, anzitutto sotto forma di rilevanti vantaggi economici, che seguirono di pochi anni l’Editto di Milano e altre leggi analoghe, promulgate in Oriente: «Oltre alla restituzione dei beni confiscati alla Chiesa durante le persecuzioni, alle sovvenzioni per ricostruire i

templi distrutti e a varie esenzioni fiscali», spiega Arnaldo Marcone, docente di Storia romana all’Università Roma Tre, «ci furono donazioni, come quella del palazzo del Laterano, e vennero erette basiliche come San Pietro e San Paolo Fuori le Mura». Parallelamente ci furono le rivincite culturali. Infatti negli stessi anni un retore del Nord Africa, Lattanzio, pubblicò due libretti dai titoli molto espliciti (De mortibus persecutorum e De ira Dei) che facevano a pezzi l’immagine di certi imperatori anticristiani del passato: per esempio Nerone, “precursore del diavolo”; o Decio, “animale esecrabile” che dopo la morte restò “nudo e insepolto, pasto per le fiere e per gli avvoltoi, come giusto per un nemico di Dio”; ma soprattutto Diocleziano, “inventore di delitti e organizzatore di mali”. Meno di un decennio prima, pubblicare testi simili sarebbe stato un suicidio. Infatti nel 303 essere cristiano costituiva ancora un reato da condanna a morte. E l’“inventore di delitti” Diocleziano, regista dell’ultima persecuzione, era morto solo 14 mesi prima dell’Editto di Milano. Ora invece Lattanzio si poteva permettere non solo di insultare gli ex im-

NELL’ARENA Cristiani condannati alla morte ad bestias (cioè divorati dalle belve, pena riservata ai traditori dello Stato) in una fantasiosa ricostruzione ottocentesca.

SANT’AMBROGIO arrivò a SFIDARE pubblicamente, nel 383, l’usurpatore MAGNO MASSIMO

peratori, ma anche di trarre dalle loro biografie impietose conclusioni moraleggianti: “Così Dio debellò tutti i suoi persecutori perché di loro non rimanesse né stirpe né radice”. Vendetta. Presa alla lettera, la frase di Lattanzio si riferiva al passato. Ma nel clima “sensibile” dell’epoca suonava anche come indicazione per il futuro: dei “nemici di Dio” non doveva restare “né stirpe né radice”. E ci fu chi eseguì il consiglio. Uno dei primi fu Costanzo II, figlio di Costantino, cristianissimo sia pure in versione ariana, che alla morte del padre fece uccidere 9 parenti e vari funzionari di fede non saldissima, con l’effetto collaterale di garantire il potere a sé e ai suoi due fratelli, cristiani “niceni” (oggi diremmo cattolici). Precisazione dovuta: che a ordinare le stragi del 337 sia stato Costanzo II in persona, lo tramanda una fonte non imparziale, il pagano bizantino Zosimo, autore di una Storia nuova redatta 150 anni dopo i fatti. Altri scritti d’epoca attribuiscono all’imperatore solo responsabilità passive (lasciò fare gli assassini e non li punì) o dividono la colpa del sangue fra tutti e tre gli eredi. Di questo avviso era an-

che Giuliano l’Apostata, nipote di Costantino e futuro imperatore, che anni dopo commentò: “Si divisero i beni dei miei avi a fil di spada”. Stragi africane. L’epicentro delle violenze cristiane del IV secolo, comunque, non fu Roma e neppure Costantinopoli, ma Alessandria d’Egitto, teatro di ripetuti e sanguinosi confronti armati a sfondo religioso, culminati nel 391 nella strage del Serapeo, un importante tempio con biblioteca dedicato a Serapide, barbuto dio greco-egizio. Lì una folla di cristiani inferociti, guidati da un patriarca di nome Teofilo, massacrò un numero imprecisato di pagani, che si erano asserragliati nell’edificio per opporsi a un piano imperiale di demolizione. Altra precisazione dovuta: la dinamica dei fatti del Serapeo non è sicura. Secondo Salminio Sozomeno, storico palestinese cristiano del V secolo, la strage fu provocata dall’uccisione di alcuni cristiani, ostaggi degli avversari. Ma uno scrittore più vicino all’epoca del massacro, Eunapio, pagano, autore di una Storia universale, afferma che l’attacco scattò “senza ragione plausibile, senza il minimo rumore di guerra” e aggiunge che i resti degli “ostaggi” uccisi, che i cristia-

Le leggi antipagani firmate Teodosio DIPLOMATICO Ambrogio, vescovo di Milano, perdona all’imperatore d’Oriente Teodosio i suoi peccati, in un quadro del ’700.

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BRIDGEMAN/MONDADORI PORTFOLIO

V

ietato fare sacrifici agli dèi. Vietato entrare nei templi o anche solo avvicinarvisi. Vietato adorare statue. Così stabiliva il primo dei decreti antipagani che Teodosio promulgò nel 391 (il Nemo se hostiis polluat, emanato a Milano il 24 febbraio). Pena prevista per i contravventori: pagamento immediato di 15 libbre (quasi 5 chili) d’oro. Implacabile. Più duro era il secondo decreto (Illi qui sanctam fidem prodiderint, dell’11 maggio) contro i convertiti che tornavano sui loro passi: per loro erano previsti l’esilio e la privazione dei diritti di eredità. Quanto al terzo decreto (Nulli sacrificandi tribuatur, del 16 giugno) aggiungeva un nuovo, surreale divieto: “Nessuno volga lo sguardo verso i santuari”. Ma il massimo del rigore teodosiano fu raggiunto nel 393, quando un nuovo provvedimento pose fine ai giochi olimpici (che si svolgevano dal 776 a.C., quindi da più di mille anni) classificandoli come pagani e indecenti perché gli atleti gareggiavano nudi.

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Le PERSECUZIONI anticristiane furono in parte amplificate da storici in caccia di MARTIRI

SANTA MAMMA In un dipinto del ’500, l’imperatore Costantino I con la madre, Flavia Giulia Elena, cristiana e poi venerata come santa dalla Chiesa.

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pato come l’Ab urbe condita di Tito Livio sta all’antica Roma. Pochi anni fa, il papa Benedetto XVI l’ha citato come “l’esponente più qualificato della cultura cristiana del suo tempo in contesti molto vasti, dalla teologia all’esegesi, dalla storia all’erudizione”. Jacob Burckhardt (1818-1897), storico e pastore protestante svizzero, lo definì invece “il primo storico interamente disonesto dell’antichità”. Giudizi così difformi non devono stupire, perché in realtà sono meno contraddittori di quanto sembra. Che Eusebio di Cesarea sia stato un gigante della cultura, capace di dare dignità “accademica” a una religione nata fra pescatori analfabeti è incontestabile. Che sia stato “disonesto” è pure vero, ma come lo sono tutti gli intellettuali cortigiani. Infatti l’autore della Storia ecclesiastica visse a stretto contatto con Costantino, con la conseguenza che i suoi scritti tendono spesso all’agiografia. Del terzo Eusebio si è già detto. Va solo aggiunto che non fece una bella fine: morto il suo protettore Costanzo II e salito al trono Giuliano l’Apostata, imperatore neopagano, tutti gli intrighi del praepositus vennero alla luce. Si scoprì che anni prima, falsificando le carte di un processo in cui era giudice, l’eunuco-faccendiere aveva provocato l’ingiusta condanna a morte di un membro del casato imperiale, Costanzo Gallo. Così Eusebio fu giudicato e giustiziato a sua volta, nel 361. Grazie ai suoi molti Eusebi, alla fine del IV secolo il cristianesimo aveva ormai occupato i posti chiave della società, dalla burocrazia alla cultura, fino all’economia. Il breve regno dell’Apostata (361-363) tentò di invertire la Storia, ma invano: poco dopo (379) salì al trono Teodosio I, che sancì il trionfo della nuova fede, prima dichiarandola religione di Stato (Editto di Tessalonica, 380), poi rendendo giorno festivo la domenica (383), infine vietando tutti i riti pagani. Intolleranza crescente. In questo clima di intolleranza il mondo romano entrò nel V secolo, che per l’Impero d’Occidente fu l’ultimo. E all’inizio di quel secolo si registrò uno dei capitoli più atroci della vendetta cristiana: l’assassinio di Ipazia, scienziata e filosofa neoplatonica (quindi pagana) trucidata in un agguato di integralisti nella solita Alessandria. Accadde in una sera del 415, mentre Ipazia rientrava a casa. Socrate Scolastico, storico dell’epoca, cristiano e quindi al di sopra di ogni sospetto, narrò i fatti così: “Dopo averla tirata giù dal carro, la trascinarono fino alla chiesa […] dove la massacrarono e le cavarono gli occhi mentre ancora respirava, poi la spo-

CONQUISTATO Recaredo I, re dei Visigoti e padrone della Spagna dal 586 al 601, ripudia l’eresia ariana abbracciando il cristianesimo del Concilio di Nicea.

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ni venerarono poi come reliquie di martiri, erano in realtà di criminali comuni. Molto più sicura è la fine della vicenda: il Serapeo venne distrutto e al suo posto si costruì una chiesa dedicata a san Giovanni Battista, che fu poi affidata ad anacoreti giunti dal deserto e rimase aperta al culto per circa sei secoli. Eunapio racconta l’epilogo così: “Le statue e le offerte votive furono rubate, solo il pavimento del tempio si salvò perché le pietre erano troppo pesanti”. E poco oltre, impietosamente: “Introdussero in quei luoghi sacri i cosiddetti monaci, uomini nella forma ma porci nel vestire e nel mangiare”. Strategie. Per prendere il potere, comunque, più della spada i cristiani del IV secolo usarono altre armi: il proselitismo, prima vietato e ora dilagante, l’egemonia culturale e gli intrighi di palazzo. I prototipi di questi fedeli “da battistero”, “da biblioteca” e “da corridoio” furono tre personaggi omonimi e coevi: Eusebio di Nicomedia, Eusebio di Cesarea e il già citato praepositus Eusebio. Il primo (morto nel 341) era un vescovo di grande carisma, che resse tre diocesi in Oriente e battezzò molti fedeli di rango, fra cui lo stesso Costantino. Anche Eusebio di Cesarea (265-340) era un vescovo. Ma soprattutto fu il primo storico del cristianesimo, autore di una Storia ecclesiastica che sta al pa-

Il braccio di ferro fra ariani e niceni

O

ltre che dalle lotte fra cristiani e pagani, gli ultimi due secoli dell’Impero romano furono caratterizzati dai ricorrenti scontri, non sempre e solo verbali, fra ariani e “niceni”, cioè cattolici.

Eretici. Gli ariani (così chiamati da Ario, il monaco nordafricano loro iniziatore) sostenevano che nella Trinità il Figlio (Gesù) era stato creato dal Padre, quindi non era dio, ma uomo. Invece i niceni (da Nicea,

oggi Iznik, città turca che nel 325 fu sede del concilio che fissò i dogmi del cristianesimo “ortodosso”) bollavano questa teoria come eretica e sostenevano l’identica natura del Padre e del Figlio.

Rivali. Al di là delle dispute teologiche, a dividere niceni e ariani erano spesso rivalità personali o etniche. Ariano era Costanzo II, successore di Costantino, ma niceni erano i suoi due fratelli, Costantino II e Costante;

ariani erano in genere gli invasori dell’impero (in particolare i Goti), mentre fra i Romani le due correnti furono a lungo testa a testa: Costantino fu il promotore del Concilio di Nicea, ma fu battezzato da un vescovo ariano.

Altre RELIGIONI avrebbero potuto sostituire il paganesimo. Ma il cristianesimo poté contare su un’articolata GERARCHIA gliarono e la fecero a brandelli usando cocci aguzzi”. Mandante dell’omicidio pare fosse Cirillo, vescovo noto perché un anno prima, arrogandosi poteri di polizia che non erano suoi, aveva espulso da Alessandria tutti gli ebrei. Secondo l’astrofisica Margherita Hack (morta nel 2013) «Ipazia rappresentava il simbolo dell’amore per la verità, per la ragione, per la scienza che aveva fatto grande la civiltà ellenica. Con il suo sacrificio cominciò quel lungo periodo os curo in cui il fondamentalismo religioso tentò di soffocare la ragione». Verissimo. Ma con Cirillo iniziò anche un altro fenomeno: la tendenza della Chiesa a sostituire lo Stato per imporre un “ordine pubblico” tutto suo. Epilogo: mezzo secolo dopo Cirillo, l’Impero romano moriva, la Chiesa no. t

MARTIRE PAGANA Ipazia prima di essere uccisa, secondo il pittore inglese Charles Mitchell (1885).

Nino Gorio

MANUALE PER TEOLOGI

TOP FOTO/ALINARI

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L’epistola di Eusebio di Cesarea nella quale si analizzano i Vangeli, in un manoscritto armeno del XIII secolo.

I parabolani, le “ronde” dei vescovi

I

n alcune diocesi, dal IV al VI secolo, la Chiesa poteva contare su una sorta di “ronda” privata, il corpo dei parabolani, monaci riconosciuti dallo Stato (5-600 ad Alessandria, 9501100 a Costantinopoli) utilizzati sia per la protezione civile, sia

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per mantenere l’ordine pubblico, sia per spedizioni punitive. Monatti. L’origine del corpo sembra da collegare a un’epidemia di peste scoppiata in Egitto, durante la quale servivano paramedici e becchini disposti a rischiare la pelle per

curare i malati e seppellire i morti (parábolos in greco significa “colui che rischia la vita”). Squadristi. Quegli infermierikamikaze diventarono poi guardie armate di alcuni vescovi, in particolare degli alessandrini Teofilo (IV-V secolo), Cirillo

e Dioscuro (V secolo), che li impiegarono rispettivamente per l’assalto al Serapeo (391), per l’omicidio di Ipazia e l’aggressione a un prefetto (414-415) e per bastonare vescovi rivali durante il Secondo concilio di Efeso (449).

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EREDITÀ

Le grandi invasioni ci hanno LASCIATO più cose di quante ne hanno DISTRUTTE: dalla lingua al cibo, all’arte

COSTA/LEEMAGE

DEI BARBARI

RMN/ALINARI

“A SCRITTA IN BELL’ITALIANO Un’edizione trecentesca della Divina Commedia di Dante Alighieri (1265-1321): l’italiano (“volgare”) ha appena acquisito dignità letteraria.

INCONTRO DI FORME A sinistra, il Mausoleo di Teodorico, a Ravenna, combina uso romano della pietra e forme barbariche che richiamano le tende circolari dei Goti.

lfonso, guardia d’albergo, spaccò il ricco elmo di Ferdinando, che gridò: tregua!”. Non chiedetevi che senso ha una frase così: immaginate che sia il finale di una fiaba, o di un poemetto cavalleresco. Ponetevi invece un’altra domanda: in che lingua è scritta? Risposta: in ostrogoto, magari corretto con un po’ di longobardo e addolcito dal tempo. Infatti, salvo i monosillabi, tutte (ma proprio tutte) le parole di questa frase arrivano in diretta dalle invasioni barbariche; tanto che se un goto di 1.500 anni fa rivivesse oggi, forse le capirebbe. Contaminazioni. Si fa presto a dire che l’italiano è una lingua neolatina. È vero, ma solo in parte: infatti almeno un quarto dei vocaboli usati abitualmente in Italia sono di origine germanica. Idem in Francia e in Spagna. A portarli furono appunto i barbari: da noi soprattutto gli Ostrogoti, in Spagna i Visigoti (entrambi di origine svedese); in Francia i Burgundi e i Franchi, che non erano affatto “francesi” ma “tedeschi” del Basso Reno. Dunque l’italiano non è solo una lingua neolatina, ma paradossalmente anche neoscandinava. La frase di cui sopra lo dimostra: “guardia” deriva da vardia, “ricco” da reicks, “elmo” da hilms, “gridare” da greitan, “tregua” da triggva, “albergo” da heribergi, “spaccare” da spaken. Le ultime due parole sono genericamente germaniche, le prime cinque gotiche doc, cioè svedesi. Idem i nomi Alfonso e Ferdinando, che significano “Nobile valoroso” e “Coraggioso nell’assicurare la pace”. Se fossimo neolatini e basta, la frase sarebbe suonata diversa: “Tizio, custode d’ospizio, fendette l’opulenta galea di Caio, che clamò: induzie!”. Nessuno capirebbe. Parlata mista. L’eredità più vistosa che ci ha lasciato il periodo delle grandi invasioni (V-IX secolo) è proprio la nostra lingua: essenzialmente un cocktail di latino e ostrogoto, condito con qualche

parola greco-bizantina o ebraica; insomma, uno specchio del quadro etnico che aveva l’Italia di Teodorico (re dal 493 al 526). Certo, l’italiano acquistò dignità letteraria molto più tardi: la prima poesia in “volgare” fu scritta a Palermo da Cielo d’Alcamo nel 1240 circa. Ma il nuovo idioma meticcio cominciò senz’altro a circolare 750 anni prima, quando Latini e Goti divennero un solo popolo. La controprova è semplice: la lingua più simile alla nostra è certamente lo spagnolo, benché sia parlato in un’area a noi non vicinissima. Invece il francese, lingua neolatina di un Paese confinante, ha più differenze. A prima vista il fenomeno è strano. Ma tutto diventa chiaro se si postula che le tre lingue si siano formate all’inizio del VI secolo, quando in Italia e in Spagna dominavano Ostrogoti e Visigoti, tribù sorelle e separate dello stesso popolo, mentre in Francia prevalevano i Franchi, che dei Goti erano solo cugini di quarto grado. Dimmi il tuo nome... Un altro indizio si può trovare con un giochetto. Prendete 10 uomini a caso, fatevi dire i loro nomi e trovatene la provenienza. Risultato inevitabile: 4 nomi deriveranno dal latino, 2-3 avranno origine germanica e almeno altri 2 saranno greci o ebraici. Il campione riflette un fenomeno generale: infatti fra i 300 nomi maschili più diffusi in Italia, 115 sono di origine latina, 78 germanica e 52 greca. Esempi del primo tipo: Marco, Massimo, Paolo. Del secondo: Aldo, Enrico, Federico. Del terzo: Alessandro, Angelo, Giorgio. Insomma, nell’Italia di oggi, 245 nomi su 300 (pari all’82,7% del totale) disegnano ancora la mappa etnica che la Penisola aveva nel VI secolo. Tanto basta per capire quanto la nostra lingua sia figlia dei tempi di Teodorico più che di quelli di Dante. Andate a Romanengo. Si potrebbe obiettare che i nomi germanici non sono necessariamente ostrogoti: senz’altro lo è Gustavo (da Göt-stafr, 141

L’arte barbarica ha svestito e crocifisso Gesù

L’

eredità dei barbari ha influito molto anche sull’iconografia religiosa. Oggi nell’Occidente cristiano l’immagine corrente di Gesù è quella del crocifisso, in cui si sono esercitati tutti i grandi maestri della pittura italiana, da Cimabue in poi. Ma fino al V secolo non era così: l’immagine prevalente era quella del Buon Pastore, presente fra l’altro a Ravenna, nel

Mausoleo di Galla Placidia (a sinistra), del 430 circa. Nessuno si sarebbe azzardato a dipingere un Cristo seminudo sulla croce. Solo uomo. La svolta venne dopo il 493 con gli “eretici” Goti, che per sottolineare la natura umana di Gesù lo raffigurarono in costume adamitico in un mosaico del Battistero degli Ariani a Ravenna (tondo a destra). Il “barbaro”

SENZA DI LORO oggi nessuno si chiamerebbe Aldo o Enrico e lo

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cipi giuridici. Le raccolte di leggi d’epoca barbara furono principalmente due: l’Editto di Teodorico e quello del longobardo Rotari, promulgati rispettivamente verso il 500 e nel 643. Ebbene: per quanto la mentalità corrente consideri Roma la prima se non l’unica culla del diritto, certe idee-guida tuttora vigenti furono fissate allora. Un esempio: l’Editto di Rotari, articolo 144, introdusse il principio della responsabilità civile delle imprese edili in caso di crolli. Influssi arabi. Un capitolo a parte, anzi un’enciclopedia, meriterebbe poi l’eredità di certi invasori del Sud Italia che non vengono mai abbinati ai barbari anche se arrivarono nella stessa fase storica. Ci riferiamo agli Arabi, che sbarcarono in Si-

SINTESI DI STILI Il lucente chiostro del Duomo di Monreale (Pa), splendido esempio d’arte arabonormanna.

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“Difesa dei Goti”); ma gli altri, in teoria, potrebbero essere arrivati con popoli nordici precedenti (Vandali) o successivi (Longobardi). È vero: il nostro giochetto è solo orientativo. Va detto però che gli invasori non furono tutti uguali. Ci fu chi venne, predò e ripartì e chi invece rimase e diventò italiano. I Vandali (come poi gli asiatici Unni) furono protagonisti di un effimero mordi-e-fuggi. Al contrario i Longobardi fecero come gli Ostrogoti: rimasero. Ma, forse perché più grezzi dei “cugini”, stentarono a integrarsi e vissero a lungo in comunità a sé, distinte da quelle degli indigeni latini: i villaggi-ghetto in cui si arroccarono 14 secoli fa sono tuttora facilmente riconoscibili dalla desinenza in -engo. La Lombardia (ex “Longobardia” non a caso) trabocca di esempi: Romanengo, Vidalengo, Ticengo, Offanengo e così via. Ovvio che una convivenza di questo tipo, stile apartheid, influì molto sui toponimi, meno sulla lingua parlata. Dalla legge ai nani. L’eredità dei barbari, però, non è solo linguistica. Il periodo delle grandi invasioni fa tuttora sentire i suoi effetti nei campi più svariati: cibo e abbigliamento, fiabe e diritto, arte e ippica. L’eredità più vistosa è nell’abbigliamento: oggi nessuno andrebbe a una cena di gala in toga; eppure fino all’arrivo dei barbari i pantaloni erano ritenuti un capo da buzzurri transalpini. Dall’Asia gli Àvari portarono invece le staffe, nuova “tecnologia equestre” che l’Europa ignorava. Dal nord, forse al seguito di Goti e Longobardi, arrivarono invece i nanetti (in origine nissen) protagonisti di mille fiabe; prima dei barbari, le favole latine erano popolate solo di animali. Dagli invasori nordici ci derivano anche certi prin-

SCALA (3)

Antèlami (ca. 11501230) fu poi autore di una delle prime crocifissioni, scolpita nel Duomo di Parma (qui sopra). Da allora in poi il crocifisso, più o meno svestito, diventò abituale: uno dei nude-look

più arditi fu quello, oggi conservato a Napoli al Museo di Capodimonte, di Roberto d’Oderisio, del 1330 circa, dove Gesù indossa solo un perizoma trasparente. Tutt’altra storia ebbe l’iconografia religiosa

in Oriente, dove l’influenza barbarica non si sentì: là l’immagine corrente di Gesù non è mai stata quella del crocifisso, ma del pantocrator, un re dall’aria vincente, spesso seduto in trono.

SPAGNOLO non sarebbe più simile all’ ITALIANO del francese cilia nell’827. Solo limitandoci al cibo, a quei nostri vicini d’oltremare dobbiamo i pistacchi, gli spaghetti e in qualche modo anche gli agrumi: questi erano già noti ai Romani, ma fu in epoca araba che nacquero i grandi agrumeti. I pistacchi, invece, furono una novità assoluta: i nuovi venuti presero quegli alberelli in Medio Oriente e li trapiantarono sul versante occidentale dell’Etna; tuttora le uniche piantagioni italiane della specie sono a Bronte (Ct). Un viaggio analogo, ma molto più lungo, fecero gli spaghetti, probabilmente inventati in Cina e poi introdotti in Italia dai musulmani a Palermo. Minor fortuna della pastasciutta ebbe l’arte araba. Che ci fu, ma non è giunta fino a noi perché fu cancellata come una vergogna dagli Angioini nel ’200. Per fortuna, in precedenza, appena dopo la riconquista cristiana della Sicilia (1091), i Normanni avevano “riciclato” molti architetti musulmani per costruire chiese ed edifici civili. Così, quando la furia angioina si scatenò, certe opere arabe sopravvissero sotto mentite spoglie. Due esempi sono la Zisa e la Cuba di Palermo, capolavori di un tipico stile detto appunto arabo-normanno. Disprezzati. E al Nord? Lì gli invasori hanno lasciato tracce artistiche più abbondanti, ma anch’esse “mascherate” come al Sud. Per paradosso, lo stile che chiamiamo gotico non c’entra nulla con i Goti: infatti nacque in Francia quando il popolo di Teodorico era già sparito come tale da 600 anni. E all’inizio non si chiamava neppure così, ma “francigeno”: l’aggettivo “gotico”, ritenuto spregiativo, gli fu appiccicato solo nel Rinascimento. Per un altro paradosso, la vera arte gotica è, almeno in parte, quella che noi chiamiamo bizantina e romanica.

Un buon posto per capire il secondo paradosso è Ravenna. La città conta otto monumenti tutelati dall’Unesco come patrimonio dell’umanità, quasi tutti decorati da famosissimi mosaici “bizantini”. Ebbene: quattro degli otto monumenti-capolavoro (Mausoleo di Teodorico, Battistero degli Ariani, Sant’Apollinare Nuovo e Cappella di Sant’Andrea) furono creati quando Ravenna non era affatto una colonia di Bisanzio, ma la capitale ostrogota. Orientali erano le tecniche usate, ma il messaggio culturale retrostante era nettamente barbaro. Prendete il Mausoleo di Teodorico: è costruito in pietra, come i monumenti classici di Roma, ma il suo design riproduce le tipiche tende circolari dei Goti. Oppure guardate il soffitto del Battistero degli Ariani: utilizza una tecnica bizantina (il mosaico) per rappresentare il battesimo di Cristo come un cristiano-greco non avrebbe mai fatto. Infatti Gesù è completamente nudo, genitali compresi, a sottolineare la sua natura di uomo (non uomo-dio) in linea con i principi dell’eresia ariana, di cui i Goti erano convinti alfieri. Prima dei barbari una simile iconografia religiosa sarebbe stata ritenuta blasfema. Lo sarebbero stati anche i crocefissi seminudi che dai barbari in poi (non prima!) diventarono abituali nelle chiese d’Occidente. Dove, nel periodo che noi impropriamente chiamiamo romanico, lavorarono molti artisti di origine barbara. Tanto che i due più grandi maestri della scultura italiana dell’epoca, autori delle decorazioni del Duomo di Parma e di quello di Modena, si chiamavano Antèlami e Wiligelmo: nomi chiarament te germanici. Nino Gorio 143

LETTURE Laa cadutaa dell’Impeero ro omano. Una Un nuovva storiaa Peter Heather (Garzanti) Nonostante la sua formidabile forza militare ed economica, tra il IV secolo e la fine del V l’Impero romano tracollò e venne occupato da bande di invasori stranieri. Come fu possibile? L’autore tenta di rispondere alla domanda, confutando allo stesso tempo molti luoghi comuni sui barbari.

L’im imp pero e i baarbarri. per Lee grandii mig grazio oni e la nascitta deell’Eurropa Peter Heather (Garzanti) All’inizio del I millennio il Mare nostrum era dominato dalla civiltà romana e il resto d’Europa era popolato da agricoltori legati a piccole entità politiche. Il volume racconta come la nascita di nuove formazioni statuali barbare spezzò l’ordine basato sulla centralità del Mediterraneo.

Teempi barb rbarrici. L’EEuropaa occcid dentaalee trra anttichità den e Me Medi d oevvo vo (3 300-9 900) Stefano Gasparri e Cristina La Rocca (Carocci) L’Alto Medioevo appare oggi lontano dalla vecchia visione di un’epoca “devastata” dai popoli barbari, brutali distruttori di civiltà. Come ci ricorda questo volume, si deve semmai riconoscere l’importanza di quei secoli quale momento in cui emersero nuovi modelli di organizzazione politica.

Go oti e Van ndali. Diecci saaggi di liingu guaa e cu ultura alto tom medieevale med ev e Nicoletta Francovich Onesti (Artemide) Una serie di saggi dedicati alla lingua e alla cultura dei Goti e dei Vandali. La raccolta aiuta a

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di Matteo Liberti

capire i meccanismi di simbiosi attraverso cui, tra antichità e Medioevo, si conformò la convivenza tra le popolazioni germaniche e le genti stanziate sulle sponde del Mediterraneo.

bro racconta l’ascesa militare di nuovi gruppi etnici e religiosi tra la fine dell’Impero romano e le ultime fasi del Medioevo, illustrando il quadro culturale, politico e sociale dell’epoca.

I Ce Celtti e il Med diterraaneo

Laa batta attag gliaa che fermò l’Im mpero pero romaano. La diisffatta di Qu Quiintilio o Varo neellaa selvva di Teuto oburgo o

chito da numerose illustrazioni, cerca di dare risposta a questi interrogativi e getta una luce nuova sulla storia e la cultura di questi fieri nemici di Roma.

Veercin ngettorrig ge Venceslas Kruta (Jaca Book) Agile saggio in cui vengono ripercorse le tappe fondamentali della penetrazione della civiltà celtica nell’area del Mediterraneo: dall’invasione della penisola italica all’insediamento in terra iberica, dall’espansione nei Balcani ai contatti con il mondo ellenistico.

I Ce Celtti in Ittalia ta a Maria Teresa Grassi (Longanesi) Chiamati Galli dagli storici romani, i Celti, oltre a dominare il panorama dell’Europa continentale, si inserirono anche nella storia della penisola italiana. Il volume, rifacendosi alle fonti antiche, ai documenti linguistici e agli scavi archeologici, ricostruisce la storia delle loro imprese nello Stivale.

Peter S. Wells (Il Saggiatore) Racconto della battaglia che, nel 9 d.C., vide le legioni dell’imperatore Augusto soccombere alle tribù germaniche nella foresta di Teutoburgo. La sconfitta costrinse i Romani a frenare ogni desiderio di espansione oltre il Reno, linea di demarcazione tra il mondo latino e quello germanico.

I ba barrbar ari Edward James (Il Mulino) Un saggio sulla storia dei popoli barbari che sfronda i molti luoghi comuni che l’hanno caratterizzata. Emerge un quadro chiaro della loro società e dei rapporti di convivenza con l’Impero romano, nonché il contributo dato alla formazione dell’Europa moderna.

I mi m ti nord dicci

I Ge Gerrmanii. Genesi dii una culltu uraa euro opea

Gianna Chiesa Isnardi (Longanesi) Navigatori eccezionali, abili commercianti e guerrieri spietati, i Vichinghi sconvolsero dall’VIII secolo la storia europea. Salparono dapprima sulle coste britanniche e poi si resero protagonisti di una serie di incursioni in terre ignote e lontane. Il libro è dedicato alle tradizioni di questi predoni del mare e si focalizza sul loro patrimonio mitologico.

Marco Battaglia (Carocci) Con il termine “germani” ci si riferisce a un variegato insieme di etnie accomunate dall’impatto con il mondo romano. Il libro analizza la loro cultura e il loro processo di cristianizzazione, basandosi su fonti archeologiche e ricco di informazioni sui cosiddetti regni romano-barbarici.

Baarbar ari, preedo oni e in inffede deli:: laa guerraa neel Medi Med oevo oevo

I Ga Gallii. I fieeri nemicci dii Roma

Antonio Santosuosso (Carocci) Conducendoci sui campi di battaglia e illustrandoci le principali tattiche guerresche, il li-

Jean-Louis Brunaux (Gremese) Da dove venivano i Galli? Come erano organizzate la loro società e la loro religione? Che lingua parlavano? Il volume, arric-

Giuseppe Zecchini (Laterza) Analisi della conquista romana della Gallia. Il punto focale è la figura di Vercingetorige, giovane condottiero che riuscì a coalizzare gran parte dei popoli gallici in opposizione ai Romani.

Glli in ndoeu urop pei e lee orrig gini dell’’Eu uropaa Francisco Villar (Il Mulino) Il saggio ci fa fare un passo indietro e ci riporta alle origini, cioè alla scoperta degli indoeuropei, le antiche popolazioni d’Europa con le quali, in seguito, i Romani dovettero fare i conti (Celti, Traci, Daci, Germani...). Il libro risponde a numerose domande sulla religione, l’economia, l’organizzazione sociale di queste antiche popolazioni, ma soprattutto si addentra nell’analisi della lingua risalendo così ai rapporti di parentela fra gli idiomi europei.

Laa fin ne del mo mondo antico.. Lee cause dellaa cadu uta deell’Im mpero mpe o ro oman no Santo Mazzarino (Bollati Boringhieri) L’autore ricostruisce la storia della caduta dell’Impero romano analizzando il concetto stesso di decadenza, così come venne intuito già a partire dal II secolo a.C. per arrivare fino ai nostri giorni. In questo percorso delle idee, il libro cerca di individuare i reali motivi che portarono alla caduta di Roma.

Laa cadutaa dell’Imp pero ro omano Giorgio Ravegnani (Il Mulino) Dall’arrivo dei Visigoti nel 376 a quello del generale germani-

CONTRO co Odoacre nel 476, le tappe della penetrazione delle orde barbariche nei territori dell’Impero romano, che si sfalderà progressivamente fino alla caduta segnata dalla deposizione dell’imperatore Romolo Augustolo per mano di un “barbaro”.

Atttilaa e glii Unni. Veeriità e legg gend de Edina Bozoky (Il Mulino) Il volume racconta come, a partire dal V secolo, la figura di Attila – il “flagello di Dio” che guidò il popolo guerriero degli Unni in sanguinose campagne militari in Gallia e in Italia – abbia attraversato le epoche divenendo una vera icona delle invasioni barbariche.

Atttilaa e laa caadutaa dii Roma om Christopher Kelly (Bruno Mondadori) Decenni prima del crollo dell’Impero romano, dalle steppe dell’Asia Centrale un popolo sconosciuto, quello degli Unni, alterò a forza di invasioni e distruzioni ogni equilibrio del mondo antico. Questo appassionante saggio ne ricostruisce la storia focalizzandosi sul loro carismatico capo: Attila.

9 agos ostto 378 8. Il giorno o deei bar barbar ari Alessandro Barbero (Laterza) Resoconto della battaglia che vide opporsi le forze romane e quelle visigote e il cui esito cambiò il corso della Storia, sancendo la fine dell’Antichità e l’inizio del Medioevo. Il conflitto mise infatti in moto una serie di eventi che, un secolo più tardi, avrebbe portato alla caduta dell’Impero romano.

Baarb bar ari.. Imm mm migraati, prrofughi, deeporrtati neell’I ’Im mpero o rom mano Alessandro Barbero (Laterza) Da una parte il prospero mondo romano, dall’altra un insieme di popoli costretti a vivere con risorse insufficienti e intenzionati a entrare nell’impero. Il saggio spiega come si sviluppò il rapporto tra queste due realtà, tra battaglie e compromessi.

Viichinghi. Storiaa, civi v ltà, spiriitualiità deeglli Uomin ni del Nord d Bernard Marillier (L’Età dell’Acquario) La storia dei Vichinghi, gli eccezionali guerrieri provenienti dalle brume gelate della Scandinavia che, a partire dall’VIII secolo, armati di ascia e scudo, invasero la Gran Bretagna e poi gran parte dell’Europa.

I Gruner+Jahr/Mondadori S.p.A. - via Battistotti Sassi, 11/a - 20133 Milano

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L’It Itaaliaa dei barbaari Claudio Azzara (Il Mulino) Sintetica analisi dei secoli “barbarici” dell’Italia (dalla crisi dell’Impero romano nel V secolo all’assoggettamento dei Longobardi da parte dei Franchi di Carlo Magno), segnati dai cosiddetti regni latino-germanici (o romano-barbarici) e meno tenebrosi di quanto si sia a lungo creduto.

Lee in nvasio nv ionii baarb bar aricche Claudio Azzara (Il Mulino) Il racconto, e l’analisi, dell’epoca delle grandi migrazioni, dagli immensi spazi compresi tra Asia ed Europa. Chi erano, e cosa sappiamo, delle popolazioni che, dopo un lungo peregrinare, raggiunsero l’impero, trasformandolo.

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