Lisa Jane Smith - La Setta Dei Vampiri - 01 Il Segreto

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Lisa Jane Smith

La Setta dei Vampiri IL SEGRETO ROMANZO

Newton Compton Editori

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Capitolo 1 Era il primo giorno delle vacanze estive quando Poppy scoprì che stava per morire. Lunedì. Il primo vero giorno di vacanza (il fine settimana non contava). Poppy si svegliò con una magnifica sensazione di leggerezza e pensò: Niente scuola. La luce del sole filtrava attraverso la finestra, colorando i leggeri tendaggi intorno al letto con una sfumatura dorata. Poppy li spinse da parte e saltò giù dal letto. Fece una smorfia di dolore. Ahi. Di nuovo quella fitta allo stomaco. Un dolore tormentoso, come se qualcuno si aprisse la strada a morsi verso la sua schiena. Piegarsi in avanti le dava un po’ di sollievo. No, pensò Poppy. Mi rifiuto di star male durante le vacanze estive. Mi rifiuto. Un po’ di pensiero positivo era quel che ci voleva. Risolutamente, piegata in due, - pensa positivo, idiota! - avanzò lungo il corridoio in direzione della stanza da bagno con le pareti piastrellate color oro e turchese. Sulle prime pensò che avrebbe vomitato, ma poi il dolore si placò con la stessa rapidità con cui si era

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manifestato. Poppy si raddrizzò e guardò con aria trionfante l’arruffata immagine riflessa. «Stammi vicino, piccola, e andrà tutto bene», sussurrò al volto nello specchio, e gli fece l’occhiolino con aria d’intesa. Poi si avvicinò, vedendo i suoi occhi verdi socchiudersi e guardarla con sospetto. Là, sul suo naso, c’erano quattro lentiggini. Quattro e mezzo, a essere del tutto sincera, come lo era sempre Poppy North. Che infantile, che… carina! Poppy fece una linguaccia allo specchio e poi distolse lo sguardo con grande dignità, senza preoccuparsi di pettinare la massa ribelle di riccioli color rame. Conservò un’aria dignitosa finchè non fu in cucina, dove Phillip, il fratello gemello, stava mangiando cereali Special K. Questa volta guardò lui con sospetto. Era già abbastanza spiacevole essere bassa, minuta e avere una testa coperta di riccioli rossi – e somigliare, infatti, ad uno di quegli elfi seduti sui ranuncoli che aveva sempre visto nelle illustrazioni di libri per bambini -, ma avere un gemello alto, biondo come un vichingo e di una bellezza classica… bè, denotava una certa deliberata perfidia nella natura dell’universo, no? «Ciao, Phillip», disse con voce carica di minaccia. Phillip, abituato all’umore instabile della sorella, non si scompose. Per un attimo sollevò lo sguardo dalla pagina dei fumetti del «L.A. Times». Poppy dovette riconoscere che aveva due occhi favolosi: verdi, indagatori, con lunghe ciglia scure. Erano l’unica cosa che i due gemelli avessero in comune. «Ciao», replicò Phillip impassibile, e tornò ai suoi fumetti. Non molti ragazzi che Poppy conosceva leggevano

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il giornale, ma questo era tipico di Phil. L’anno precedente, come Poppy, aveva frequentato il terzo anno presso la El Camino High School e, a differenza di Poppy, aveva ottenuto una sfilza di A, oltre a primeggiare nella squadra di football, nella squadra di hockey e in quella di baseball. Era stato anche rappresentante di classe. Una delle maggiori soddisfazioni nella vita di Poppy era prenderlo in giro. Pensava che fosse troppo perfettino. Rise scioccamente scrollando le spalle, e abbandonò quello sguardo minaccioso. «Dove sono Cliff e mamma?». Cliff Hilgard era da tre anni il loro patrigno, ed era persino più perfettino di Phil. «Cliff è al lavoro, Mamma si sta vestendo. Faresti meglio a mangiare qualcosa prima che si arrabbi». «Certo, certo…». Poppy si avvicinò furtivamente alla credenza. Prese una scatola di Frosted Flakes, ci ficcò dentro una mano e tirò delicatamente fuori un fiocco di cereali. Lo mangiò così com’era, asciutto. Non era poi così male essere come un folletto. Mosse qualche passo di danza verso il frigorifero, agitando a tempo la scatola di cereali. «Sono… una sexy-fatina!», canticchiò, battendo il ritmo con i piedi. «No che non lo sei», ribattè Phil con una calma disarmante. «E perché non ti metti qualcosa addosso?». Davanti alla porta aperta del frigorifero, Poppy abbassò gli occhi per guardarsi. Indossava la maglietta extra large con cui aveva dormito. Le faceva da minivestito. «Questo è qualcosa», osservò tranquillamente, e prese una Diet Coke dal frigo.

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Qualcuno bussò alla porta esterna della cucina. Poppy guardò chi fosse attraverso la zanzariera. «Ciao, James! Entra». James Rasmussen entrò, togliendosi i Ray-Ban avvolgenti. Guardandolo, Poppy provò una fitta la cuore. Non importava che lo vedesse praticamente ogni giorno, da dieci anni a questa parte. Ogni mattina, quando se lo trovava di fronte, sentiva ancora un palpito improvviso nel petto, un misto di tenerezza e dolore. Non era soltanto per la sua affascinante aria da ribelle, che le ricordava vagamente James Dean. Era anche i suoi serici capelli castani, l’espressione attenta e partecipe che aveva sul viso, e per quegli occhi grigi, a volte intensi e a volte pacati. Era il ragazzo più attraente alla El Camino High, ma non era questo che la affascinava. Era qualcosa dentro di lui, qualcosa di misterioso e irresistibile, che lei non riusciva mai a cogliere pienamente. Che le faceva battere forte il cuore e correre un fremito sulla pelle. Phillip reagì diversamente. Appena James entrò, s’irrigidì e lo gelò con un’occhiata. Fra i due ragazzi corse un lampo di reciproca avversione. Poi James accennò un sorriso, come se trovasse divertente la reazione di Phillip. «Ciao». «Ciao», rispose Phil, senza sciogliersi minimamente. Poppy ebbe la netta sensazione che il fratello avrebbe voluto impachettarla e portarla in tutta fretta fuori da quella stanza. Esagerava sempre nel suo ruolo di fratello protettivo quando James era nei paraggi. «Allora, come stanno Jacklyn e Michaela?», aggiunse malignamente. James ci pensò un attimo. «Veramente non lo so». «Non lo sai? Oh, già, tu molli sempre le tue ragazze

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prima delle vacanze estive. Così hai libertà di manovra, giusto?» «Ovvio», rispose blandamente James, e sorrise. Phillip gli lanciò un’occhiata impassibile, carica di astio. Poppy, da parte sua, si sentì sopraffatta dalla gioia. Addio, Jacklyn, addio Michaela. Addio alle lunghe gambe eleganti di Jacklyn e al seno giunonico di Michaela. Sarebbe stata un’estate magnifica. Molta gente pensava che la relazione fra Poppy e James fosse platonica. Ma non era vero, Poppy sapeva da anni che l’avrebbe sposato. Era una delle sue due grandi aspirazioni, l’altra era vedere il mondo. Semplicemente non aveva ancora trovato il tempo per farlo sapere a James. In quel momento lui credeva ancora di essere attratto da ragazze dalle gambe lunghe e affusolate, con unghie da salone di bellezza e scarpe italiane. «È un CD nuovo?», gli chiese per distrarlo da quella sfida di sguardi con il suo futuro cognato. James lo sollevò. «È l’ultima novità ethno-techno». Poppy applaudì. «Ancora cantanti armonici di Tuva – non vedo l’ora di ascoltarlo. Andiamo». Ma proprio allora sua madre entrò in cucina. Era una donna fredda, bionda, perfetta, come un’eroina di Alfred Hitchcock. Normalmente sfoggiava un’espressione di disinvolta efficienza. Uscendo, Poppy andò quasi a sbatterle contro. «Scusa… ‘giorno!». «Aspetta un attimo», disse la madre, afferrandola per la maglietta. «Buongiorno, Phil; buongiorno, James», aggiunse. Phil le restituì il buongiorno e James fece un cenno con il capo, con ironica cortesia.

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«Avete fatto tutti colazione?», chiese, e quando i ragazzi risposero di sì, si voltò verso la figlia. «E tu?», chiese fissandola negli occhi. Poppy agitò la scatola di Frosted Flakes e la madre fece una smorfia. «Perché non ci metti almeno un po’ di latte?» «Preferisco così», rispose Poppy con aria risoluta, ma quando la madre le diede una leggera spinta in direzione del frigo, andò a prendere il cartone di latte a basso contenuto di grassi. «Cosa hai in mente di fare il tuo primo giorno di libertà», le chiese, facendo correre lo sguardo da James a Poppy. «Oh, non saprei». Poppy guardò James. «Ascoltare un po’ di musica, magari fare un salto sulle colline. O in spiaggia?» «Tutto quel che vuoi», disse James. «Abbiamo tutta l’estate». L’estate si allungava davanti a Poppy, calda, dorata e splendida. Odorava di cloro della piscina e di sale marino; le ricordava il calore dell’erba sotto la schiena. Tre interi mesi, pensò. È un’eternità. Tre mesi sono un’eternità. Fu strano che stesse pensando proprio questo quando accadde. «Potremmo andare a dare un’occhiata ai nuovi negozi al Village…», aveva cominciato a dire, quando il dolore la assalì all’improvviso e il respiro le morì in gola. Fu orribile - una fitta profonda, intensa e straziante che la fece piegare in due. Il cartone del latte le scivolò dalle dita e tutto si oscurò intorno a lei.

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Capitolo 2 Poppy!». Poppy sentiva la voce della madre, ma

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non riusciva a vedere nulla. Il pavimento della cucina era una danza confusa di puntini neri. «Poppy, stai bene?». In quel momento la ragazza sentì le mani della madre che l’afferravano per le braccia e la sostenevano con ansia. Il dolore si stava placando e la vista cominciava a snebbiarsi. Appena si tirò su, vide James di fronte a sé. Il volto del ragazzo non tradiva alcuna emozione, ma Poppy lo conosceva abbastanza per notare la preoccupazione nei suoi occhi. Si accorse che James aveva in mano il cartone del latte. Doveva averlo preso al volo quando le era scivolato dalle dita – riflessi eccezionali, pensò distrattamente Poppy. Davvero sorprendenti. Phillip si era alzato in piedi. «Stai bene? Cosa ti è preso?» «Io… non lo so». Poppy si guardò intorno, poi si strinse nelle spalle, imbarazzata. Ora che si sentiva meglio avrebbe preferito che non la fissassero tutti così. L’unico modo per affrontare il dolore era ignorarlo, non pensarci.

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« È solo quello stupido dolore… Credo sia gastrononsochecosa. Sarà qualcosa che ho mangiato». La madre non diede minimamente credito alle sue parole. «Poppy, non è gastroenterite. Hai già avuto un episodio simile – circa un mese fa, giusto? È lo stesso tipo di dolore?». Poppy si agitò, sentendosi a disagio. In realtà il dolore non era mai scomparso del tutto. In qualche modo, nell’eccitazione delle attività di fine anno, era riuscita a non dargli importanza, e ormai si era abituata a conviverci. «Una specie», temporeggiò. «Ma…». Sua madre non ebbe bisogno di sentire altro. Diede a Poppy una piccola stretta e si diresse verso il telefono in cucina. «So che non ami i dottori, ma ho intenzione di chiamare il dottor Franklin. Voglio che ti dia un’occhiata. Non possiamo far finta che non sia successo niente». «Oh, mamma, siamo in vacanza…». La madre coprì la cornetta con la mano. «Poppy, non è negoziabile. Vai a vestirti». Poppy brontolò qualcosa, ma sapeva che era inutile. Fece un cenno a James, che stava fissando un punto imprecisato, assorto nei suoi pensieri. «Ascoltiamo almeno il CD prima che io vada». Il ragazzo guardò il disco come se si fosse scordato della sua esistenza, e posò il cartone del latte. Phillip li seguì nell’ingresso. «Ehi, amico, aspetta qui fuori mentre lei si veste». James si voltò appena. «Non rompere, Phil», disse con la mente rivolta altrove. «Tieni giù le mani da mia sorella, e non fare il furbo».

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Poppy scosse la testa ed entrò nella camera da letto. Come se James ci tenesse a vederla svestita! Magari, pensò ostinatamente, tirando fuori dal cassetto un paio di pantaloncini. Li infilò, sempre scuotendo la testa. James era il suo migliore amico, il migliore amico in assoluto, e lei lo era per lui. Ma non aveva mai mostrato il minimo interesse a metterle le mani addosso. A volte si chiedeva se lui si rendesse conto che era una ragazza. Un giorno glielo farò capire, si disse, e lo chiamò a gran voce. James entrò e le sorrise. Era un sorriso che altre persone vedevano di rado, non ironico o provocatorio, ma un sorrisetto simpatico, leggermente sghembo. «Mi spiace per la faccenda del dottore», disse Poppy. «No. Devi andarci». James la guardò intensamente. «Tua madre ha ragione. È da troppo tempo che va avanti questa storia. Sei dimagrita; ti tiene sveglia la notte…». Poppy lo guardò, allarmata. Non aveva detto a nessuno che di notte il dolore era più intenso, neanche a James. Ma… a volte James sapeva le cose. Come se potesse leggerle nella mente. «Ti conosco, tutto qui», le disse, poi le lanciò un’occhiata maliziosa di traverso, mentre Poppy continuava a fissarlo. Scartò il CD. Poppy si strinse nelle spalle e si lasciò cadere sul letto, guardando il soffitto. «Comunque, vorrei che mamma mi lasciasse godere almeno un giorno di vacanza», disse. Allungò il collo per guardare James con aria meditabonda. «Vorrei avere una madre come la tua. La mia si preoccupa sempre e non fa altro che correggermi».

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«E la mia non si preoccupa affatto di quel che faccio. Cosa è peggio?», ribattè amaramente James. «I tuoi genitori ti hanno permesso di avere un appartamento tutto tuo». «In un edificio di loro proprietà. Perché costa meno che assumere qualcuno che se ne occupi». James scosse la testa, gli occhi fissi sul CD che stava inserendo nel lettore. «Non criticare i tuoi genitori, piccola. Sei più fortunata di quanto immagini». Poppy ci pensò su mentre partiva il CD. A lei e a James piaceva la musica trance – il suono elettronico underground arrivato dall’Europa. James apprezzava la techno beat. Poppy la adorava perché era pura, cruda e autentica, creata da gente che credeva nella musica. Gente che lo faceva per passione, non per denaro. Inoltre, la world music la faceva sentire parte di luoghi sconosciuti. Ne amava la singolarità, l’estraneità. Ora, che ci pensava, forse era anche quel che le piaceva di James. Piegò la testa per guardarlo. Mentre gli originali ritmi dei tamburi del Burundi riempivano l’aria. Conosceva James meglio di chiunque altro, ma c’era sempre qualcosa, qualcosa in lui che non riusciva a penetrare. Qualcosa che nessuno riusciva a raggiungere. Qualcuno la prendeva per arroganza, o freddezza, o indifferenza, ma in realtà non era niente di tutto questo. Era soltanto… singolarità. Era più singolare di qualsiasi studente straniero della scuola. Più volte Poppy aveva creduto di essere quasi vicina a svelare il mistero, ma poi la soluzione le era sempre sfuggita di mano. E più di una volta, soprattutto a notte fonda, mentre ascoltavano mu-

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sica o guardavano l’oceano, aveva sentito che lui stava per dirle qualcosa. E aveva sempre pensato che, se lo avesse fatto, sarebbe stato qualcosa di importante, qualcosa di sbalorditivo e di straordinario, come se un gatto randagio le avesse rivolto la parola. In quel momento lo guardò, il profilo nitidamente scolpito, le onde dei capelli castani che gli ricadevano sulla fronte, e pensò: Ha un’aria triste. «Jamie, va tutto bene, vero? Voglio dire, a casa, o roba del genere?». Era l’unica persona sulla faccia della Terra che aveva il permesso di chiamarlo Jamie. Nemmeno Jacklyn o Michaela ci avevano provato. «Cosa potrebbe non andar bene a casa?», disse con un sorriso che non si rifletteva nei suoi occhi. Poi scosse la testa con noncuranza. «Non ti preoccupare, Poppy. Non è niente di importante – solo un parente che minaccia di farci visita. Un parente indesiderato». Questa volta il sorriso brillò anche nel suo sguardo. «O forse è che sono preoccupato per te», concluse. Poppy stava per dire: «Oh, macchè», e invece si ritrovò a chiedergli, stranamente: «Davvero?». La serietà di Poppy sembrò toccare qualche corda dentro James. Il sorriso scomparve dal volto del ragazzo, e Poppy si accorse che si stavano semplicemente guardando, senza che fra loro ci fosse la solita ironia a proteggerli l’uno dall’altra. Si guardavano fisso negli occhi, e basta. James sembrava indeciso, quasi indifeso. «Poppy…».

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La ragazza deglutì. «Sì?». James aprì la bocca, ma poi si alzò di scatto e andò a regolare gli altoparlanti Tall-boy da 170 watt. Quando si voltò i suoi occhi erano cupi e impenetrabili. «Certo, se tu fossi davvero malata, mi preoccuperei», disse con dolcezza. «A questo servono gli amici, giusto?». Poppy rimase delusa. «Giusto», ripetè malinconicamente, poi gli rivolse un sorriso deciso. «Ma tu non sei malata», le disse. «Hai solo bisogno di una bella cura. Il dottore probabilmente ti darà degli antibiotici o roba del genere… con un grosso ago», aggiunse perfidamente. «Oh, sta’ zitto», disse Poppy. James sapeva che lei aveva il terrore delle iniezioni. Solo il pensiero di un ago che penetrava nella pelle… «Ecco tua madre», disse James, lanciando un’occhiata alla porta socchiusa. Poppy non capiva come potesse aver sentito che si stava avvicinando qualcuno – la musica era al massimo e nel corridoio il pavimento era rivestito di mouquette. Ma un istante dopo la mamma aprì la porta. «Tutto a posto, tesoro», le disse in tono vivace. «Il dottor Franklin ci aspetta. Mi spiace, James, ma devo portar via Poppy». «Non c’è problema. Posso tornare oggi pomeriggio». Poppy capiva quando era con le spalle al muro. Lasciò che la madre la trascinasse fino al garage, fingendo di non vedere James che mimava un’iniezione fatta con un’enorme siringa.

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Un’ora dopo era distesa sul lettino del dottor Franklin, che le tastava l’addome tenendo educatamente lo sguardo rivolto altrove. Il dottore era alto, magro, con i capelli che si andavano ingrigendo e l’aria da medico di campagna. Qualcuno di cui potevi certamente fidarti. «È qui il dolore?» «Sì… ma è come se mi penetrasse la schiena. O forse è lo stiramento di un muscolo o roba del genere…». Le dita continuarono a sondare delicatamente, poi si fermarono. Il dottore cambiò espressione. E per qualche motivo, in quel momento, Poppy capì che non si trattava di un muscolo stirato. Non era lo stomaco in disordine, non era niente di così semplice. E le cose sarebbero cambiate per sempre. Il dottor Franklin si limitò a dire: «Vorrei che tu facessi un esame diagnostico». Parlò in tono gentile e distaccato, ma Poppy sentì ugualmente il panico serpeggiare dentro di sé. Non riusciva a spiegare quel che provava – una sorta di terribile premonizione, come un nero abisso che si spalancava nel terreno davanti a lei. «Perché?», sua madre stava chiedendo al dottore. «Be’». Il dottor Franklin sorrise e si sistemò gli occhiali. Tamburellò due dita sul lettino. «Per restringere il campo delle possibilità. Poppy accusa dolore nella parte superiore dell’addome, dolore che si irradia fino alla schiena e che di notte si fa più acuto. Ultimamente ha perso l’appetito, ed è dimagrita. E la colecisti è palpabile – questo significa che è ingrossata. Ora, questi possono essere sintomi di molte cose, e un’ecografia aiuterà a escluderne qualcuna».

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Poppy si rilassò. Non si ricordava a cosa servisse la colecisti, ma era sicura di non averne bisogno. Niente che coinvolgesse un organo con un nome così stupido poteva essere grave. Il dottore Franklin stava proseguendo, parlando di pancreas e pancreatiti e di fegato palpabile, e la madre di Poppy annuiva come se capisse ogni cosa. Poppy non capiva, ma il panico si era dissolto. Come se quel nero abisso fosse stato accuratamente colmato, senza lasciar traccia della sua esistenza. «Può fare l’ecografia al Children’s Hospital sull’altro lato della strada», stava dicendo il dottore. «Tornate qui appena sarà terminata». La madre di Poppy continuava ad annuire, calma, seria, efficiente. Come Phil. O Cliff. Del genere: “Ok, faremo tutto il necessario”. Poppy si sentiva importante. Nessuno che lei conoscesse era mai stato in ospedale per sottoporsi a un esame diagnostico. La madre le arruffò i capelli mentre uscivano dallo studio del dottor Franklin. «Allora, piccola. Che cosa hai combinato?». Poppy le fece un sorriso birichino. L’ansia l’aveva completamente abbandonata. «Magari dovrò operarmi e mi resterà un’affascinante cicatrice», disse per divertire sua madre. «Speriamo di no», replicò lei, per niente divertita. Il Suzanne G. Monteforte Children’s Hospital era un bell’edificio grigio con linee sinuose ed enormi finestre panoramiche. Passando davanti al negozio di articoli da regalo, Poppy gettò un’occhiata pensierosa alla vetrina. Era chiaramente un negozio per bambini, pieno di Slinky

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multicolori e di peluche che un adulto in visita poteva acquistare all’ultimo minuto. Dal negozio uscì una ragazza. Doveva avere qualche anno più di Poppy, forse diciassette o diciotto. Era carina, perfettamente truccata, e indossava una graziosa bandana che non riusciva a nascondere il fatto che non avesse capelli. Sembrava felice, con le guance tonde e gli orecchini che ciondolavano allegramente sotto la bandana. Ma Poppy provò un moto di compassione. Compassione… e paura. Quella ragazza era malata sul serio. Certo, gli ospedali esistevano proprio per quelli come lei – per gente davvero malata. D’un tratto Poppy desiderò finire in fretta i suoi esami per andarsene da lì. L’ecografia non fu dolorosa, ma vagamente inquietante. Un tecnico spalmò una specie di gel sull’addome di Poppy, poi vi fece scorrere sopra un freddo scanner, inviando impulsi di onde sonore dentro di lei e trasformando in immagini l’interno del suo corpo. Poppy si ritrovò a pensare alla ragazza carina senza capelli. Per distrarsi si concentrò su James. E per chissà quale motivo, le tornò in mente la prima volta che lo aveva visto, il giorno che era arrivato all’asilo. Era un ragazzino pallido e smilzo con grandi occhi grigi, e c’era qualcosa di impercettibilmente strano in lui che spinse i ragazzi più grandi a prenderlo subito di mira. Nel cortile della scuola si coalizzarono contro di lui, come segugi intorno a una volpe – finchè Poppy non si accorse di quel che stava accadendo. Persino a cinque anni Poppy aveva un invidiabile gancio destro. Irruppe nel gruppo, tirando schiaffi in faccia e

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calci negli stinchi finchè i ragazzini più grandi non scapparono di corsa. A quel punto si girò verso James. «Vuoi essere mio amico?». Dopo una breve esitazione, il bambino annuì timidamente. C’era qualcosa di stranamente dolce nel suo sorriso. Ma presto Poppy scoprì che il suo nuovo amico era strano in tante piccole cose. Quando morì la lucertola della classe, lui raccolse il cadavere senza provare repulsione e chiese a Poppy se voleva tenerlo. La maestra rimase inorridita. James sapeva anche dove scovare animali morti. Una volta le mostrò un appezzamento di terreno libero dove varie carcasse di coniglio giacevano in mezzo alle alte sterpaglie. Era veramente pratico di queste cose. Quando crebbe, i ragazzini non lo presero più di mira. Diventò alto quanto loro e sorprendentemente sveglio e robusto, creandosi la reputazione di un tipo tosto e pericoloso. Quando si arrabbiava, nei suoi occhi grigi balenava una luce terrificante. Ma non si arrabbiò mai con Poppy. Rimasero grandi amici anche negli anni seguenti. Quando iniziarono la scuola media, James cominciò a uscire con le ragazze – tutte le ragazze della scuola lo volevano -, ma non rimaneva mai a lungo con nessuna. E non si aprì mai con loro; per le ragazze rimase sempre un tipo poco raccomandabile, reticente e misterioso. Soltanto Poppy conosceva l’altro lato di lui, quello premuroso e vulnerabile. «Ok», disse il tecnico, riportando di colpo Poppy alla realtà. «Ho finito; adesso togliamo via questo gel».

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«Allora cosa si è visto?», chiese Poppy lanciando un’occhiata al monitor. «Oh, te lo dirà il dottore. Il radiologo esaminerà i risultati e li comunicherà al suo studio». Il tono del tecnico era assolutamente neutrale – talmente neutrale che Poppy lo guardò con attenzione. Tornate nella sala d’aspetto del dottor Franklin, Poppy si agitava irrequieta mentre sua madre sfogliava vecchie riviste. Quando l’infermiera disse: «Signora Hilgard», si alzarono entrambe. «Ah… no», aggiunse l’infermiera, turbata. «Signora Hilgard, il dottore vorrebbe parlarle per un minuto – da sola». Mamma e figlia si scambiarono un’occhiata. Poi, lentamente, la madre posò un vecchio numero di “People” e seguì l’infermiera. Poppy sentì il cuore batterle forte. Non in fretta, ma forte. Tum… tum… tum, in mezzo al petto, facendo vibrare tutto il corpo. Comunicandole un senso di vertigine e di irrealtà. Non ci pensare. Non sarà nulla. Leggi una rivista. Ma sembrava che le sue dita non volessero muoversi. Quando riuscì finalmente ad aprire il giornale, gli occhi scorsero rapidamente le parole, senza però comunicarle al cervello. Ma di cosa stanno parlando? Che succede? Sono lì dentro da un’ora… L’attesa si protrasse. Mentre aspettava, Poppy si trovò ad alternare due linee di pensiero. 1)Non c’era niente che non andasse in lei, niente di grave almeno, e sua madre sarebbe uscita dallo studio prendendola in giro perché

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aveva immaginato il peggio. 2)C’era qualcosa di terribile che non andava in lei, e per guarire avrebbe dovuto sottoporsi a cure spaventose. L’abisso chiuso e l’abisso spalancato. Quando era chiuso, tutto sembrava ridicolo, e lei si sentiva in imbarazzo per aver avuto pensieri così melodrammatici. Ma quando si spalancava, aveva la sensazione che la sua vita di prima fosse stata un sogno, e adesso avesse di fronte la dura realtà. Se solo potessi chiamare James, pensò. Alla fine l’infermiera disse: «Poppy? Vieni». Lo studio del dottor Franklin era rivestito di pannelli di legno, e le pareti erano piene di diplomi e certificati. Poppy sedette su una poltrona di pelle e tentò di non scrutare il volto della madre in modo troppo evidente. La mamma era… troppo calma. Una calma che tradiva la tensione. Stava sorridendo, con un sorriso strano, un po’ incerto. Oh, Dio, pensò Poppy. C’è sotto qualcosa. «Dunque, non c’è bisogno di allarmarsi», esordì il dottore, e Poppy si sentì ancora più allarmata. Appoggiò il palmo delle mani sui braccioli della poltrona. «L’ecografia ha evidenziato qualcosa di insolito, e vorrei sottoporti a un altro paio di esami», disse il dottor Franklin con voce calma e controllata, rassicurante. «Per fare uno degli esami il paziente deve restare a digiuno dalla mezzanotte del giorno precedente. Ma tua madre mi ha detto che oggi non hai fatto colazione». Poppy rispose meccanicamente: «Ho mangiato un Frosted Flake».

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«Un Frosted Flake? Penso che possiamo considerarlo come un digiuno. Faremo quegli esami oggi stesso, e penso sia meglio farti ricoverare in ospedale. Gli esami si chiamano TAC e CPRE – due sigle che indicano dei nomi che anche per me è difficile pronunciare». Sorrise. Poppy continuò a fissarlo. «Non c’è niente di cui aver paura», riprese gentilmente. «La TAC è come una radiografia. La CPRE comporta il passaggio di un tubicino attraverso la gola, lo stomaco e all’interno del pancreas. Poi verrà iniettato in questo tubicino un liquido visibile ai raggi X…». La bocca del dottore continuò a muoversi, ma Poppy non sentiva più quel che diceva. Era terrorizzata come non le accadeva da molto tempo. E io che scherzavo sull’affascinante cicatrice, pensò. Non voglio essere ammalata sul serio. Non voglio andare in ospedale, e non voglio che mi infilino un tubo in gola. Guardò la madre con una muta supplica negli occhi. La mamma le prese la mano. «Non è niente di grave, tesoro. Dobbiamo solo tornare a casa e mettere qualcosa in valigia; poi torniamo qui». «Devo andare in ospedale oggi?» «Penso che sarebbe meglio», rispose il dottor Franklin. Poppy strinse forte la mano della mamma. La sua mente vuota registrava solo un sordo ronzio. Quando lasciarono lo studio, sua madre disse: «Grazie, Owen». Poppy non l’aveva mai sentita chiamare il dottore per nome prima d’allora. Ma non le chiese spiegazioni. Non disse una parola, mentre uscivano dall’edificio e salivano in macchina. Sulla strada verso casa, la mamma cominciò a parlare del

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più e del meno in tono sciolto e tranquillo, e Poppy si costrinse a rispondere. Fingendo che tutto fosse normale, quando invece quell’orribile sensazione di nausea infuriava dentro di lei. Solo quando fu nella sua camera e iniziò a sistemare libri gialli e pigiami di cotone dentro una piccola valigia, chiese, quasi con indifferenza: «Allora cosa pensa il dottore di preciso?». La madre non rispose subito. Teneva lo sguardo in basso, sulla valigia. Alla fine disse: «Be’, non è sicuro che ci sia qualcosa che non vada». «Ma cosa pensa? Dovrà pensare qualcosa. Ha parlato del pancreas… Voglio dire, sembrerebbe che qualcosa non vada con il mio pancreas. Pensavo che stesse esaminando la mia colecisti o come si chiama. Non sapevo neanche che il mio pancreas fosse coinvolto in tutto questo…». «Tesoro». La mamma la prese per le spalle, e Poppy si rese conto che si stava agitando un po’ troppo. Fece un profondo respiro. «Voglio soltanto sapere la verità, ok? Voglio solo avere un’idea di quel che sta accadendo. È il mio corpo, e ho il diritto di sapere cosa stanno cercando… non ti pare?». Era stato un discorso coraggioso, ma non esprimeva affatto quel che voleva. Aveva bisogno di essere rassicurata, di sentirsi dire che il dottore Franklin stava cercando qualcosa di banale. Che il peggio che le potesse capitare non sarebbe comunque stato così male. Ma non andò così.

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«Sì, hai diritto di sapere». La madre fece un lungo respiro, poi parlò adagio. «Poppy, il dottor Franklin si è preoccupato per il tuo pancreas fin dall’inizio. A quanto pare, qualcosa che accade nel pancreas può determinare dei cambiamenti in altri organi, come la colecisti o il fegato. Quando il dottor Franklin ha riscontrato questi cambiamenti, ha deciso di verificare le sue ipotesi con un’ecografia». Poppy deglutì. «E ha detto che il risultato dell’ecografia era… insolito. In che senso insolito?» «Poppy, si tratta solo dei primi accertamenti…». Guardò il viso della figlia e sospirò. Proseguì a fatica. «L’ecografia ha rivelato che potrebbe esserci qualcosa nel pancreas. Qualcosa che non dovrebbe esserci. Per questo il dottore Franklin ha richiesto altri esami che ce lo diranno con certezza. Ma…». «Qualcosa che non dovrebbe esserci? Vuoi dire… come un tumore? Come… il cancro?». Strano, fu difficile pronunciare quelle parole. Sua madre annuì una volta sola. «Sì. Come il cancro».

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Capitolo 3 Poppy riusciva a pensare soltanto a quella graziosa ragazza senza capelli. Cancro. «Ma… ma possono trovare un rimedio, vero?», chiese, e persino alle sue orecchie la sua voce sembrò quella di una bambina. «Voglio dire… se è necessario, potrebbero levarmi il pancreas…». «Oh, tesoro, ma certo». La mamma prese Poppy fra le braccia. «Te lo prometto; se c’è qualcosa che non va, faremo tutto il possibile per rimediare. Andrei in capo al mondo purchè tu stia bene. Lo sai. E ora come ora non siamo neanche sicuri che ci sia qualcosa che non va. Il dottor Franklin ha detto che sono molto rari i casi di adolescenti con tumore al pancreas. Molto rari. Quindi non preoccupiamoci prima del tempo». Poppy sentì allentarsi la tensione; l’abisso era di nuovo chiuso. Ma da qualche parte, in fondo al cuore, provava ancora un senso di gelo. «Devo chiamare James». La madre annuì. «Però fai in fretta». Poppy incrociò le dita mentre digitava il numero dell’appartamento di James. Devi esserci, ti prego, devi

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esserci, ripetè. E, una volta tanto, c’era. Rispose laconicamente, ma appena riconobbe la sua voce, chiese: «Cosa c’è che non va?» «Niente… be’, tutto. Forse». Poppy sentì una specie di strana risata delirante. Poi si rese conto che era stata lei. «Cos’è successo?», volle sapere James. «Hai litigato con Cliff?» «No, Cliff è in ufficio. E io sto andando all’ospedale». «Perché?» «Pensano che potrei avere il cancro». Provò un enorme sollievo nel dirlo, una sorta di liberazione emotiva. Rise di nuovo. Silenzio all’altro capo del telefono. «Pronto?» «Sono qui», la rassicurò James. Poi aggiunse: «Vengo subito». «No, è inutile. Fra un minuto devo andare». Si aspettava che le dicesse che sarebbe andato a trovarla in ospedale, ma non lo fece. «James, faresti una cosa per me? Ti va di cercare più informazioni possibili sul cancro del pancreas? Non si sa mai». «Credono che tu abbia questo? Un cancro al pancreas?» «Non ne sono sicuri. Devono farmi degli esami. Spero solo che non debbano usare aghi». Un’altra risata, ma dentro di sé si sentiva crollare.

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«Vedrò cosa riesco a trovare su Internet». La voce di James non tradì alcuna emozione, suonò quasi inespressiva. «Poi me lo dici più tardi… probabilmente potrai telefonarmi all’ospedale». «Già». «Ok, devo andare. Mamma mi sta aspettando». «Abbi cura di te». Poppy riattaccò, con un senso di vuoto. La madre era già nell’ingresso. «Coraggio, Poppy. Andiamo». James rimase seduto, immobile, a fissare il telefono senza vederlo. Lei era spaventata, e lui non era riuscito ad aiutarla. Non era mai stato molto bravo a consolare con frasi di circostanza. Non era nella sua natura, pensò impietosamente. Per donare conforto dovevi avere una visione confortante del mondo. E James aveva visto fin troppe cose del mondo per conservare qualche illusione. Però poteva affrontare la cruda realtà dei fatti. Spinse da parte un mucchio disordinato di oggetti, accese il suo portatile e si collegò a Internet. Qualche minuto dopo stava usando Gopher per cercare informazioni nel servizio CancerNet del National Cancer Institute. Il primo file che trovò era registrato come

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“Cancro del pancreas_paziente”. Gli diede una scorsa sommaria. Materiale sulle funzioni del pancreas, stadi della malattia, terapie. Niente di così raccapricciante. Poi entrò in “Tumore pancreatico_medico”, un file destinato ai dottori. La prima riga di testo lo paralizzò. Il tumore del pancreas esocrino è curabile solo in rari casi. Lesse rapidamente le righe successive. Tasso di sopravvivenza complessiva… metastasi… scarsa risposta a chemioterapia, radioterapia e chirurgia… dolore… Dolore. Poppy era coraggiosa, ma dover sopportare un dolore costante avrebbe distrutto chiunque. Soprattutto quando le prospettive per il futuro erano così deprimenti. Lesse di nuovo la prima parte dell’articolo. Il tasso di sopravvivenza complessiva era inferiore al tre per cento. Se il cancro era già diffuso, meno dell’uno per cento. Dovevano esserci altre informazioni. James riprese la sua ricerca e trovò vari articoli tratti da quotidiani e riviste mediche. Erano anche peggiori del file del National Cancer Institute. La stragrande maggioranza dei pazienti muore, e anche in breve tempo, dicono gli esperti… Il cancro del pancreas è di solito incurabile, fulmineo, sfibrante e doloroso… Se il cancro è diffuso, la sopravvivenza media può variare da tre settimane fino a tre mesi… Da tre settimane a tre mesi.

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James rimase a fissare lo schermo del portatile. Aveva una morsa che gli serrava il petto e la gola, la vista annebbiata. Cercò di dominarsi, ripetendosi che non c’era ancora nulla di certo. Poppy doveva sottoporsi a degli esami; questo non voleva dire che aveva il cancro. Ma quelle parole gli suonarono false. Da qualche tempo si era accorto che qualcosa non andava in Poppy. Qualcosa dentro di lei, era… turbato. Aveva percepito che i ritmi del suo corpo erano leggermente sfasati; era sicuro che non riusciva più a dormire adeguatamente. E il dolore – capiva sempre quando il dolore si manifestava. Ma non si era mai reso conto di quanto fosse grave. Poppy invece lo sa, pensò. Nel profondo dell’animo, lei sa che sta accadendo qualcosa di spaventoso, altrimenti non mi avrebbe chiesto di fare queste ricerche. Ma cosa si aspetta da me, che vada a dirle che morirà nel giro di pochi mesi? E io dovrei restare a guardare con le mani in mano? Stirò leggermente le labbra, scoprendo i denti. Non era un sorriso, piuttosto una smorfia feroce. Aveva visto tante volte la morte in diciassette anni. Ne conosceva le diverse fasi, conosceva la differenza fra l’attimo in cui si ferma il respiro e l’attimo in cui il cervello smette di funzionare, l’inconfondibile pallore spettrale di un cadavere fresco. Il modo in cui i bulbi

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oculari si appiattiscono circa cinque minuti dopo la morte. Era un dettaglio che pochi conoscevano. Cinque minuti dopo essere spirati, gli occhi si appiattiscono e si velano di grigio. Dopo di che il corpo comincia a ritirarsi. Si rimpicciolisce sul serio. Poppy era già così minuta. Aveva sempre avuto paura di farle male. Sembrava così fragile, e lui poteva ferire qualcuno molto più robusto se non stava attento. Quella era una delle ragioni per cui James aveva mantenuto una certa distanza fra loro due. Una ragione. Ma non la principale. L’altra non era neanche in grado di esprimerla a parole, nemmeno e se stesso. Lo portava dritto sull’orlo del proibito. A fronteggiare regole che gli erano state inculcate fin dalla nascita. Nessuno del Popolo delle Tenebre poteva innamorarsi di un umano. Infrangere la legge comportava la condanna a morte. Non aveva importanza. Ora sapeva cosa doveva fare. Dove doveva andare. Pronto e impassibile, James si scollegò da Internet. Si alzò in piedi, prese gli occhiali da sole e li inforcò. Uscì fuori all’impietosa luce del sole di giugno, sbattendo la porta del suo appartamento. Poppy si guardò intorno nella stanza d’ospedale con aria infelice. Non c’era niente di particolarmente

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spiacevole, tranne che era così fredda, ma… era una stanza d’ospedale. Era questa la verità, nascosta dietro le graziose tende rosa e blu, la televisione a circuito chiuso e il menù dei pasti decorato con i personaggi dei cartoni animati. Un posto dove venivi solo se stavi dannatamente male. Oh, andiamo, si disse. Tirati un po’ su. Cosa ne è stato della forza del pensiero “Poppytivo”? Dov’è “Poppyanna” ora che ne ho bisogno? E Mary “Poppyins”? Dio, mi dico battute divertenti da sola, pensò. Ma si scoprì a sorridere debolmente, se non altro con un po’ di umorismo autolesionista. E le infermiere erano simpatiche, e il letto era davvero uno sballo. Di lato aveva un telecomando che lo faceva inclinare in ogni posizione immaginabile. Sua madre entrò nella stanza mentre stava giocando con i pulsanti. «Ho rintracciato Cliff; arriverà più tardi. Nel frattempo, penso che faresti meglio a cambiarti, così sarai pronta per gli esami». Poppy guardò il camice da ospedale di cotone bianco e blu e provò uno spasmo doloroso che la attraversò dallo stomaco alla schiena. E una voce dentro di lei, dal più profondo dell’animo, disse: Ti prego, non ancora. Non mi sentirò mai pronta.

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James fermò la sua Integra in un’area di parcheggio lungo Ferry Street, vicino a Stoneham. Non era una bella zona. I turisti in visita a Los Angeles la evitavano. L’edificio era fatiscente e decrepito. Diversi piani erano vuoti, c’erano cartoni fissati ai vetri rotti delle finestre. Dei graffiti coprivano la superficie scrostata dei muri di cemento. Persino lo smog sembrava addensarsi lì più che altrove. L’aria stessa era giallastra e nauseante. Come un miasma velenoso, rendeva cupa quella splendida giornata e immergeva il mondo in una luce sinistra e irreale. James girò intorno al palazzo, diretto sul retro. Lì, fra gli ingressi per lo scarico merci dei negozi sulla facciata dell’edificio, c’era una porta non segnata da graffiti. Sull’insegna non c’era scritto nulla. Solo l’immagine di un fiore nero. Un iris nero. James bussò. La porta si socchiuse di pochi centimetri, e si affacciò un ragazzino magro con una maglietta stropicciata e due occhi piccoli e luccicanti. «Sono io, Ulf», disse James, resistendo alla tentazione di aprire la porta con un calcio. Licantropi, pensò. Perché devono essere così territoriali?

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La porta si aprì quanto bastava per far entrare James. Il ragazzino pelle e ossa lanciò un’occhiata sospettosa fuori dalla porta e poi la richiuse. «Vai a marcare una pompa antincendio o qualcosa del genere», gli suggerì James. Il posto aveva l’aria di un piccolo caffè. Una sala semibuia, con tavolini rotondi stipati uno di fianco all’altro e sedie di legno. Qua e là erano sedute poche persone, sembravano tutti adolescenti. Due tipi stavano giocando a biliardo in fondo alla sala. James avanzò verso un tavolo, dove sedeva una ragazza. Si tolse gli occhiali da sole e si sedette. «Ciao, Gisèle». La ragazza alzò lo sguardo. Aveva i capelli neri e gli occhi azzurri. Occhi allungati, misteriosi, che sembravano contornati da un eyeliner nero – in stile antico Egitto. Sembrava una strega, e non a caso. «James, mi sei mancato». La voce era sommessa e roca. «Come te la passi in questi giorni?» Mise le mani a coppa intorno alla candela spenta sul tavolo e fece una rapida mossa, come se avesse lasciato volar via un uccello. Quando allontanò le mani, lo stoppino della candela prese fuoco. «Sei affascinante come al solito», gli disse, sorridendogli nella calda luce danzante. «Anche tu. Ma la verità è che sono qui per affari».

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La ragazza inarcò un sopracciglio. «Come sempre». «Questa volta è diverso. Volevo avere una tua… opinione professionale». Lei distese le mani affusolate, le unghie color argento scintillarono alla luce della candela. All’indice portava un anello con una dalia nera. «I miei poteri sono a tua disposizione. Vuoi invocare una maledizione su qualcuno? O forse vuoi attirare buona sorte e prosperità. So che non ti può servire un filtro d’amore». «Voglio un incantesimo… per curare una malattia. Non so se deve essere specifico per quella malattia, o se potrebbe funzionare qualcosa di più generico per la salute…». «James». Ridacchiò con indolenza e gli sfiorò la mano, accarezzandola leggermente. «Sei proprio agitato, vero? Non ti ho mai visto così». Era vero; stava perdendo il controllo. Cercò di riacquistarlo, imponendosi una calma totale. «Di che particolare malattia stiamo parlando?», domandò Gisèle, visto che James era rimasto zitto. «Cancro». Gisèle reclinò la testa e rise. «Vuoi farmi credere che gente come te si ammala di cancro? Non ci credo. Chiedimi pure tutto quel che vuoi, ma non cercare di convincermi che le lamie prendono le malattie degli umani».

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Questa era la parte più difficile. James disse con calma: «La persona malata non è come me. E neanche come te. È umana». Il sorriso scomparve dal viso di Gisèle. La voce non suonò più roca o indolente quando disse: «Un’estranea? Una parassita? Sei pazzo, James?» «Lei non sa niente di me o del Mondo delle Tenebre. Non voglio infrangere alcuna legge. Voglio solo che lei stia bene». Gli occhi azzurri e allungati scrutarono il volto di James. «Sei sicuro di non averle già infrante?». E quando capì che James non voleva afferrare il senso della domanda, aggiunse a voce più bassa: «Sei sicuro di non esserti innamorato di lei?». James sostenne il suo sguardo indagatore. Parlò in tono calmo e minaccioso. «Non dire una cosa simile, se non vuoi litigare». Gisèle distolse lo sguardo. Giocherellò con l’anello. La fiamma della candela perse vigore e si spense. «James, ti conosco da molto tempo», disse senza alzare lo sguardo. «Non voglio metterti nei guai. Ti credo quando dici che non hai infranto alcuna legge – ma credo sia meglio se dimentichiamo entrambi questa conversazione. Ora esci di qui e io farò finta che non sia successo nulla». «E l’incantesimo?»

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«Non esiste niente del genere. E anche se ci fosse, non ti aiuterei. Ora vai». James se ne andò. C’era un’altra possibilità che aveva preso in considerazione. Guidò fino a Brentwood, una zona diversa da quella quanto un diamante da un pezzo di carbone. Parcheggiò in un posto auto coperto, vicino a un caratteristico edificio in mattoni essiccati al sole con una fontana. Bougainville di colore rosso e porpora si arrampicavano sui muri fino alle tegole spagnole del tetto. Passò sotto un’arcata ed entrò nel cortile, fermandosi davanti a uno studio con una scritta in lettere dorate sulla porta. Jasper R. Rasmussen, Ph. D. Suo padre era uno psicologo. Prima che toccasse la maniglia, la porta si aprì e ne uscì una donna. Era come la maggior parte della pazienti di suo padre: sulla quarantina, inequivocabilmente ricca, in tenuta da jogging griffata e sandali con il tacco alto. Aveva un’aria confusa e sognante, e sul collo presentava due piccole punture già in via di guarigione. James entrò nello studio. C’era una sala d’attesa, ma nessuno a ricevere i pazienti. Dallo studio interno si diffondeva un’aria di Mozart. James bussò alla porta. «Papà?».

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La porta si aprì e apparve un uomo attraente con i capelli neri. Indossava un impeccabile completo grigio di sartoria e una camicia con polsini alla francese. Aveva un’aria autorevole e risoluta. Ma non c’era calore nella sua espressione. Disse: «Cosa c’è, James», con lo stesso tono che riservava ai suoi clienti: premuroso, ponderato, sicuro di sé. «Hai un minuto?». Il padre lanciò un’occhiata al suo Rolex. «A dire il vero il prossimo paziente non sarà qui prima di mezz’ora». «Devo parlarti di una cosa». Suo padre lo guardò intensamente, poi gli indicò una sedia troppo imbottita. James si accomodò, ma poi si spostò in avanti e preferì sedersi sul bordo. «Cosa ti preoccupa?». James cercò le parole adatte. Era assolutamente necessario che suo padre capisse. Ma quali erano le parole adatte? Alla fine ripiegò sulla franchezza. «Si tratta di Poppy. È da un po’ che sta male, e ora pensano che abbia un cancro». Il dottor Rasmussen sembrò sorpreso. «Mi dispiace». Ma non c’era alcuna afflizione nella sua voce. «Ed è uno dei peggiori. Incredibilmente doloroso, e incurabile quasi al cento per cento». «Che disgrazia». La voce del padre tradì solo una lieve sorpresa. E all’improvviso James ne intuì la

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causa. Non era sorpreso che Poppy fosse malata; era sorpreso che James fosse andato da lui a dirglielo. «Papà, se lei ha questa forma di cancro, morirà. Non ha alcuna importanza per te?». Il dottor Rasmussen unì le mani davanti al viso e fissò il piano lucido della scrivania in mogano. Parlò adagio, ma con tono deciso. «James, abbiamo già affrontato questo argomento. Tu sai che tua madre e io siamo preoccupati perché sei troppo affezionato a Poppy. Troppo… attaccato… a lei». James provò un impeto di gelida rabbia. «Come mi ero affezionato alla signorina Emma?» Il padre non battè ciglio. «Qualcosa del genere». James cercò di scacciare le immagini che volevano formarsi nella sua mente. Ora non poteva pensare alla signorina Emma; doveva mantenere un atteggiamento distaccato. Era l’unico modo per convincere suo padre. «Papà, quel che sto cercando di dirti è che conosco Poppy praticamente da una vita. Mi serve». «In che modo? Non certo nel modo comune. Non ti sei mai nutrito da lei, vero?». James deglutì, provando un senso di nausea. Nutrirsi da Poppy? Usarla in quel modo? Il solo pensiero lo disgustava.

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«Papà, è mia amica», disse rinunciando a qualsiasi pretesa di obiettività. «Semplicemente non posso vederla soffrire. Non ci riesco. Devo fare qualcosa». Il volto del padre si rischiarò. «Capisco». James si sentì stordito da un senso di insperato sollievo. «Capisci?» «James, a volte è impossibile reprimere un certo sentimento di… compassione per gli umani. In generale, non lo incoraggerei, ma tu conosci Poppy da moltissimo tempo. Non vuoi che soffra. Se vuoi abbreviare le sue sofferenze, allora sì, ti capisco». Il senso di sollievo provato poco prima crollò miseramente. Fissò il padre per qualche secondo, poi disse con calma: «Eutanasia? Pensavo che gli Anziani avessero vietato soluzioni simili». «Usa una ragionevole prudenza. Fino a quando sembrerà una morte naturale, nessuno di noi ci farà caso. Non ci sarà motivo per far intervenire gli Anziani». James sentì uno strano gusto metallico in bocca. Si alzò in piedi e rise brevemente. «Grazie, papà. Mi sei stato davvero di grande aiuto». Suo padre sembrò non cogliere il sarcasmo. «Ne sono felice, James. A proposito, come vanno le cose negli appartamenti?» «Bene», rispose James con indifferenza. «E la scuola?»

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«La scuola è finita, papà», replicò James, e uscì. Nel cortile, si appoggiò al muro di mattoni e rimase a fissare gli zampilli d’acqua della fontana. Non aveva altre alternative. Né speranze. Le leggi del Mondo delle Tenebre erano chiare. Se Poppy era malata di cancro, sarebbe morta.

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Capitolo 4 Poppy stava fissando senza appetito il vassoio della cena con pollo e patatine fritte, quando il dottor Franklin entrò nella stanza. Aveva fatto i test. La TAC era stata sopportabile, anche se claustrofobica, ma il CPRE era stato orribile. Sentiva ancora la presenza di quel tubo in gola ogni volta che deglutiva. «Non vorrai rinunciare a questo delizioso cibo d’ospedale?», le chiese il dottor Franklin con garbato umorismo. Poppy riuscì a sorridergli. Il dottore continuò a parlarle del più e del meno. Non disse nulla sui risultati degli esami clinici, e Poppy non aveva idea di quando avrebbe affrontato l’argomento. Eppure il comportamento del dottore la insospettì. Qualcosa nella sua espressione, la delicatezza con cui le diede un buffetto sul piede o quelle ombre sotto i suoi occhi… Quando suggerì con noncuranza che forse la madre di Poppy avrebbe gradito «fare due passi lungo il corridoio», i sospetti di Poppy si concretizzarono. Vuole parlare con lei. Conosce i risultati degli esami, ma non vuole che io li sappia.

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Nello stesso istante, formulò un piano. Sbadigliò, poi disse: «Vai pure, mamma; mi è venuto sonno». Si distese e chiuse gli occhi. Non appena furono usciti dalla stanza, scese dal letto. Li osservò allontanarsi lungo il corridoio e oltrepassare una porta. Poi, con solo le calze ai piedi, li seguì. Perse qualche minuto davanti alla sala delle infermiere. «Ho bisogno di sgranchirmi le gambe», disse quando ricevette un’occhiata interrogativa, e finse di passeggiare senza una meta precisa. Appena l’infermiera prese una cartella ed entrò nella stanza di un paziente, Poppy percorse in fretta il corridoio. La porta in fondo era quella della sala d’attesa – l’aveva vista prima. Era fornita di TV e di un angolo cottura per consentire ai parenti di mettersi a proprio agio. La porta era socchiusa, e Poppy si avvicinò furtivamente. Riconobbe il basso borbottio della voce del dottor Franklin, ma non riuscì a capire cosa stesse dicendo. Con estrema cautela si accostò alla soglia e azzardò un’occhiata all’interno. Vide subito che non c’era bisogno di essere così circospetta. Tutti erano completamente assorbiti dalla conversazione. Il dottor Franklin sedeva su un divano. Accanto a lui c’era una donna afroamericana con gli occhiali fissati a

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una catenella intorno al collo. Anche lei indossava un camice bianco. Sull’altro divano era seduto il patrigno di Poppy, Cliff. I capelli neri, di solito impeccabilmente in ordine, erano un po’ spettinati, e la mascella solida era contratta nervosamente. Cingeva la moglie con un braccio. Il dottor Franklin si stava rivolgendo a entrambi, con la mano posata sulla spalla di sua madre. E la mamma stava singhiozzando. Poppy arretrò. Oh, mio Dio. Ce l’ho. Non aveva mai visto sua madre piangere prima d’allora. Neanche quando era morta la nonna, o durante il divorzio del padre. La specialità di sua madre era far fronte alle difficoltà: nessuno ci riusciva meglio di lei. Ma adesso… Ce l’ho. Senza dubbio. Eppure, forse non era così grave. La mamma era scioccata, ok, ma era naturale. Ma questo non voleva dire che Poppy stesse per morire o roba del genere. Poppy poteva contare su tutte le risorse della medicina moderna. Continuò a ripeterselo, mentre si allontanava lentamente dalla sala d’attesa. Forse troppo lentamente. Prima che fosse fuori portata d’orecchio, udì la voce della mamma, resa stridula dall’angoscia. «La mia bambina. Oh, la mia piccola».

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Poppy si sentì gelare. Poi fu la volta di Cliff, con voce alta e irritata: «Sta cercando di dirmi che non si può fare niente?». Ormai Poppy non sentiva più neanche il proprio respiro. Lottando contro se stessa, tornò indietro, verso la porta. «La dottoressa Loftus è oncologa; un’esperta di questo tipo di tumore. Può spiegarvi la situazione meglio di quanto possa fare io», stava dicendo il dottor Franklin. Poi le giunse un’altra voce – la dottoressa. Sulle prime Poppy riuscì ad afferrare soltanto parole sparse che sembravano non voler dire nulla: adenocarcinoma, occlusione della vena splenica, Fase 3. Linguaggio medico. Poi la sentì aggiungere: «Per dirla in parole semplici, il problema è che il tumore è diffuso. Si è esteso al fegato e ai linfonodi intorno al pancreas. Questo significa che non è più possibile asportarlo – non possiamo operare». Intervenne Cliff: «Ma la chemioterapia…». «Potremmo tentare una combinazione di radioterapia e chemioterapia con un farmaco chiamato fluorouracile. Ci ha già dato qualche risultato. Ma non voglio illudervi. Nella migliore delle ipotesi può prolungare il tempo di sopravvivenza di alcune settimane. A questo punto, stiamo considerando di intervenire con cure palliative – per ridurre il dolore e migliorare la qualità del tempo che le resta. È tutto chiaro?».

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Poppy sentiva i singhiozzi soffocati della madre, ma non la commuovevano. Le sembrava di ascoltare un dramma alla radio. Qualcosa che non aveva niente a che fare con lei. Il dottor Franklin disse: «Ci sono alcuni protocolli di ricerca proprio qui nella California del Sud. Sono in corso esperimenti con l’immunoterapia e la chirurgia criogenica. Tuttavia, anche in questo caso stiamo parlando di palliativi più che di una terapia vera e propria…». «Dannazione!», esplose Cliff. «Stiamo parlando di una ragazzina! Come è potuta arrivare fino a… alla Fase 3… senza che nessuno se ne accorgesse? Solo due giorni fa ha ballato per tutta la notte». «Signor Hilgard, sono desolata», disse la dottoressa Loftus con una voce così sommessa che Poppy riuscì a malapena a cogliere le parole. «Questa tipologia di tumore viene definita “malattia silenziosa”, perché manifesta pochissimi sintomi prima di raggiungere uno stadio avanzato. Per questo motivo il tasso di sopravvivenza è così basso. E devo riconoscere che Poppy è soltanto la seconda adolescente con questo tipo di tumore che io abbia conosciuto. Il dottor Franklin ha formulato una diagnosi estremamente accorta quando ha deciso di farla ricoverare qui per sottoporla agli esami».

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«Io avrei dovuto accorgermene», disse la madre di Poppy con la voce impastata. «Avrei dovuto portarla qui prima. Avrei dovuto… avrei dovuto…». Si udì il rumore di un colpo. Poppy sbirciò dalla soglia della porta, dimenticando ogni cautela. La madre stava battendo la mano sul tavolo di formica, più e più volte. Cliff stava cercando di fermarla. Poppy si ritrasse. Oh, Dio, devo andarmene da qui. Non posso assistere a tutto questo. Non lo sopporto. Si girò e percorse a ritroso il corridoio. Le gambe si muovevano. Proprio come sempre. Incredibile che riuscisse a muoverle. E ogni cosa intorno a lei era come sempre. La sala delle infermiere era ancora addobbata per la festa del 4 luglio. La sua valigia era ancora sulla panca imbottita sotto la finestra della stanza. Il pavimento di legno era ancora solido sotto i suoi piedi. Tutto era come prima – ma come era possibile? Come potevano le mura stare ancora in piedi? E la TV trasmettere a tutto volume nella stanza accanto? Sto per morire, pensò Poppy. Strano, ma non aveva paura. Quel che provava era un enorme stupore, che continuò a crescere, sempre più, e ogni pensiero veniva interrotto da quelle tre parole. È colpa mia perché (sto per morire) non sono andata prima dal dottore.

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Cliff ha detto “dannazione” per me (sto per morire). Non sapevo che tenesse a me al punto di imprecare. Una serie di pensieri continuava a vorticarle nella mente. Qualcosa dentro di me, pensò. Sto per morire per qualcosa che è dentro di me, come gli alieni in quel film. È dentro di me adesso. In questo preciso momento. Posò entrambe le mani sullo stomaco, poi si tirò su la maglietta e scrutò l’addome. La pelle era liscia, immacolata. Non sentiva alcun dolore. Ma è qui dentro, e io sto per morire per causa sua. Morire presto. Tra quanto tempo? Non li ho sentiti parlare di tempi. Ho bisogno di James. Poppy si allungò per prendere il telefono, con la sensazione che la sua mano fosse staccata dal corpo. Digitò il numero, pensando: Ti prego, devi esserci. Ma questa volta non funzionò. Il telefono squillò a vuoto. Quando si inserì la segreteria telefonica, Poppy registrò: «Chiamami in ospedale». Poi attaccò e rimase a fissare la caraffa di plastica con l’acqua fresca posata sul comodino. Rientrerà a casa più tardi, pensò. E mi chiamerà. Devo solo resistere fino ad allora. Non era sicura del perché le fosse venuto in mente, ma all’improvviso divenne il suo unico obiettivo. Resistere fin quando non avesse potuto parlare con James. Fino a

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quel momento non doveva pensare ad altro, doveva soltanto sopravvivere. Dopo aver parlato con James, sarebbe stata in grado di capire cosa avrebbe dovuto provare, e cosa avrebbe dovuto fare. Qualcuno bussò piano alla porta. Poppy trasalì, mentre sua madre e Cliff entravano nella stanza. Per un istante riuscì a vedere solo i loro volti, che le comunicarono la strana sensazione di essere sospesi nell’aria. La mamma aveva gli occhi gonfi e arrossati. Cliff era pallido, come un foglio di carta spiegazzato, e l’ombra scura della barba non rasata faceva risaltare ancor di più il suo pallore. Oh, mio Dio, sono venuti per dirmelo? Non possono; non possono costringermi ad ascoltare. Provò l’improvviso impulso di fuggire. Stava per abbandonarsi al panico. Ma la madre disse: «Tesoro, sono venuti a trovarti alcuni amici. Questo pomeriggio Phil li ha avvertiti che eri in ospedale, e sono appena arrivati». James, pensò Poppy, sentendosi libera dal peso che le opprimeva il petto. Ma James non era fra i ragazzi che si affollarono nel vano della porta. Erano più che altro compagne di scuola. Non importa. Mi chiamerà più tardi. Non devo pensarci adesso. In realtà, fu impossibile pensare con la stanza piena di ospiti. E fu un bene. Era incredibile che Poppy riuscisse a

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stare lì seduta a chiacchierare, quando una parte di lei era più lontana di Nettuno. Ma lo fece, e servì a tenerle il cervello occupato. Nessuno di quei ragazzi aveva idea di quanto fossero gravi le sue condizioni. Neanche Phil, che era nel suo miglior spirito fraterno, gentile e premuroso. Parlarono di cose normali: feste, pattinaggio, musica, libri. Cose che appartenevano alla vecchia vita di Poppy, che d’un tratto sembrava lontano cento anni. Anche Cliff chiacchierò, più amabile di quanto fosse mai stato dai giorni in cui corteggiava la madre di Poppy. Ma alla fine se ne andarono tutti. Tranne la mamma. Di quando in quando la toccava, con le mani scosse da un lieve fremito. Se non lo sapessi già, lo capirei adesso, si disse Poppy. Questo comportamento non è da lei. «Penso che stanotte mi fermerò qui», le disse la madre, senza riuscire a farla apparire come una decisione presa sul momento. «L’infermiera ha detto che posso dormire sulla panca sotto la finestra; in effetti è un divano per genitori. Devo solo decidere se è il caso che io vada prima a casa a prendere qualcosa». «Sì, vai», la incoraggiò Poppy. Non c’era altro che potesse dire, se doveva ancora fingere di non sapere niente. Inoltre, la mamma aveva certamente bisogno di stare un po’ di tempo da sola, fuori da quell’ospedale.

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Appena sua madre fu uscita, entrò un’infermiera con una blusa a fiori e pantaloni verdi per misurarle la temperatura e la pressione. Poi Poppy rimase sola. Era tardi. C’era ancora una TV accesa, però lontano dalla sua stanza. La porta era socchiusa, ma il corridoio all’esterno era scarsamente illuminato. Sembrava che il silenzio fosse calato sull’intera corsia. Si sentì davvero sola, e il dolore cominciò a morderla nel profondo. Sotto la pelle liscia dell’addome, il tumore si stava facendo riconoscere. E, peggio di ogni altra cosa, James non aveva telefonato. Come poteva non chiamarla? Non capiva che aveva bisogno di lui? Non sapeva per quanto tempo sarebbe riuscita a non pensare a Quello. Forse la cosa migliore era tentare di dormire. Perdere coscienza. Allora non avrebbe potuto pensare. Ma non appena spense la luce e provò a chiudere gli occhi, dei fantasmi cominciarono a turbinarle intorno. Non immagini di graziose ragazze senza capelli. Scheletri. Bare. E un’oscurità senza fine. Se muoio, non resterò qui. Andrò da qualche parte? O semplicemente smetterò di esistere? Era la cosa più terrificante che avesse mai immaginato, non esistere. E adesso ci stava decisamente pensando, era più forte di lei. Stava per perdere il controllo. Un’ansia galoppante la consumava, facendola rabbrivi-

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dire sotto le lenzuola ruvide e la coperta leggera. Sto per morire, sto per morire, sto per… «Poppy?» Spalancò gli occhi. Per un istante non riuscì a identificare la sagoma scura nella stanza in penombra. Ebbe l’allucinante sensazione che la Morte in persona fosse venuta a prenderla. Poi azzardò: «James?» «Non sapevo se ti eri già addormentata». Poppy allungò la mano verso l’interruttore della luce accanto al letto, ma James disse: «No, lascia stare. Sono dovuto passare di nascosto davanti alla sala delle infermiere e non voglio che mi buttino fuori». Poppy deglutì, stringendo fra le mani una piega del lenzuolo. «Sono felice che tu sia qui», disse. «Credevo che non saresti venuto». Avrebbe tanto voluto gettarsi fra le sue braccia e singhiozzare, gridare. Ma non lo fece. Non perché non avesse mai fatto niente del genere con lui prima di allora, era per qualcosa che percepiva in lui e che la bloccava. Qualcosa che non riusciva a identificare, ma che le comunicava una sorta di… paura. Forse la sua postura? Oppure il fatto che non vedeva il suo volto? Tutto quel che sapeva era che all’improvviso James le pareva un estraneo. Il ragazzo si girò e chiuse adagio la porta massiccia.

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Buio. La luce adesso proveniva solo dalla finestra. Poppy si sentì stranamente isolata dal resto dell’ospedale, dal resto del mondo. E sarebbe stato magnifico trovarsi sola con James, protetta da qualsiasi pericolo. Se solo non avesse provato quella strana sensazione di estraneità, come se non lo riconoscesse. «Hai saputo i risultati degli esami», le disse con calma. Non era una domanda. «Mamma non sa che io so», replicò Poppy. Come riusciva a parlare in modo coerente quando avrebbe voluto soltanto gridare? «Ho sentito per caso quel che le dicevano i dottori… James, ce l’ho. E… non perdona; è un tipo di tumore che non perdona. Hanno detto che si è già esteso. Hanno detto che sto per…». Non riuscì a pronunciare l’ultima parola, anche se le stava urlando nella testa. «Stai per morire», disse per lei James. Eppure sembrava tranquillo e controllato. Distaccato. «Mi sono documentato», proseguì James, avvicinandosi alla finestra per guardare fuori. «So che non perdona. Gli articoli che ho letto parlano di grande sofferenza. Dolori terribili». «James», ansimò Poppy. «A volte devono intervenire chirurgicamente solo per eliminare il dolore. Ma qualunque cosa facciano, non servirà a salvarti. Possono imbottirti di sostanze chimiche

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e bersagliarti di radiazioni, ma morirai comunque. Probabilmente prima della fine dell’estate». «James…». «Sarà la tua ultima estate…». «James, per amor di Dio!». Fu quasi un grido. Poppy respirava con affanno, cercando di prendere grosse boccate d’aria, aggrappata alle coperte. «Perché mi fai questo?» Lui si voltò e le afferrò il polso, chiudendo le dita sopra il braccialetto di plastica dell’ospedale. «Voglio che tu capisca che non possono aiutarti», disse, sfinito e rabbioso. «Lo capisci?» «Sì, lo capisco», disse Poppy. Percepì l’isteria crescente nella propria voce. «Sei venuto per dirmi questo? Vuoi uccidermi prima del tempo?» Le dita del giovane, si serrarono dolorosamente intorno al suo polso. «No! Io voglio salvarti». Poi emise un lungo sospiro e ripetè quelle parole con più calma, ma con la stessa intensità. «Io voglio salvarti, Poppy». La ragazza passò alcuni minuti cercando di inspirare ed espirare regolarmente. Non era facile riuscirci senza sciogliersi in singhiozzi. «Bene, non puoi», disse alla fine. «Nessuno può». «È qui che ti sbagli». Le liberò delicatamente il polso e afferrò la ringhiera del letto. «Poppy, c’è qualcosa che devo dirti. Qualcosa che mi riguarda».

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«James…». Ora Poppy riusciva di nuovo a respirare, ma non sapeva cosa dire. James sembrava impazzito. In un certo senso, se tutto il resto non fosse stato così orribile, si sarebbe sentita lusingata. James aveva abbandonato la consueta freddezza nei suoi confronti. Era talmente sconvolto dalla sua situazione da uscire completamente dai binari. «Ti importa davvero», gli disse con un filo di voce ed una risatina che si spense in un singhiozzo. Posò la mano su quella del ragazzo. James rispose con una brusca ridata. Sfilò la mano per afferrare con forza quella di Poppy; poi la ritirò. «Tu non hai idea», disse con voce tesa e innaturale. Guardando fuori dalla finestra, aggiunse: «Tu pensi di conoscere tutto di me, ma non è così. C’è qualcosa di molto importante che non sai». Ormai Poppy era completamente stordita. Non capiva come mai James continuasse a parlare di se stesso quando era lei quella che stava per morire. Ma cercò di chiamare a raccolta un po’ di dolcezza per il suo vecchio amico e disse: «Puoi dirmi qualunque cosa. Lo sai». «Ma è qualcosa a cui non vorrai credere. Senza dire che così infrangerò la legge». «La legge?» «La legge. Agisco secondo leggi diverse dalle tue. Le leggi degli uomini non significano molto per noi, ma le nostre sono ritenute inviolabili».

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«James», disse Poppy, sgomenta. L’amico stava davvero perdendo la ragione. «Non so quale sia il modo migliore per dirtelo. Mi sembra di essere un personaggio di qualche scadente film dell’orrore». Si strinse nelle spalle, e parlò senza voltarsi. «So che suona strano, ma… Poppy, io sono un vampiro». Per un momento, la ragazza rimase immobile, seduta sul letto. Poi allungò nervosamente la mano verso il comodino, cercando qualcosa a tentoni. Le dita si chiusero su una pila di ciotole di plastica a forma di mezzaluna e le scaraventò tutte contro di lui. «Bastardo!», gridò, cercando qualcos’altro da lanciare.

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Capitolo 5 James schivò il libro lanciatogli dall’amica. «Poppy…». «Bastardo! Serpe! Come puoi farmi questo? Sei un viziato, egoista, immaturo…». «Shhh! Ti sentiranno…». «Mi sentano pure! Eccomi qui, ho appena scoperto che sto per morire, e tutto quel che ti viene in mente è giocarmi questo brutto scherzo? Questo scherzo stupido e disgustoso. Non riesco a crederci. Pensi che sia divertente?», infierì, finchè le mancò il fiato. James, che fino a quel momento aveva tentato di calmare a gesti la sua collera, si arrese e guardò in direzione della porta. «Ecco l’infermiera». «Bene, le chiederò di buttarti fuori», disse Poppy. La rabbia si era consumata, lasciando il posto alle lacrime. Non si era mai sentita così, completamente tradita e abbandonata. «Sai che ti dico? Ti odio!», concluse. Si aprì la porta. Era l’infermiera con la blusa a fiori e i pantaloni verdi. «C’è qualcosa che non va qui?», domandò, accendendo la luce. Poi vide James. «Bene, bene, vediamo un po’; non mi sembri un familiare», osservò.

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Sorrideva, ma la voce era sostenuta da un timbro autoritario. «Infatti non lo è, e voglio che esca di qui», disse Poppy. L’infermiera sprimacciò il cuscino e le posò dolcemente una mano sulla fronte. «Solo ai familiari è permesso fermarsi per la notte», disse a James. Poppy si concentrò sulla televisione, in attesa che l’amico se ne andasse. Ma James non lo fece. Girò intorno al letto e si fermò accanto all’infermiera, che alzò lo sguardo verso di lui continuando ad allisciare le coperte. Ma di colpo rallentò il movimento delle mani, fino a fermarsi. Poppy le lanciò un’occhiata, piena di sorpresa. La donna stava guardando James. Con le mani abbandonate sulla coperta e gli occhi sbarrati come fosse ipnotizzata. E James le restituiva lo sguardo. Con la luce accesa, Poppy vide bene il volto del ragazzo, e provò ancora quella strana sensazione di estraneità. Era molto pallido e aveva un’espressione dura, come se quel che stava facendo gli richiedesse uno sforzo. Aveva la mascella serrata e gli occhi rilucevano come argento. Vero argento, che risplendeva alla luce. Per qualche ragione, Poppy pensò a una pantera affamata.

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«Come vede, qui è tutto a posto», disse James all’infermiera, come se stesso continuando una conversazione. La donna sbattè le palpebre, poi si guardò intorno con l’aria di chi si sia appena svegliato da un pisolino. «Certo, certo; va tutto bene», replicò. «Chiamami se…». Per un istante sembrò confusa, poi mormorò: «Se,ehm, hai bisogno di qualcosa». Uscì dalla camera. Poppy la seguì con lo sguardo, dimenticandosi di respirare. Poi, lentamente, volse gli occhi in direzione di James. «So bene che è un clichè», si scusò il ragazzo. «Un’abusata dimostrazione pratica di potere. Ma serve a raggiungere lo scopo». «Ti eri messo d’accordo con lei», sussurrò appena Poppy. «No». «Oppure è una sorta di illusione psichica. L’Incredibile Comesichiama». «No», ripetè James, e si sedette su una sedia di plastica arancione. «Allora sto diventando pazza». Per la prima volta, quella sera, Poppy non stava pensando alla propria malattia. In realtà non riusciva a concentrarsi su niente: la mente era un guazzabuglio turbinoso e confuso di pensieri. Si sentiva come la casa di Dorothy dopo essere stata sradicata dal tornado.

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«Non sei pazza. Probabilmente ho sbagliato io; ti ho detto che non sapevo come spiegartelo. Senti, capisco quanto sia difficile per te credermi. Il mio popolo ha predisposto ogni cosa; fa tutto il possibile perché gli umani continuino a non credere. La nostra sopravvivenza dipende da questo». «James, mi spiace, è che io…». Poppy si accorse che le tremavano le mani. Chiuse gli occhi. «Forse sarebbe meglio che tu…». «Poppy, guardami. Ti sto dicendo la verità. Te lo giuro». Fissò il viso dell’amica per un momento, poi sospirò. «Ok. Non volevo arrivare a questo, ma…». Si alzò in piedi, e abbassò la testa vicino alla sua. La ragazza si rifiutò di tirarsi indietro, ma sentì i propri occhi che si spalancavano, suo malgrado. «E adesso, guarda», disse lui, stirando indietro le labbra per scoprire i denti. Un semplice gesto, ma l’effetto fu stupefacente. Tramutante. In quel preciso istante si trasformò dal pallido, ma tutto sommato normale James di un attimo prima, in qualcosa che Poppy non aveva mai visto in tutta la sua vita. Un essere umano di una specie diversa. Gli occhi brillarono di luce argentea e sul volto apparve un’espressione da predatore. Ma Poppy lo notò appena: era rimasta a fissare i denti. Non denti. Zanne. Aveva i canini di un felino. Allungati e curvi, con le punte aguzze.

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Non somigliavano affatto ai falsi denti da vampiro in vendita nei negozi di chincaglierie. Erano forti, affilati, reali. Poppy gridò. Le mise una mano sulla bocca. «Non c’è bisogno che torni l’infermiera». Quando sollevò la mano, l’amica balbettò: «Oh, mio Dio; oh, mio Dio…». «Tutte le volte che mi dicevi che riuscivo a leggerti nella mente», continuò James. «Ricordi? E le volte che captavo cose che tu non riuscivi a sentire, o ero più veloce di te nel muovermi?» «Oh, mio Dio». «È vero, Poppy». Sollevò la sedia arancione e piegò una delle gambe di metallo. Lo fece con estrema facilità ed eleganza. «Siamo più forti degli umani», spiegò. Raddrizzò di nuovo la gamba e posò la sedia a terra. «Vediamo meglio al buio. Siamo fatti per cacciare». Alla fine Poppy riuscì a formulare un pensiero completo. «Non m’importa cosa puoi fare», disse con voce stridula. «Tu non puoi essere un vampiro. Ti conosco da quando avevi cinque anni. E sei cresciuto, anno dopo anno, proprio come me. Spiegami questo». «Tutto quel che sai è sbagliato». Quando vide che l’amica continuava a fissarlo senza parlare, sospirò di nuovo e proseguì. «Tutto quel che pensi di sapere riguardo ai vampiri lo hai appreso dai libri o dalle fiction

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televisive. Ed è tutto scritto da umani, te lo assicuro. Nessun membro del Mondo delle Tenebre violerebbe il codice di segretezza». «Il Mondo delle Tenebre. E dove si trova?» «Non è un luogo. È una sorta di società segreta, per vampiri, streghe e licantropi. Il meglio del meglio. Dopo ti spiegherò tutto», aggiunse con aria cupa. «Per ora… guarda, è semplice. Sono un vampiro perché lo sono i miei genitori. Sono nato così. Noi siamo le lamie». Poppy riuscì solo a pensare al signore e alla signora Rasmussen nella loro lussuosa villa in stile ranch e alla loro Mercedes color oro. «I tuoi genitori?» «Lamie è un termine antico per vampiri, ma per noi indica chi nasce già in questa forma», disse James, ignorando la sua domanda. «Nasciamo e cresciamo come gli umani, solo che possiamo smettere di invecchiare ogni volta che vogliamo. Respiriamo. Possiamo girare alla luce del sole. Possiamo persino mangiare cibo normale». «I tuoi genitori», ripetè debolmente Poppy. La guardò in viso. «Già. I miei genitori. Ascolta, perché credi che mia madre si occupi di arredamento d’interni? Non certo perché ha bisogno di denaro. Le serve per incontrare un sacco di gente, e lo stesso vale per mio padre, lo strizzacervelli. Gli basta restare pochi minuti da soli con qualcuno, e dopo l’umano non ricorderà nulla».

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Poppy si agitò, con evidente disagio. «Quindi voi, ehm, bevete sangue umano?». Nonostante quel che aveva appena visto, non riuscì a trattenere una risatina. James abbassò gli occhi sui lacci delle Adidas. «Sì. Sì, certo», rispose a bassa voce. Poi sollevò lo sguardo e incontrò quello dell’amica. I suoi occhi erano argento puro. Poppy si appoggiò alla pila di cuscini sul letto. Forse le riusciva più facile credergli, perché l’incredibile le era già capitato quello stesso giorno. La realtà si era già capovolta; quindi, che differenza poteva fare un’altra assurdità? Sto per morire, e il mio migliore amico è un mostro succhiasangue, pensò. L’argomento era esaurito, e si sentiva svuotata di ogni energia. I due si guardarono in silenzio. «Ok», disse Poppy alla fine, per fargli capire ce aveva appena preso atto di tutto. «Non te l’ho rivelato solo per togliermi un peso dallo stomaco», la informò James, sempre a bassa voce. «Ti ho detto che potrei salvarti, ricordi?» «Vagamente». Sbattè lentamente le palpebre, poi aggiunse all’improvviso: «Salvarmi come?». Il ragazzo fissò un punto indistinto. «Proprio come pensi». «Jamie, io non riesco più a pensare».

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Delicatamente, senza guardarla, le posò una mano sulla caviglia, sotto la coperta, e gliela strinse in un gesto affettuoso. «Ho intenzione di trasformarti in vampiro, piccola» Poppy nascose il viso dietro i pugni chiusi e cominciò a piangere. «Ehi». Lasciò andare la caviglia e la cinse goffamente con un braccio, tirandola su a sedere sul letto. «Non fare così. È tutto ok. È sempre meglio dell’alternativa». «Tu sei… un fottuto… pazzo», singhiozzò Poppy. Versate le prime lacrime, fu impossibile trattenerle oltre: scoppiò in un pianto dirotto, senza riuscire a fermarsi. Piangere le fu di conforto, così come trovarsi fra le braccia di James. Era forte, affidabile, e aveva un buon odore. «Hai detto che bisogna nascerci», gli fece notare Poppy, fra i singhiozzi. «No. Ho detto che io sono nato così. In giro è pieno di vampiri dell’altro tipo. Quelli che lo sono diventati. Potrebbero essere anche di più, ma una legge vieta di trasformare qualsiasi idiota incontrato per strada». «Ma io non posso. Io sono così come sono, sono io. Non posso essere… in quel modo». Lui la scostò dolcemente per poterla guardare negli occhi. «Allora morirai. Non hai altra scelta. Mi sono informato – mi sono persino rivolto ad una strega. Nel Mondo delle Tenebre non c’è altro che possa aiutarti. Il

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problema si riduce a questo: vuoi continuare a vivere o no?». La domanda s’impresse nella mente ancora confusa di Poppy. Fu come il raggio di luce di una torcia in una stanza buia come la pece. Voleva vivere? Oh, Dio, ma certo che lo voleva. Fino a quel giorno aveva dato per scontato di avere pieno diritto di vivere. Non si era mai mostrata grata per il privilegio riservatole. Ma adesso capì che non si trattava di qualcosa di scontato – e capì anche che avrebbe dovuto lottare per ottenerlo. Svegliati, Poppy! Ascolta la voce della ragione. Ti sta dicendo che può salvarti la vita. «Aspetta un minuto, devo riflettere», disse a James con fermezza. Le lacrime erano cessate. Allontanò l’amico e si concentrò sulla coperta bianca da ospedale. Ok. Ok. Ora fai mente locale, ragazza. Sapevi che James custodiva un segreto. Certo non avresti mai immaginato che fosse qualcosa del genere, e con ciò? È sempre James. Sarà pure un terrificante demone vampiro, eppure si prende ancora cura di te. E non c’è nessun altro che possa aiutarti. Strinse forte la mano dell’amico, senza guardarlo. «Cosa si prova?», chiese a denti stretti. Calmo e pratico, le rispose: «È insolito. Non lo raccomanderei se ci fosse un’altra scelta, ma… è ok. Starai

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male mentre il tuo corpo si trasforma, ma dopo non prenderai più alcuna malattia. Sarai forte, e agile, e… immortale». «Vivrei per sempre? Ma potrei fermare l’invecchiamento?». Già si vedeva come una vecchia befana immortale. Il ragazzo storse la bocca. «Poppy – smetteresti di invecchiare adesso. Questo è quel che accade a chi viene trasformato in vampiro. Sostanzialmente, finirai la tua esistenza mortale. Sembrerai morta e sarai priva di conoscenza per un po’. E dopo… ti risveglierai». «Ho capito». Un po’ come Giulietta nella tomba, concluse Poppy. Poi pensò: Oh, Dio… mamma e Phil. «C’è qualcos’altro che devi sapere», le stava dicendo James. «Una certa percentuale di persone non ce la fa». «Non ce la fa?» «A superare la trasformazione. Le persone oltre i vent’anni non ci riescono quasi mai. Non si risvegliano più. I loro corpi non si adeguano alla nuova forma e si riducono in cenere. Invece gli adolescenti di solito sopravvivono, ma non sempre». Strano a dirsi, ma Poppy si sentì sollevata. Una speranza con riserva risultava più credibile di una assoluta. Per vivere, avrebbe dovuto rischiare. Guardò James. «Come si fa?»

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«Nel modo tradizionale», rispose, accennando appena un sorriso. Poi, con aria grave: «Ci scambieremo il sangue». Oh, magnifico, si disse Poppy. E io ero terrorizzata da un semplice ago. Adesso subirò un prelievo tramite zanne. Deglutì e sbattè le palpebre, fissando il nulla. «Sta a te decidere, Poppy». Seguì una lunga pausa, e alla fine le disse: «Io voglio vivere, Jamie». L’amico annuì. «Vorrà dire andar via da qui. Lasciare i tuoi genitori. Loro non possono sapere la verità». «Sì, me ne rendo conto. Una sorta di nuova identità assegnata dall’FBI, eh?» «Di più. Vivrai in un nuovo mondo, il Mondo delle Tenebre. Ed è un mondo solitario, pieno di segreti. Ma potrai camminarvi liberamente, invece di marcire sotto terra». Le strinse la mano. Poi disse, con estrema calma e serietà: «Vuoi cominciare, adesso?». Non le venne altro in mente che chiudere gli occhi e prepararsi come faceva prima di un’iniezione. «Sono pronta», annunciò a denti stretti. James scoppiò a ridere – questa volta non riuscì a trattenersi. Piegò la ringhiera del letto e si sistemò accanto a lei. «Sono abituato a ipnotizzare la gente in situazioni del genere. È strano che tu sia sveglia e consapevole».

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«Sì, bene, se grido puoi ipnotizzarmi», acconsentì Poppy, sempre a occhi chiusi. Rilassati, si disse. Non importa quanto sarà doloroso, non importa quanto sarà orribile, ma devi affrontarlo. Devi. La tua vita dipende da questo. Il cuore le batteva così forte che tutto il suo corpo tremava. «In questo punto», stava dicendo James, tastandole la gola con le dita gelide, in cerca della vena. Sbrigati, pensò Poppy. Facciamola finita. Provò un senso di calore quando James si chinò su lei, prendendola delicatamente per le spalle. Ogni terminazione nervosa del suo corpo era cosciente della presenza del ragazzo. Poi sentì un respiro fresco sulla gola e subito, prima che potesse ritrarsi, una doppia puntura. Quelle zanne sarebbero affondate nella sua carne. Per creare due piccoli fori, e permettere a lui di bere il suo sangue… Adesso mi farà davvero male, pensò Poppy. Non aveva più tempo per prepararsi. La sua vita era nelle mani di un predatore. Era un coniglio intrappolato fra le spire di un serpente, un topo fra gli artigli di un gatto. Non si sentiva la migliore amica di James, si sentiva un pasto… Poppy, che stai facendo? Non opporre resistenza, altrimenti sentirai dolore.

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James le stava parlando – ma le labbra calde non si erano mosse dalla sua gola. La voce era nella sua mente. Non sto resistendo, pensò Poppy. Sono solo pronta a sentire dolore, tutto qui. Provò una fitta intensa e bruciante quando i denti le incisero la pelle. Aspettò che il dolore si acuisse – ma non lo fece. Cambiò. Oh, pensò Poppy. Quel calore era davvero piacevole. Un senso di liberazione, di donazione. E di intimità. Lei e James erano sempre più vicini, come due gocce d’acqua che precipitano insieme prima di fondersi. Sentiva la mente di James. I pensieri, le sensazioni. Le sue emozioni fluivano in lei, attraverso di lei. Tenerezza… preoccupazione… affetto. Una rabbia cupa e determinata di fronte alla malattia che la minacciava. Disperazione perché non c’era altro modo per aiutarla. E desiderio – desiderio di condividere tutto con lei, di renderla felice. Sì, pensò Poppy. Un’improvvisa ondata di dolcezza le diede un senso di vertigine. Cercò a tentoni la mano di James, intrecciò le dita alle sue. James, pensò, in un misto fra gioia e stupore, che tentò di comunicare al ragazzo con una carezza esitante. Poppy. Percepì la sorpresa e la delizia che provava lui.

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E per tutto il tempo quell’impalpabile piacere continuò a crescere, sempre più intenso, fino a farla fremere. “Come ho potuto essere così stupida?”, si disse Poppy. “Aver paura di questo. Non è orribile. È… naturale”. Non si era mai sentita così vicina a qualcuno. Insieme, era come se fossero un unico essere, non preda e predatore, ma partner in una danza. Poppy – e – James. Gli sfiorò l’anima. Strano, ma fu lui adesso ad aver paura. Lei lo avvertì chiaramente. Poppy, no – tante cose oscure – non voglio che tu veda… Oscure, certo, pensò Poppy. Ma non oscure e terrificanti. Oscure e tristi. Una tristezza immensa. La sensazione di non appartenere a nessuno dei due mondi che conosceva. Di non appartenere a nessun luogo. Tranne… D’un tratto Poppy scorse nella mente di James un’immagine di se stessa. Fragile e graziosa, uno spirito dell’aria con occhi di smeraldo. Una silfide, con un cuore di puro acciaio. Non sono così, pensò. Non sono alta e attraente come Jacklyn o Michaela… Le parole che le giunsero in risposta non sembrarono dirette a lei. Ebbe la sensazione che James le stesse ripetendo a se stesso, o si ricordasse di averle lette in un libro dimenticato da tempo.

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Non ami una ragazza per la sua bellezza. La mai perché intona un canto che solo tu puoi comprendere… A quel pensiero si unì un forte senso di protezione. Allora era questo che James provava per lei – l’aveva scoperto, finalmente. Lei era qualcosa di prezioso, che doveva essere protetto a ogni costo… A ogni costo. Non importava quel che gli sarebbe successo. Poppy cercò di seguire i pensieri più profondi di James, per scoprirne il significato. C’erano di mezzo regole – no, leggi… Poppy, non è educato sondare la mente altrui quando non sei stata invitata a farlo. Le parole tradirono una nota di disperazione. La ragazza si trattenne. Non voleva ficcare il naso, voleva solo essere d’aiuto… Lo so, le comunicò James, insieme a un flusso di affetto e gratitudine. Poppy si rilassò e si limitò a gustare quella sensazione di unità con lui. Vorrei che durasse per sempre, pensò – e in quel preciso momento finì. Si spense il calore che le lambiva il collo, e James si tirò indietro, raddrizzando la schiena. Con un lamento di protesta, tentò di avvicinarlo di nuovo a sé, ma il ragazzo non glielo permise. «No – c’è qualcos’altro che dobbiamo fare», le sussurrò. Ma non si mosse. La tenne semplicemente fra le braccia, con le labbra posate sulla sua fronte. Poppy provò un senso di pace e di languore.

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«Non mi avevi detto che sarebbe stato così», gli disse. «Non lo sapevo», ammise James. «Non è mai stato così prima d’ora». Rimasero seduti in silenzio, mentre James le accarezzava dolcemente i capelli. Che strano, pensò Poppy. Tutto è come prima – e tutto è così diverso. Come se avesse raggiunto la terraferma dopo essere quasi annegata nell’oceano. Il terrore che le aveva martellato nel petto per tutto il giorno era svanito, e per la prima volta nella vita si sentì totalmente al sicuro. Dopo qualche minuto James scosse la testa, risvegliandosi da quel dolce torpore. «Cos’altro dobbiamo fare?», volle sapere Poppy. Per tutta risposta, James si avvicinò il polso alle labbra e fece un rapido movimento con il capo, come per strappare un pezzo di stoffa con i denti. Quando abbassò la mano, Poppy vide il sangue. Scorreva in un rivolo sottile lungo il braccio dell’amico, talmente rosso da sembrare quasi irreale. Poppy deglutì a fatica e scosse la testa. «Non è così male», le disse pazientemente James. «Devi farlo. Senza il mio sangue dentro di te, non diventerai un vampiro quando morirai. Morirai e basta. Come ogni altra vittima umana». Non aveva il sapore del sangue, o almeno non era come il sapore che aveva sentito quando si era morsa la

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lingua o tagliata un dito. Aveva un gusto… strano. Forte e intenso. Come un magico elisir, pensò Poppy leggermente stordita. E ancora una volta si sentì sfiorare dalla mente di James. Inebriata da quel senso di intimità, continuò a bere. “Va bene così. Devi prenderne molto”, le disse il ragazzo. Ma la sua voce mentale le arrivò più debole di prima. Poppy si mise subito in allarme. “Ma a te cosa succederà?” «Starò bene», le rispose ad alta voce. «È di te che mi preoccupo. Se non ne prendi abbastanza, sarai in pericolo». Be’, era lui l’esperto. E Poppy era felice che quella strana, inebriante pozione continuasse a fluire nel suo corpo. Si crogiolò al calore della luce che sembrava nascere dentro di sé. Si sentiva così tranquilla, serena… E poi, senza preavviso, una voce turbò quella pace, una voce piena di aspro stupore. «Cosa state facendo?», s’intromise, e quando Poppy alzò lo sguardo vide suo fratello sulla soglia della porta.

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Capitolo 6 James entrò subito in azione. Prese il bicchiere di plastica sul comodino e lo porse a Poppy. Lei capì. Ancora stordita e scoordinata nei movimenti, bevve una salutare sorsata d’acqua e si leccò le labbra per eliminare ogni traccia di sangue. «Cosa state facendo?», ripetè Phillip, entrando nella stanza con passi lunghi e decisi. Aveva gli occhi fissi su James, e questo fu un bene, perché Poppy ebbe il tempo di ricomporsi in modo da nascondere il lato del collo con i segni del morso. «Non sono affari tuoi», rispose, e nello stesso istante capì di aver commesso un errore. Phillip, il cui secondo nome era Stabilità, quella sera aveva un’aria decisamente instabile. Mamma glielo ha detto, pensò Poppy. «Cioè, non stiamo facendo niente», tentò di rimediare. Ma non servì. Phil era chiaramente dell’umore adatto per scorgere in qualsiasi cosa una minaccia per la sorella. E non poteva certo biasimarlo – li aveva sorpresi in uno strano abbraccio su uno sgualcito letto d’ospedale. «James mi stava consolando perché ero spaventata», disse. Non tentò nemmeno di spiegare come mai le stesse

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tenendo la testa contro il braccio. Ma lanciò un’occhiata furtiva alla pelle dell’amico e vide che la ferita si era già rimarginata, e il segno stava già sbiadendo. «È tutto a posto, come vedi», confermò James, alzandosi in piedi per rivolgere un argenteo sguardo ipnotizzatore su Phillip. Ma questi lo guardò a malapena: stava fissando la sorella. Non funziona, pensò Poppy. Forse Phil è troppo arrabbiato per lasciarsi ipnotizzare. O troppo cocciuto. Rivolse a James uno sguardo interrogativo, a cui l’amico rispose con un cenno appena percettibile del capo. Neanche lui capiva quale fosse il problema. Ma entrambi sapevano cosa avrebbe comportato: James doveva andarsene. Poppy si sentì delusa e frustrata. Tutto quel che desiderava era parlare con lui, godere dell’inaspettata reciproca scoperta – e non poteva. Non con Phil presente. «Come mai sei qui?», chiese irritata al fratello. «Ho accompagnato mamma in macchina. Sai che non le piace guidare di notte. E ti ho portato questo». Sollevò lo stereo portatile di Poppy e lo mise sul comodino. «E questi». Posò accanto allo stereo un porta-CD nero. «Tutta la tua musica preferita». Poppy sentì la rabbia sbollire. «Sei stato carino», disse. Era commossa, soprattutto perché non aveva detto: «Tutta la tua stramba musica preferita», che era il modo in cui la definiva di solito. «Grazie».

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Phil si strinse nelle spalle, lanciando un’occhiata truce a James. Povero Phil, pensò Poppy. Aveva i capelli spettinati e gli occhi gonfi. «Dov’è mamma?», stava per chiedergli, quando la madre entrò nella stanza. «Sono tornata, tesoro», le disse, con un sorriso festoso, davvero degno di lode. Parve sorpresa di trovare lì l’amico della figlia. «James – sei stato gentile a venire». «Già, ma sta andando via», intervenne Phil in tono eloquente. «Lo accompagno fuori». James decise di non sprecare energie in una lotta che non poteva vincere. Si girò verso Poppy e disse: «Ci vediamo domani». Nei suoi occhi grigi-grigi, non argento, adesso – indugiò uno sguardo che era solo per lei. Uno sguardo che non c’era mai stato prima, in tutti gli anni della loro amicizia. «Arrivederci, James», disse dolcemente. «E… grazie». Sapeva che lui avrebbe capito. Solo quando fu uscito – con Phil alle calcagna come un buttafuori alle prese con un teppista – un pensiero le balenò in mente. James aveva detto che sarebbe stata in pericolo se non avesse preso abbastanza sangue. Ma erano stati interrotti subito. Ne aveva bevuto a sufficienza? E in caso contrario, cosa le sarebbe accaduto?

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Non ne aveva la minima idea, e non c’era modo di domandarlo a James. Phil rimase alle costole di James finchè non furono fuori dall’ospedale. Non stasera, pensò James. Quella sera non poteva proprio affrontare Phillip North. La sua pazienza era esaurita, e la mente era occupata a calcolare se Poppy avesse preso abbastanza sangue. Lui riteneva di sì – ma era meglio che ne bevesse ancora quanto prima. «“Ci vediamo domani” – bene, tu non la vedrai domani», gli disse Phil a muso duro appena entrarono nel garage. «Piantala, Phil». Invece il ragazzo gli sbarrò la strada e s’immobilizzò, costringendo James a fare altrettanto. Aveva il respiro affannato e gli occhi che ardevano di rabbia. «Ok, amico», esordì. «Non so cosa pensi di fare con Poppy - ma finisce qui. D’ora in poi stai lontano da lei. Chiaro?». L’idea di spezzare il collo di Phillip come fosse una matita aleggiò nella mente di James. Ma Phil era il fratello di Poppy, e i suoi occhi verdi erano incredibilmente simili a quelli di lei. «Non farei mai del male a Poppy», replicò stancamente.

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«Tu, piantala. Non mi dirai che non vuoi provarci con lei?». James non riuscì a trovare subito una risposta. Fino al giorno prima avrebbe detto onestamente di no, perché provarci avrebbe comportato una sentenza di morte sia per lui che per Poppy. Solo quando l’amica aveva ricevuto la sua condanna a morte aveva permesso a se stesso di considerare i propri sentimenti. E adesso… adesso si era sentito così vicino a Poppy. Aveva raggiunto la sua mente, e aveva scoperto che era persino più forte e coraggiosa di quanto avesse mai pensato; anche più compassionevole – e più vulnerabile. Voleva rivivere quell’esperienza con Poppy. Teneva così tanto a lei da provare una morsa alla gola. Lui apparteneva a Poppy. Capiva anche che poteva non essere sufficiente. Lo scambio di sangue creava un forte legame fra due persone. Sarebbe stato un errore approfittare di quel vincolo – o della gratitudine di Poppy. Finchè non avesse avuto la certezza che la mente di Poppy fosse libera e che la ragazza fosse in grado di prendere le proprie decisioni, si sarebbe tenuto a debita distanza. Era giusto così. «L’ultima cosa che desidero è farle del male», ripetè. «Perché non mi credi?». Fece un debole tentativo di catturare lo sguardo di Phil, ma fallì, come era accaduto poco prima dentro l’ospedale. Phillip sembrava uno di

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quei rari umani che non potevano essere influenzati mediante il controllo mentale. «Perché non ti credo? Perché ti conosco. Tu e le tue… ragazze». Phil riuscì a pronunciare quest’ultima parola come fosse un’oscenità. «Te ne fai sei o sette l’anno – e quando hai chiuso con loro, le butti via come spazzatura». James si distrasse un attimo, divertito, perché Phil ci aveva colto in pieno. Lui aveva bisogno di sei ragazze l’anno. Dopo due mesi il legame fra loro diventava pericolosamente forte. «Poppy non è la mia ragazza e non ho intenzione di scaricarla», replicò, compiaciuto della propria sagacia. Aveva evitato di dire una totale bugia: Poppy non era la sua ragazza, almeno nel senso normale del termine. Avevano unito le loro anime, tutto qui – ma non avevano parlato di frequentarsi come coppia o roba del genere. «Così mi stai dicendo che non hai intenzione di provarci con lei? È così? Perché faresti meglio a esserne sicuro». Mentre parlava, Phil fece il gesto forse più pericoloso di tutta la sua vita. Agguantò James per la camicia. Stupido umano, pensò James. Considerò brevemente l’idea di rompere ogni osso della mano di Phil. O di sollevarlo da terra e scaraventarlo dall’altra parte del garage contro qualche parabrezza. O…

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«Sei il fratello di Poppy», disse a denti stretti. «Quindi ti do la possibilità di togliere le mani dalla mia camicia». Phil lo fissò per un istante, poi mollò la presa, leggermente scosso. Ma non abbastanza da tenere la bocca chiusa. «Devi lasciarla in pace», disse. «Non capisci. La sua malattia… è grave. In questo momento non ha bisogno di altri casini nella sua vita. Ha bisogno soltanto…». S’interruppe e deglutì a fatica. D’un tratto James si sentì molto stanco. Non poteva biasimare Phil per essere così turbato: la mente del ragazzo era piena di nitide immagini della sorella morente. Di solito James recepiva soltanto immagini generiche di quel che gli umani stavano pensando, ma Phillip le stava trasmettendo con tanta energia da stordirlo. Mezze verità e risposte evasive non avevano funzionato. Era arrivato il momento delle Bugie Totali. Qualsiasi cosa, pur di calmare Phil e districarsi da quella situazione. «So che la malattia di Poppy è grave», disse. «Ho trovato un articolo su Internet. Per questo ero qui, ok? Sono addolorato per lei. Non m’interessa Poppy se non come amica, ma la fa sentire meglio se fingo di provare qualcosa di più per lei». Phillip esitò, guardandolo con severità e sospetto. Poi scosse lentamente la testa. «Una cosa è essere amici, ma non è giusto illuderla. Alla fine, fingere non le sarà di al-

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cun aiuto. Non credo neanche che la faccia sentire meglio adesso – aveva davvero una pessima cera là in ospedale». «Pessima?» «Pallida e tremante. Conosci Poppy; sai come si agita per qualsiasi cosa. Non dovresti giocare con le sue emozioni». Strinse gli occhi e aggiunse: «Quindi forse è meglio se le stai lontano per un po’. Tanto per essere sicuri che non si faccia qualche idea sbagliata». «Se lo dici tu…», disse James. Ma non stava realmente ascoltando. «Ok», disse Phillip. Abbiamo fatto un accordo. Ma ti avverto, se non lo rispetti, te la farò pagare. James non ascoltò neanche queste ultime parole. E fu un errore. Distesa a letto nella stanza buia dell’ospedale, Poppy ascoltava il respiro della madre. Non stai dormendo, pensò, e neanche io. E tu sai che io sono sveglia, e io so che lo sei anche tu… Ma non riuscivano a parlare. Poppy desiderava con tutte le forze che la mamma sapesse che ogni cosa di sarebbe sistemata – ma come? Non poteva rivelare il segreto di James. E anche se avesse potuto, non le avrebbe creduto. Devo trovare il modo, pensò Poppy. Devo. Poi si sentì pervadere da una profonda sonnolenza. Era stata la giornata più lunga della sua vita, ed era piena di sangue

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alieno che stava già operando la sua strana magia all’interno del suo corpo. Non riusciva… proprio non riusciva… a tenere gli occhi aperti. Più volte, nel corso della notte, un’infermiera venne a controllare le funzioni vitali, ma Poppy non si svegliò mai. Per la prima volta dopo settimane, nessun dolore interruppe i suoi sogni. Il mattino dopo aprì gli occhi con un senso di stordimento e di spossatezza. Una nuvola di puntini neri le danzò davanti agli occhi appena si mise a sedere. «Fame?», le chiese la madre. «Ti hanno lasciato il vassoio con la colazione». L’odore delle uova le diede la nausea. Ma siccome la mamma la stava osservando con ansia, giocherellò con un po’ di cibo e poi andò a lavarsi. Di fronte allo specchio del bagno, si esaminò il collo. Sorprendente: non c’era più alcun segno del morso. Quando rientrò nella stanza, trovò la madre in lacrime. Non un pianto dirotto, né singhiozzi. Si tamponava delicatamente gli occhi con un fazzoletto. Ma Poppy non riuscì a sopportarlo. «Mamma, se stai male perché non sai come dirmelo… io lo so già». Pronunciò tutta la frase ancora prima di pensarci. La madre sollevò di scatto la testa, inorridita. Guardò intensamente la figlia, con il viso rigato dalle lacrime. «Tesoro – tu sai… ?»

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«So cosa ho e quanto sia grave», rispose Poppy. Forse era la strategia sbagliata, ma ormai era troppo tardi. «Ho sentito te e Cliff che parlavate con i dottori». «Oh, Signore mio». Che posso dire?, si chiese Poppy. È tutto ok, mamma, perché non morirò; sto per diventare un vampiro. Spero. Non ne sono sicura, perché a volte non si riesce a sopravvivere alla trasformazione. Ma con un po’ di fortuna, dovrei iniziare a succhiare sangue nel giro di poche settimane. A proposito, non aveva chiesto a James quanto tempo ci sarebbe voluto esattamente per completare la trasformazione. La mamma stava facendo respiri profondi, tentando di calmarsi. «Poppy, voglio che tu sappia quanto ti voglio bene. Io e Cliff faremo qualsiasi cosa – qualsiasi – per aiutarti. Proprio ora Cliff sta esaminando alcuni protocolli clinici, cioè studi sperimentali che testano nuove terapie. Se solo riuscissimo a… guadagnare tempo… finchè una cura…». Per Poppy era troppo. Riusciva a sentire il dolore della madre. Nel vero senso della parola. Le arrivava in onde palpabili che sembravano diffondersi nelle sue vene, dandole un senso di vertigine. Sarà quel sangue alieno, pensò. Mi sta… cambiando. Mentre pensava a questo, andò verso la madre. Voleva abbracciarla, e aveva bisogno di aiuto per tenersi in piedi.

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«Mamma, io non ho paura», le disse, con il viso premuto contro la sua spalla. «Non so come spiegartelo, ma non ho paura. E non voglio che tu sia triste per me». La madre la strinse convulsamente a sé, come se la Morte avesse potuto strapparle Poppy dalle braccia in quel preciso istante. E pianse. Anche Poppy pianse. Lacrime vere, perché, anche se non sarebbe realmente morta, avrebbe perso tanto della propria vita. La famiglia, le abitudini, tutto quel che le era più caro. Le fece bene piangere, ne aveva bisogno. Quando non ebbe più lacrime, azzardò un altro tentativo. «L’unica cosa che non voglio è che tu sia triste o preoccupata per me», disse, guardandola negli occhi. «Mi prometti che cercherai di non esserlo? Per amore mio?». Oh, Dio, sembro Beth in Piccole donne, pensò. Santa Poppy. E la verità è che, se stessi davvero per morire, non farei altro che urlare e disperarmi per tutto il tempo. Ciò nonostante, era riuscita a confortare sua madre, che si sciolse dall’abbraccio con il viso segnato dalle lacrime, ma con un’espressione di calma fierezza. «Sei straordinaria, Poppy», fu tutto quel che riuscì a dirle con le labbra tremanti. Santa Poppy distolse lo sguardo, terribilmente imbarazzata – finchè fu colta da un’altra provvidenziale ondata di torpore. Lasciò che la madre la riaccompagnasse a letto.

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E fu allora che trovò finalmente il modo di porre la domanda che le stava a cuore. «Mamma», cominciò a dire, «se ci fosse una cura per me, da qualche parte – come un altro Paese o che so io – e io potessi andare là e stare meglio, ma senza poter mai tornare indietro? Voglio dire, tu sapresti che sto bene, ma non potresti rivedermi mai più». Guardò attentamente la madre. «Cosa vorresti che facessi?». Non dovette attendere a lungo la risposta. «Tesoro, vorrei che tu guarissi, fosse pure sulla Luna. Purchè tu sia felice». Fece una pausa, poi riprese a parlare, con calma. «Ma, cara, non esiste un posto simile. Magari ci fosse». «Lo so». Poppy le diede un colpetto affettuoso sul braccio. «Era solo una domanda. Ti voglio bene, mamma». Più tardi, quella mattina, passarono il dottor Franklin e la dottoressa Loftus. Affrontarli non fu così terribile come aveva immaginato, ma si sentì un’ipocrita quando si meravigliarono del suo “splendido atteggiamento”. Parlarono di qualità di tempo, del fatto che non esistevano due casi identici di cancro, e di gente che aveva sovvertito le statistiche con il decorso della propria malattia. Santa Poppy stava sulle spine, ma ascoltava e annuiva – finchè iniziarono a parlare di ulteriori esami. «Vorremmo sottoporti a un angiogramma e a una laparotomia», disse la dottoressa Loftus. «Un angiogramma è…».

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«Tubi infilati nelle mie vene?», non riuscì a trattenersi Poppy. Tutti rimasero sorpresi. Poi la dottoressa le rivolse un mesto sorriso. «Sembra che tu ti sia già documentata». «No, ho soltanto… credo di averlo letto da qualche parte», concluse Poppy. Sapeva dove l’aveva letto: nella testa della dottoressa Loftus. E probabilmente avrebbe dovuto cercare di dare meno nell’occhio invece di continuare a parlare, ma era troppo angosciata. «E la laparotomia è un’operazione, giusto?». I due dottori si scambiarono un’occhiata. «Un intervento esplorativo, sì», rispose il dottor Franklin. «Ma io non ho bisogno di questi test, no? Sapete già cosa ho. E i test sono dolorosi». «Poppy», intervenne dolcemente la madre. Ma la dottoressa stava già rispondendo con calma. «Be’, a volte abbiamo bisogno di esami per confermare una diagnosi. Ma nel tuo caso… no, Poppy. Non ne abbiamo realmente bisogno. Siamo già sicuri». «Quindi non vedo perché dovrei farli», concluse tranquillamente Poppy. «Preferirei andare a casa». I dottori si scambiarono un’altra occhiata, poi guardarono la madre. Infine, senza neanche mascherare la cosa, uscirono tutti e tre nel corridoio per deliberare. Quando rientrarono nella stanza, Poppy capì di aver vinto.

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«Puoi andare a casa, Poppy», disse semplicemente il dottor Franklin. «Almeno finchè non si manifesteranno altri sintomi. L’infermiera dirà a tua madre come riconoscerli». La prima cosa che fece fu chiamare James. Rispose al primo squillo. «Come ti senti?» «Stordita. Ma piuttosto bene», gli rispose sottovoce per non farsi sentire dalla madre, che era fuori a parlare con l’infermiera. «Torno a casa». «Verrò questo pomeriggio», disse James. «Chiamami quando pensi di avere un’ora tutta per te. E, Poppy… non dire a Phil che passerò». «Perché no?» «Te lo spiego dopo». Quando arrivò a casa trovò una strana atmosfera. Cliff e Phil non erano usciti, e tutti erano insolitamente gentili con lei, pur facendo finta che non fosse accaduto niente di così insolito. (Poppy aveva sentito l’infermiera dire alla mamma che bisognava tentare di rispettare la normale routine). Sembra il mio compleanno, pensò sbalordita. Un compleanno particolarmente importante e la consegna del diploma, tutti e due insieme. Il campanello della porta suonava in continuazione, man mano che venivano consegnate delle composizioni floreali. La camera da letto di Poppy sembrava un giardino.

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Era addolorata per Phil. Aveva un’aria così affranta – e così coraggiosa. Voleva consolarlo come aveva fatto con la mamma – ma in che modo? «Vieni qui», gli intimò, optando per un’azione diretta. E appena il fratello obbedì, lo strinse forte fra le braccia. «Sconfiggerai questa malattia», le sussurrò lui. «So che ci riuscirai. Nessuno ha mai avuto la tua stessa voglia di vivere. E mai nessuno è stato più testardo di te, mai». In quel momento Poppy capì quanto avrebbe sentito la sua mancanza. Si liberò dall’abbraccio provando un senso di vertigine. «Forse faresti meglio a riposarti un po’», le suggerì premurosamente Cliff. E la mamma la accompagnò in camera. «Papà lo sa?», domandò alla madre che si attardava a riordinare la stanza. «Ho cercato di mettermi in contatto con lui ieri, ma alla stazione di polizia hanno detto che si è trasferito da qualche parte nel Vermont. Non sapevano dove». Poppy annuì. Sembrava che suo padre fosse sempre in movimento. Era un DJ – quando non faceva l’artista o l’illusionista. Con la mamma era finita perché non se la cavava bene in nessuna di queste attività – o almeno non abbastanza da guadagnare discretamente. Cliff era il suo esatto opposto: responsabile, rigoroso, diligente lavoratore. Si armonizzava perfettamente con la

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madre e con Phil. Così perfettamente che a volte Poppy si sentiva un’intrusa nella propria famiglia. «Mi manca papà», disse Poppy con un filo di voce. «Lo so. A volte manca anche a me», replicò la mamma, sorprendendola. Poi aggiunse, per rassicurarla: «Lo troveremo, Poppy. Non appena lo saprà, vorrà sicuramente venire». Lo sperava davvero. Immaginava che non avrebbe avuto più occasione di vederlo – dopo. Circa un’ora prima della cena – Cliff e Phil erano usciti per fare qualche commissione e la mamma stava riposando – Poppy approfittò dell’occasione propizia per chiamare James. «Vengo subito», le disse. «Entrerò da solo». Dieci minuti più tardi era nella stanza dell’amica. Poppy provò una strana sensazione d’imbarazzo. Le cose erano cambiate fra lei e James. Non erano più semplici amici. Non si salutarono nemmeno con un “ciao”. Non appena lui entrò in camera, i loro sguardi si cercarono e, per un momento infinito, rimasero semplicemente a fissarsi. Questa volta Poppy avvertì quella fitta nel petto che provava sempre quando vedeva James, e fu un fremito di pura dolcezza. Lui le voleva bene: glielo leggeva negli occhi.

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Aspetta un attimo, fermati, le suggerì la coscienza. Non correre troppo. Ti vuole bene, ma non ha detto di essere innamorato di te. C’è una bella differenza. Taci, si disse saggiamente Poppy. A voce alta, si rivolse all’amico: «Come mai non volevi che Phil sapesse che saresti venuto?». James gettò la leggera giacca a vento sopra una sedia e si sedette sul letto della ragazza. «Be’, non volevo essere interrotto di nuovo», rispose, con un gesto che non lasciava spazio a ulteriori spiegazioni. «Come va il dolore?» «Sparito», disse Poppy. «Non è incredibile? Questa notte non mi ha svegliato. E c’è qualcos’altro. Credo di aver cominciato a… be’, leggere il pensiero degli altri». James accennò un sorriso, sollevando appena un angolo della bocca. «Ottima notizia. Ero preoccupato…». Tacque improvvisamente e andò ad accendere lo stereo. Lamentosi suoni bantu si diffusero nella stanza. «Non ero sicuro che ieri sera avessi bevuto abbastanza sangue», riprese con calma, tornando a sedersi sul letto. «Questa volta dovrai prenderne di più – e anche io». Poppy sentì un fremito. Non provava più repulsione, ma paura sì, paura delle conseguenze. Non era soltanto un modo per entrare in intimità con James o per dargli nutrimento. Si sarebbe trasformata. «Non capisco perché non mi hai mai morso prima d’ora». Lo disse allegramente, ma appena ebbe pronun-

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ciato quelle parole, capì che nascondevano qualcosa di serio. «Voglio dire», precisò, «lo hai fatto con Michaela e con Jacklyn, vero? E con altre ragazze?» James distolse lo sguardo, ma rispose con voce ferma. «Non ho scambiato sangue con loro. Ma mi sono nutrito da loro, sì». «Ma non da me». «No. Come posso spiegarti?» Alzò gli occhi per guardarla. «Poppy, prendere il sangue da altri può significare un sacco di cose differenti – e gli Anziani non vogliono che sia fatto per uno scopo diverso dal nutrimento. Dicono che bisognerebbe provare solo la gioia della caccia. Ed è tutto quel che ho provato anch’io – finora». Poppy annuì, cercando di accontentarsi della spiegazione. Non chiese chi fossero gli Anziani. «Inoltre, può essere pericoloso», continuò James. «Si può mordere con ostilità, e può uccidere. Uccidere per sempre, intendo». Lei sembrò divertita da quell’ultima precisazione. «Tu non uccideresti nessuno». James la guardò intensamente. Fuori, il cielo si era rannuvolato e nella stanza di Poppy la luce era ormai fioca. Anche il volto di James mostrava uno strano pallore, e gli occhi una sfumatura argentea. «Ma l’ho fatto», replicò, con voce fredda e inespressiva. «Ho ucciso perché non ho scambiato una quantità

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sufficiente di sangue, e quella persona non si è risvegliata per una nuova vita da vampiro».

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Capitolo 7 «Allora dovevi avere i tuoi motivi», disse Poppy chiaro e tondo. A quel commento, James la guardò, e lei si strinse nelle spalle. «Ti conosco». Lo conosceva come non aveva mai conosciuto nessuno. Il ragazzo distolse lo sguardo. «Non avevo nessun motivo, ma c’erano alcune… circostanze attenuanti. Si potrebbe dire che mi avevano teso una trappola. Ma ho ancora gli incubi». Le parve così stanco – così triste. È un mondo solitario, pieno di segreti, ricordò Poppy. E lui aveva dovuto tenere nascosto quell’enorme segreto a tutti, lei compresa. «Per te deve essere stato terribile», disse, senza quasi rendersi conto che stava parlando ad alta voce. «Intendo dire, tutta la vita… tenerlo dentro di te. Senza parlarne con nessuno. Fingendo che…». «Poppy». Un brivido rivelò un’emozione repressa da tempo. «Non farlo». «Cosa? Essere solidale con te?». James scosse la testa. «Nessuno mi aveva mai capito prima d’ora». Fece una pausa, poi disse: «Come puoi

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preoccuparti per me? Con tutto quel che stai attraversando?». «Credo perché… ti voglio bene». «E io credo sia questo il motivo per cui non ti ho trattato come Michaela o Jacklyn», replicò. Poppy indugiò con lo sguardo sulle linee scolpite del suo volto, sull’onda di capelli castani che gli ricadevano sulla fronte come seta… e trattenne il respiro. Dì: “Ti amo”, gli ordinò mentalmente. Dillo, stupido testone. Ma non erano in contatto, e James non mostrò il minimo segno di aver recepito il messaggio. Anzi, assunse un’espressione energica e indaffarata. «Sarà meglio cominciare». Si alzò in piedi e chiuse le tende. «La luce del sole inibisce tutti i poteri di un vampiro», le spiegò, con il tono di voce di un professore universitario. Poppy approfittò della pausa per avvicinarsi allo stereo, da cui veniva una musica popolare olandese, ideale per eseguire una danza con i caratteristici saltelli, ma certo non molto romantica. Pigiò un tasto, e un vellutato fado portoghese si levò nell’aria. Tirò i leggeri tendaggi che riparavano il letto. Quando si sedette, lei e James si trovarono nel loro piccolo mondo, velato e appartato, come racchiusi nel biancore confuso di un guscio d’uovo. «Sono pronta», disse dolcemente, e James le si avvicinò. Persino in quella semioscurità, Poppy si sentì ipno-

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tizzata dai suoi occhi. Erano finestre affacciate su un altro mondo, misterioso e distante. Il Mondo delle Tenebre, pensò, e sollevò il mento appena James la prese fra le braccia. Questa volta la doppia puntura nel collo fu un dolore quasi piacevole. Ma fu ancor meglio quando la mente di James si mise in contatto con la sua. Quel segno di profonda unione, d’improvvisa completezza, si diffuse in tutto il suo essere come la luce di mille stelle. Ancora una volta provò la sensazione che si stessero fondendo insieme, annullandosi e amalgamandosi in tutti i punti in cui si toccavano. Sentì il battito del proprio cuore echeggiare dentro James. Più vicini, sempre più vicini… e poi lo sentì allontanarsi da lei. James? Cosa c’è che non va? Niente, le rispose, ma Poppy percepì che non era del tutto vero. Stava cercando di allentare il legame che si stava creando fra loro… ma perché? Poppy, è solo che non voglio costringerti a fare nulla. Quel che stiamo provando è… artificiale… Artificiale? Era la cosa più vera che avesse mai sperimentato. Più vera del vero. In mezzo alla gioia, Poppy provò un moto di rabbia dolorosa nei confronti di James. Non intendevo dire questo, aggiunse lui, e c’era una sorta di disperazione nel suo pensiero. È solo che non

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puoi resistere al legame di sangue. Non potresti resistergli neanche se mi detestassi. Non è leale… A Poppy non interessava la lealtà. Se non puoi resistergli, perché stai cercando di farlo?, gli chiese in tono trionfante. Le giunse qualcosa come una risata mentale; poi si strinsero con forza l’uno all’altra, travolti da un’ondata di pura emozione. Il legame di sangue, pensò Poppy quando James sollevò la testa. Non importa se non vuole dirmi che mi ama – ora siamo legati. E niente potrà cambiare la situazione. Un attimo ancora, e avrebbe suggellato il patto tra loro prendendo il sangue di James. Prova a resistere a questo, pensò, e fu sorpresa di sentirlo ridere sommessamente. «Leggi di nuovo la mia mente?» «Non esattamente. Stai proiettando il tuo pensiero, e ci riesci molto bene. Sarai una persona dotata di forti poteri telepatici». Interessante… ma in quel preciso momento Poppy non si sentiva affatto forte. D’un tratto era debole come un gattino. Cascante come un fiore appassito. Aveva bisogno… «Lo so», le sussurrò James. Sostenendola, si avvicinò il polso alla bocca. Poppy lo trattenne con una mano. «James? Quante volte dovremo farlo prima che io… mi trasformi?».

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«Ancora una, credo», le rispose tranquillamente. «Questa volta ne ho preso molto, e voglio che tu faccia altrettanto. E la prossima volta…». Morirò, pensò Poppy. Be’, almeno so quanto mi è rimasto da vivere come umana. James tese le labbra scoprendo lunghe zanne aguzze e si lacerò la pelle del polso. Lo stesso gesto di un serpente che vibra il colpa fatale alla preda. Il sangue sgorgò dalla ferita, rosso come marmellata di ciliegie. Poppy si era appena protesa in avanti con le labbra dischiuse, quando qualcuno bussò alla porta. I due ragazzi s’irrigidirono, colti in flagrante. Bussarono ancora. Nel suo stato di confusione e di estrema debolezza, Poppy non riuscì a muovere un dito. L’unico pensiero che riecheggiò nella sua mente fu: Oh, ti prego, fa’ che non sia… La porta si aprì. …Phil Suo fratello stava dicendo qualcosa quando si affacciò alla porta. «Poppy, sei sveglia? Mamma dice…». S’interruppe di colpo, poi allungò la mano verso l’interruttore della luce sulla parete. La stanza s’illuminò all’improvviso. Oh, favoloso, pensò Poppy in preda alla sconforto. Phil faceva già capolino fra i leggeri tendaggi che circondavano il letto, e la sorella gli restituì lo sguardo.

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«Cosa-diamine-succede?», domandò, con un tono di voce che gli avrebbe garantito il ruolo del protagonista nel film I dieci comandamenti. Prima che Poppy riuscisse a riprendere sufficiente autocontrollo per dare una risposta, Phil si sporse in avanti e afferrò James per un braccio. «Phil, no», lo implorò Poppy. «Phil, non fare l’idiota…». «Avevamo fatto un patto», ringhiò a James. «E tu l’hai infranto». Adesso anche James aveva afferrato Phil per un braccio, con la stessa rudezza. Poppy ebbe la sgradevole sensazione che i due avrebbero cominciato a prendersi a testate. Oh, Signore, se riuscissi solo a pensare coerentemente. Ma il cervello non voleva saperne di funzionare. «Ti sei fatto un’idea sbagliata», sibilò James a Phil a denti stretti. «Un’idea sbagliata? Arrivo qui e vi trovo tutti e due a letto, con le tende tirate, e tu mi dici che mi sono fatto un’idea sbagliata?» «Sul letto, volle precisare Poppy», ma il fratello non le prestò ascolto. James diede una scrollata a Phil. Lo fece con estrema facilità, con pochi gesti precisi, ma la testa del ragazzo venne sbatacchiata avanti e indietro. Poppy si rese conto che in quel momento James non riusciva ad agire con il

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massimo della razionalità. Si ricordò come aveva piegato la gamba della sedia, e decise che era meglio intervenire. «Lascialo», disse, stendendo le braccia in mezzo ai due litiganti, cercando di afferrare le mani, di chiunque fossero. «Andiamo ragazzi!». Infine come ultima chance: «Phil, capisco che ti è difficile crederlo, ma James sta cercando di aiutarmi…». «Aiutarti? Non credo». Poi, rivolto a James: «Guardala. Non capisci che questa stupida messinscena la fa stare peggio? Ogni volta che la trovo insieme a te è pallida come un lenzuolo. Stai solo peggiorando la situazione». «Tu non ne sai nulla», gli ringhiò in faccia James. Ma Poppy stava ancora elaborando le frasi appena sentite. «Stupida? messinscena?», esclamò. Non lo disse a voce così alta, ma tutti si bloccarono. I due ragazzi si voltarono a guardarla. E fu a quel punto che tutti commisero qualche errore. In seguito, Poppy si rese conto che se ognuno di loro avesse mantenuto la calma, si sarebbe evitato l’inevitabile. Ma nessuno lo fece. «Mi dispiace», disse Phil alla sorella. «Non volevo che tu sapessi…». «Chiudi il becco», lo zittì James. «Ma devo farlo. Questo… bastardo… si sta prendendo gioco di te. Me lo ha confessato. Ha detto che è dispiaciuto per te e pensa che farti credere che tu gli piaci ti

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farà sentire meglio. Ha un ego che potrebbe riempire il Dodger Stadium». «Messinscena?», ripetè Poppy, lasciandosi ricadere sul letto. Sentiva un ronzio nella testa e un’imminente eruzione che le ribolliva nel petto. «Poppy, è assurdo», disse James. «Ascolta…». Ma Poppy non stava ascoltando. Il problema era che sentiva quanto Phil fosse dispiaciuto. Era molto più convincente della rabbia. E Phillip, lo schietto, sincero, affidabile Phillip, non mentiva quasi mai. E ora non stava mentendo. Significava che… era James che mentiva. Fase di eruzione. «Tu…», sibilò a James. «Tu…». Non riusciva a trovare una parola abbastanza offensiva. In qualche modo si sentì più ferita, più tradita di quanto lo fosse mai stata prima. Aveva creduto di conoscere James, si era fidata ciecamente di lui. E questo rendeva il tradimento ancora più meschino. «Così era tutta una messinscena? È così?». Una voce interiore le stava dicendo di aspettare e di riflettere. Non era in condizione di prendere decisioni cruciali. Ma non era neanche in condizione di ascoltare le voci interiori. La rabbia le impediva di decidere se aveva una buona ragione per essere arrabbiata. «E così sei dispiaciuto per me?», sussurrò, e di colpo tutta la furia e l’angoscia che aveva soffocato per un giorno e mezzo tracimarono, abbattendo ogni argine.

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Provava un dolore cieco, e niente più aveva importanza tranne far soffrire James quanto stava soffrendo lei. James stava parlando in fretta, con affanno. «Poppy… per questo non volevo che Phil sapesse…». «E non mi sorprende», infierì Poppy. «E non mi sorprende che tu non mi abbia detto che mi ami», proseguì, senza preoccuparsi che il fratello la stesse ascoltando. «E non mi sorprende che tu mi abbia fatto tutto il resto, ma senza avermi mai baciata. Bene, non voglio la tua pietà…. «Tutto il resto? Quale “tutto il resto”?», gridò Phil. «Io ti ammazzo, Rasmussen!». Si liberò dalla stretta di James e gli sferrò un colpo. Il ragazzo si abbassò di scatto e il pugno arrivò soltanto a sfiorargli i capelli. Phil tornò all’attacco, ma James si piegò di lato e lo afferrò da dietro, bloccandogli la testa. Poppy sentì dei passi affrettati nel corridoio. «Cosa succede?», ansimò la madre sgomenta, entrando nella camera della figlia. Quasi nello stesso istante, Cliff comparve alle spalle della moglie. «Cos’è tutto questo gridare?», volle sapere, con espressione severa. «Sei tu che la stai mettendo in pericolo», stava ringhiando James nell’orecchio di Phil. «In questo preciso momento». Aveva un’espressione feroce, crudele. Inumana.

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«Lascia in pace mio fratello!», urlò Poppy, mentre gli occhi le si riempivano di lacrime. «Oh, mio Dio. Cara…», esclamò la mamma. Con due soli passi raggiunse il letto e prese la figlia fra le braccia. «E voi ragazzi, uscite da qui». L’espressione crudele scomparve dal volto di James, che allentò la presa su Phil. «Ascolta, mi dispiace. Devo restare, Poppy…». Phillip gli assestò una gomitata nello stomaco. Non doveva avergli fatto male quanto ne avrebbe fatto a un umano, ma Poppy vide la furia riaccendersi negli occhi del giovane appena riuscì a raddrizzare la schiena. Sollevò Phil da terra e lo scaraventò di testa in direzione del cassettone. La madre lanciò un grido. Cliff andò a frapporsi fra i due litiganti. «Adesso basta!», tuonò. Poi, rivolto a Phil: «Stai bene?», e a James: «Che storia è questa?». Phil si stava massaggiando la testa con aria incredula. James era rimasto in silenzio. Poppy non riuscì a dire nulla. «Va bene, non importa», concluse Cliff. «Immagino che siamo tutti un po’ tesi. Ma faresti meglio a tornare a casa, James». Il ragazzo guardò Poppy.

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Lei fremeva, percorsa da una sofferenza sorda e pulsante, come se avesse un dente infiammato; gli voltò la schiena, nascondendosi fra le braccia della madre. «Tornerò», disse James senza scomporsi. Forse voleva essere una promessa, ma suonò come una minaccia. «No, non farti vedere per un po’», rimarcò Cliff con tono autoritario. Sbirciando sopra il braccio della madre, Poppy vide che c’era del sangue sui capelli biondi del fratello. «Credo che tutti abbiamo bisogno di raffreddare gli animi. E ora, andiamo, muoviti». Accompagnò James alla porta. Poppy tirò su con il naso e rabbrividì, tentando di ignorare il senso di vertigine che l’aveva invasa e il concitato mormorio di voci nella testa. Lo stereo stava suonando a tutto volume musica madcore inglese. Nei due giorni successivi James telefonò otto volte. Poppy in realtà rispose soltanto la prima volta. Era appena passata la mezzanotte quando suonò l’apparecchio della sua linea privata. Ancora in dormiveglia, rispose meccanicamente. «Poppy, non riagganciare», le disse James. E lei riagganciò. Un attimo dopo il telefono squillò di nuovo. «Poppy, se non vuoi morire, devi ascoltarmi».

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«Questo è un ricatto. Sei disgustoso», lo apostrofò Poppy, stringendo forte l’apparecchio. Aveva la lingua impastata e le doleva la testa. «È la verità. Ascolta, Poppy. Oggi non hai bevuto sangue. Quello che ti ho preso io ti ha indebolito, e tu non ne hai avuto in cambio. E questo potrebbe ucciderti». Poppy ascoltò le parole, ma non le sembrarono reali. Le lasciò cadere e si ritirò in uno stato nebuloso dove pensare era impossibile. «Non m’importa». «Deve importarti, e se riuscissi a ragionare, lo capiresti. È la trasformazione in corso che ti fa stare così. Hai la mente totalmente confusa. Sei talmente paranoica e irrazionale e instabile che non ti rendi conto di esserlo». La spiegazione corrispondeva in modo sospetto a quel che provava. Era vagamente consapevole che si stava comportando come Marissa Schaffer, quando aveva bevuto una confezione di birra da sei alla festa di Capodanno di Jan Nedjar. Un’idiota farneticante. Ma sembrava non riuscisse a evitarlo. «Voglio sapere soltanto una cosa», disse. «È vero che ha detto quelle cretinate a Phil?». Sentì James sospirare. «È vero che lo ho dette. Ma quel che ho detto non è vero. L’ho fatto solo perché Phil la smettesse di assillarmi». Ma ormai Poppy era troppo sconvolta anche solo per desiderare di calmarsi.

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«Perché dovrei credere a un ragazzo la cui vita è tutta una menzogna?», disse, e riagganciò appena sentì cadere la prima lacrima. Per tutto il giorno successivo rimase nel suo stato di nebuloso rifiuto. Niente le sembrava reale: né il litigio con James, né l’avvertimento che le aveva dato, né la propria malattia. Soprattutto quella. La mente aveva trovato il modo di accettare il trattamento premuroso che tutti le riservavano senza soffermarsi sul motivo di tante attenzioni. Riuscì persino a non badare ai commenti sul suo rapido peggioramento che la mamma sussurrava a Phil: i lamenti su come la povera Poppy stesse diventando sempre più esangue, debole, instabile. E soltanto Poppy sapeva che riusciva a sentire quel che dicevano nel corridoio come se stessero parlando nella sua camera. Tutti i suoi sensi si erano affinati, anche se la mente era offuscata. Si sgomentava ogni volta che vedeva la propria immagine riflessa nella specchio, così pallida, la pelle traslucida come la cera di una candela. E i suoi occhi così verdi e intensi che sembravano ardere. Le altre sei volte che James chiamò, la madre gli disse che Poppy stava riposando. Cliff osservò le finiture rotte del cassettone. «Chi avrebbe mai detto che quel ragazzo fosse così forte?».

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James chiuse il cellulare e battè il pugno sul cruscotto della Integra. Era giovedì pomeriggio. Ti amo. Questo avrebbe dovuto dire a Poppy. E adesso era troppo tardi – lei non voleva neanche parlargli. Perché non lo aveva detto? Ora le sue ragioni gli sembrarono stupide. Così aveva approfittato dell’ingenuità e della gratitudine di Poppy… bene, bravo. Era riuscito solo a spillare sangue dalle sue vene e a spezzarle il cuore. Era riuscito solo ad accelerare la sua morte. Ma non era il momento di pensarci: adesso doveva interpretare una farsa. Scese dalla macchina e si aggiustò la giacca a vento con uno strattone, avviandosi verso la gigantesca casa in stile ranch. Aprì la porta ed entrò senza annunciare il proprio arrivo. Non aveva bisogno di chiamare ad alta voce: sua madre lo avrebbe “sentito”. All’interno risaltavano i soffitti spioventi e le pareti elegantemente spoglie. L’unica eccentricità era data dai molti lucernari velati da raffinati drappi fatti su misura. In tal modo l’ambiente appariva spazioso ma poco illuminato. Ricordava.. un antro. «James», lo salutò la madre, arrivando dall’ala sul retro della casa. Aveva i capelli neri e lucidi come l’ebano, e perfette forme che venivano enfatizzate e non certo dissimulate dalla veste ricamata in oro e argento. Gli occhi

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orlati da lunghe ciglia erano di un freddo grigio, come quelli di James. Baciò il figlio senza neanche sfiorargli le guance. «Ho ricevuto il tuo messaggio», le disse. «Cosa vuoi?». «Preferirei aspettare che tuo padre torni a casa…». «Mamma, mi dispiace, ma io ho fretta. Ho delle cose da fare – oggi non ho neanche mangiato». «Si vede», replicò la madre. Lo osservò un momento senza battere ciglio. Poi sospirò, dirigendosi verso il soggiorno. «Siediti, almeno… Sei un po’ turbato in questi ultimi giorni, non è vero?». James sedette sul divano cremisi in pelle scamosciata. Era arrivato il momento di mettere alla prova le sue capacità di attore. Se fosse riuscito a superare il minuto successivo senza che la madre intuisse la verità, era fatta. «Sono sicuro che papà ti avrà spiegato il perché», disse con voce calma. «Già. La piccola Poppy. È davvero increscioso, non trovi?». Il paralume dell’unica lampada a stelo era di colore rosso intenso, e una luce vermiglia illuminava metà del viso della madre. «All’inizio ero sconvolto, ma adesso mi è praticamente passata», disse James. Mantenne un tono inespressivo e si concentrò per non inviare niente – niente – attraverso la propria aura. Avvertiva i tentativi appena accennati della madre di sondare la sua mente. Come un in-

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setto che ti sfiora con le sue antenne, o un serpente che annusa l’aria con la nera lingua biforcuta. «Mi sorprende», commentò lei. «Pensavo che ti fosse sempatica». «È così. Ma, dopo tutto, non si tratta di persone nel vero senso della parola, no?». Si fermò a riflettere un istante, poi aggiunse: «È come perdere un animale domestico. Dovrò semplicemente trovarne un’altra». Fu una mossa audace, citare la “linea del partito”. James s’impose di mantenere ogni muscolo rilassato, mentre sentiva i tentacoli del pensiero della madre stringersi intorno a sé, avvolgerlo, in cerca di un punto debole. Concentrò il proprio pensiero su Michaela Vasquez, tentando di trasmettere la giusta quantità di superficiale affettuosità. Funzionò. La madre ritirò i tentacoli dalla sua mente e si accomodò sul divano, sorridendogli. «Sono felice che tu la stia prendendo così bene. Ma se mai dovessi sentire il bisogno di parlarne con qualcuno… tuo padre conosce alcuni psicoterapeuti veramente in gamba». Psicoterapeuti vampiri, voleva dire. Per ficcargli in testa che gli umani non servono altro che a nutrirsi. «So che vuoi evitare seccature quanto me», aggiunse lei. «Si ripercuotono sulla famiglia, capisci». «Certo», la rassicurò James, scrollando le spalle. «Ora devo andare. Saluta papà da parte mia, ok?».

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Questa volta fu James a baciarla senza neanche sfiorarle le guance. «Oh, a proposito», gli disse mentre si avviava verso la porta. «Tuo cugino Ash verrà la prossima settimana. Penso che gradirà stare con te, nel tuo appartamento – e sono sicura che ti farà piacere un po’ di compagnia». Dovrà passare sul mio cadavere, pensò James. Si era completamente dimenticato del pericolo rappresentato da quella visita. Ma ora non aveva tempo per discuterne. Uscì, sentendosi come un giocoliere con troppe palle da far ruotare in aria. Tornato in macchina, prese il cellulare, esitò, poi lo richiuse senza accenderlo. Continuare a telefonare non sarebbe servito a niente. Era ora di cambiare strategia. Bene. Niente più mezze misure. Un’offensiva decisa – diretta al punto in cui avrebbe ottenuto l’esito migliore. Si fermò qualche minuto a escogitare un piano, poi guidò fino a McDonnel Drive e parcheggiò l’auto a poche case di distanza da quella di Poppy. E rimase in attesa. Era pronto a restare lì seduto anche tutta la notte, se necessario, ma non ce ne fu bisogno. Verso il tramonto, la porta del garage si aprì e una Volkswagen Jetta bianca uscì in retromarcia. James vide una testa bionda al posto del guidatore.

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Ciao, Phil. Che piacere vederti. Quando la Jetta si avviò, la seguì.

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Capitolo 8 La Jetta entrò nel parcheggio di un 7-Eleven, e James sorrise soddisfatto. Dietro il negozio c’era una bella area isolata, e stava facendo buio. Svoltò anche lui, poi scese dalla macchina per tenere d’occhio l’entrata. Appena Phil uscì con una busta piena, lo assalì da dietro. Il ragazzo urlò e cercò di divincolarsi, lasciando cadere la busta a terra. Ma non servì a nulla. Il sole era ormai calato e James era nel pieno delle forze. Trascinò Phil sul retro e lo mise con la faccia al muro, accanto a un cassonetto di rifiuti. La classica posizione imposta dalla polizia per eseguire una perquisizione. «Adesso ti lascerò libero. Non cercare di scappare. Sarebbe un errore». Al suono della sua voce, Phil s’irrigidì. «Non voglio scappare. Voglio spaccarti la faccia, Rasmussen». «Avanti, provaci». James stava per aggiungere: «Fammi passare una serata divertente», ma ci ripensò. Lasciò la presa, e Phil si girò a guardarlo con totale disprezzo. «Che ti succede? Sei a corto di ragazze cui saltare addosso?», disse, respirando con difficoltà.

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James digrignò i denti. Scambiarsi insulti non sarebbe servito a niente, ma sapeva già che sarebbe stata dura mantenere la calma. Phil gli faceva sempre quell’effetto. «Non ti ho portato qui per litigare, ma per farti una domanda. Ci tieni a Poppy?» «Questa sì che è una domanda idiota», rispose Phil, muovendo la spalla come se si preparasse a tirare un pugno. «Perché se ci tieni davvero, devi farla parlare con me. Sei stato tu che l’hai convinta a non vedermi, e adesso tocca a te convincerla che deve incontrarmi». Phil si guardò intorno, come se cercasse un testimone di tanta insensatezza. James parlò lentamente ma con decisione, scandendo ogni singola parola. «Posso fare qualcosa per aiutarla». «Perché tu sei Don Giovanni, giusto? La guarirai con il tuo amore». Il tono era frivolo, ma la voce di Phil tremava di puro odio. Non solo nei confronti di James, ma anche di un mondo ingiusto che aveva colpito Poppy con il cancro. «No. Sei completamente fuori strada. Senti, tu pensi che io me la sia portata a letto, o abbia giocato con i suoi sentimenti o chissà cos’altro. Non è affatto così. Te l’ho lasciato credere perché ero stufo che tu mi facessi sempre il terzo grado – e perché non volevo che tu capissi quel che noi stavamo facendo».

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«Certo, certo», commentò Phil, con la voce carica in egual misura di sarcasmo e di disprezzo. «E allora cosa stavate facendo? Droga?» «Diciamo così». James aveva imparato la lezione dopo la prima visita a Poppy in ospedale: prima mostra, poi spiega. Questa volta non disse niente. Afferrò Phil per i capelli e gli tirò indietro la testa. C’era solo un lampione dietro il negozio, ma fu sufficiente perché Phil scorgesse i canini affilati che incombevano su di lui. E di certo fu più che sufficiente per James, che grazie alla sua capacità di visione notturna, potè vedere nel dettaglio le pupille dilatarsi negli occhi sgranati del ragazzo. Phillip urlò, poi parve sul punto di crollare. Non per la paura, James lo sapeva. Non era un codardo. Ma per il repentino passaggio dall’incredulità alla certezza. Imprecò. «Tu sei…». «Esatto». James lo lasciò andare. Sul punto di perdere l’equilibrio, Phil si aggrappò al cassonetto. «Non ci credo». «Devi crederci», ribadì James. Non aveva ancora retratto i canini, e sapeva che i suoi occhi emanavano luce argentea. Doveva crederci, con James proprio davanti a lui.

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Phil sembrava pensarla allo stesso modo. Continuava a fissare James come se volesse distogliere lo sguardo ma non ci riusciva. Era sbiancato, e continuava a deglutire nervosamente come se stesse per vomitare. «Dio», disse alla fine. «Sentivo che in te c’era qualcosa che non andava. Qualcosa di strano. Non riuscivo a capire perché mi dessi i brividi. Ecco cos’era». Prova disgusto per me, si rese conto James. Non è più semplice astio. Pensa che io non sia un essere umano. Non era di buon auspicio per il piano che aveva escogitato. «Ora hai capito come potrei aiutare Poppy?». Phil scosse lentamente la testa. Era appoggiato al muro, con la mano ancora aggrappata al cassonetto. Provò un moto d’impazienza. «Poppy ha una malattia. I vampiri non si ammalano. Ti devo fare un disegnino?» A giudicare dall’espressione di Phil, sembrava proprio di sì. «Se», cominciò James senza usare mezzi termini, «scambio una quantità sufficiente di sangue con Poppy fino a trasformarla in vampiro, non avrà più il cancro. Ogni cellula del suo corpo cambierà e finirà per renderla un esemplare perfetto: senza difetti né malattie. Avrà poteri che gli umani non si sognano nemmeno. E, a proposito, diventerà immortale». Ci fu un lungo, lunghissimo silenzio mentre James aspettava che il concetto venisse recepito da Phil. I pen-

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sieri del ragazzo erano troppo confusi e mutevoli perché potesse decifrarli, ma i suoi occhi si spalancarono ancora di più e le ultime tracce di colore svanirono dalla sua faccia. Alla fine, Phil disse: «Non puoi farle questo». Fu il modo in cui lo disse. Non come se stesse contestando un’idea troppo radicale, o troppo insolita. Né come la reazione impulsiva ed esagerata che aveva avuto Poppy. Lo disse con convinzione assoluta e totale orrore. Come se James avesse minacciato di rubare l’anima alla sorella. «È l’unico modo per salvarle la vita», confermò James. Phil scosse ancora la testa, lentamente, gli occhi aperti e fissi come in stato di trance. «No. No. Lei non vorrebbe. Non a quel prezzo». «Quale prezzo?» Adesso James non era solo impaziente, ma esasperato e diffidente. Se avesse saputo che l’incontro con Phil sarebbe sfociato in un dibattito filosofico, avrebbe scelto un luogo più appartato. Lì doveva tenere tutti i sensi all’erta per individuare possibili intrusi. Phil mollò la presa sul cassonetto e si raddrizzò in piedi. I suoi occhi tradivano un misto di paura e di orrore, ma riuscì a guardare James dritto in faccia.

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«È che ci sono cose che gli umani considerano più importanti del rimanere in vita», cercò di spiegargli. «Lo scoprirai». Non ne sarei così certo, pensò James. Phil sembrava un giovane comandante di un’astronave che parlava agli invasori alieni in un film di serie B. Scoprirete che gli abitanti della Terra non sono così sprovveduti come pensate. Non potè fare a meno di alzare la voce: «Ma sei matto? Senti, Phil, sono nato a San Francisco. Non sono un mostro con gli occhi sporgenti venuto da Alfa Centauri. Mangio cereali a colazione». «E che mi dici dello spuntino di mezzanotte?», chiese Phil, con un’espressione triste e innocente negli occhi verdi. «Oppure le zanne sono solo decorative?». Sono caduto dritto in trappola, si disse James. Distolse lo sguardo, a disagio. «Ok. Touchè. Esistono delle differenze. Non ho mai detto di essere un umano. Ma non sono un…». «Se non sei un mostro, allora non so come definirti». Non ucciderlo, si ripetè freneticamente James. Devi convincerlo. «Phil, non siamo come i vampiri dei film. Non siamo onnipotenti. Non possiamo attraversare i muri o viaggiare nel tempo, e non abbiamo bisogno di uccidere per nutrirci. Non siamo malvagi, almeno non tutti. Né siamo dannati».

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«Siete contro natura», riprese Phil con calma, e James percepì che lo stava dicendo dal profondo del cuore. «Siete mostruosi. Non dovreste esistere». «Perché occupiamo un posto più alto rispetto a voi nella catena alimentare?» «Perché la gente non è nata per… nutrirsi… di altra gente». James non precisò che la propria gente non considerava “gente” gli umani come Phillip. Disse: «Facciamo solo quel che ci è necessario per sopravvivere. E Poppy è già d’accordo». Phillip raggelò. «No. Non vorrebbe mai diventare come te». «Vuole vivere – o, almeno, lo voleva prima che s’infuriasse con me. Adesso non riesce a ragionare perché non ha preso da me sangue sufficiente a completare la sua trasformazione. Grazie a te». Fece una pausa, poi disse, volutamente: «Hai mai visto un cadavere di tre settimane, Phil? Perché è questo che diventerà se non vado da lei». Phil fece una smorfia. Si girò di scatto e battè il pugno contro il fianco metallico del cassonetto. «Credi che non lo sappia? È una realtà con cui convivo da lunedì sera». James rimase immobile, ascoltando i battiti del proprio cuore. Percependo l’angoscia che Phil emanava insieme alla sofferenza per la mano dolorante. Trascorsero

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alcuni secondi prima che riuscisse a dire con calma: «E pensi che sia meglio di quel che posso offrirle io?» «È terribile. È inaccettabile. Eppure è meglio che trasformarsi in un essere che dà la caccia alla gente. Che usa la gente. Ecco perché passavi da una ragazza all’altra, eh?». Ancora una volta, James non riuscì a rispondere subito. Il problema di Phil era che pensava troppo ed era troppo sveglio. «Già. Ecco perché passo da una ragazza all’altra», disse alla fine, seccato. Cercando di non considerare la faccenda dal punto di vista di Phil. «Dimmi solo una cosa, Rasmussen». Phillip raddrizzò le spalle e lo guardò dritto negli occhi. «Ti sei mai…», deglutì a fatica, «nutrito da Poppy – prima che si ammalasse?» «No». Phil fece un profondo respiro. «Buon per te. Perché se l’avessi fatto, ti avrei ucciso». James non ne dubitò. Lui era più forte di Phil, molto più veloce, e non aveva mai temuto un umano prima d’allora. Ma in quel momento seppe con certezza che Phil avrebbe trovato il modo di farlo. «Senti, non hai capito», gli disse. «È Poppy che ha scelto, ed è un processo che abbiamo già avviato. La trasformazione di Poppy è solo all’inizio; se muore adesso, non diventerà un vampiro. Ma potrebbe anche non morire del tutto, e finirebbe per diventare un cadavere ambu-

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lante. Uno zombi, capisci? Priva della ragione. Un corpo putrido, ma immortale». Le labbra di Phil tremarono di ribrezzo. «Lo stai dicendo solo per spaventarmi». James girò la testa dall’altra parte. «L’ho visto accadere». «Non ti credo». «L’ho visto con i miei occhi!». James si rese vagamente conto di aver gridato e afferrato Phil per la maglietta. Aveva perso il controllo – e non gliene importava nulla. «L’ho visto accadere a una persona che amavo, chiaro?» Poi, vedendo che Phil continuava a scuotere il capo, continuò: «Avevo quattro anni. Era la mia tata. Tutti i bambini delle famiglie ricche di San Francisco ne avevano una. Era un’umana». «Lasciami», mormorò Phil, strattonando il polso di James. Respirava a fatica e non voleva ascoltare oltre. «Le volevo un bene incredibile. Mi dava tutto quel che mia madre non era capace di darmi. Amore, attenzione – aveva sempre tempo per me. La chiamavo signorina Emma». «Lasciami». «Ma i miei genitori pensavano che io mi fossi attaccato troppo a lei. E mi portarono a fare una breve vacanza – senza darmi niente per nutrirmi. Per tre giorni. Quando mi riportarono a casa, stavo morendo di fame.

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Mandarono la signorina Emma in camera mia perché mi mettesse a letto». Phil non cercò più di divincolarsi. Rimase immobile, con la testa china e girata di lato, per non dover guardare James negli occhi. Il vampiro continuò a parlare a quel viso rivolto altrove. «Avevo solo quattro anni. Non riuscii a fermarmi. E il fatto è che volevo fermarmi. Se mi avessero chiesto chi avrei voluto che morisse, io o la signorina Emma, avrei risposto “io”. Ma quando sei affamato, perdi il controllo. Così mi nutrii da lei, piangendo per tutto il tempo e cercando di fermarmi. E quando finalmente ci riuscii, capii che era troppo tardi». Fece una pausa, rendendosi conto d’un tratto di avere le dita contratte in uno spasmo di dolore. Lentamente, mollò la presa sulla maglietta di Phil. Il ragazzo non disse niente. «Era là, distesa sul pavimento. Pensai: Aspetta, se le do il mio sangue diventerà un vampiro, e si sistemerà tutto». James aveva abbassato la voce. In realtà non si stava rivolgendo a Phil, ma fissava un punto indefinito nel buio del parcheggio. «Così mi sono fatto un taglio e ho fatto colare il sangue nella sua bocca. Ne ha inghiottito un po’ prima che i miei genitori salissero in camera mia a fermarmi. Ma non è stato sufficiente». Ci fu una pausa più lunga – poi James si ricordò perché stava raccontando quella storia, e guardò Phillip.

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«Morì quella notte – ma non del tutto. I due tipi diversi di sangue facevano a pugni dentro di lei. Così la mattina dopo era di nuovo in piedi – ma non era più la signorina Emma. Sbavava dalla bocca, la pelle era diventata grigia e gli occhi erano spenti come quelli di un cadavere. E quando cominciò a… putrefarsi, mio padre la portò a Inverness e la seppellì. Dopo averla uccisa». James sentì in gola il sapore amaro della bile e aggiunse, quasi in un sussurro. «Mi auguro che prima l’abbia uccisa». Phil girò piano la testa e lo guardò. Per la prima volta, quella sera, l’espressione del suo volto non mostrava solo paura e orrore. C’era qualcosa che assomigliava alla compassione, pensò James. Prese un profondo respiro. Dopo tredici anni di silenzio era finalmente riuscito a raccontare quella storia – a Phillip North, proprio a lui. Ma era inutile domandarsi il perché di quell’assurdità. Aveva un punto da chiarire. «Quindi accetta il mio consiglio. Se non convinci Poppy a incontrarmi, assicurati che non le facciano un’autopsia. Non vorrai vederla andare i giro senza gli organi interni. E tieni pronto un palo di legno per quando non potrai più sopportare di vederla in quello stato.» Ogni pietà era sparita dagli occhi di Phil. La bocca era una linea tesa e tremante. «Non permetteremo che si trasformi… in una sorta di abominio semivivo», disse. «O in un vampiro. Mi di-

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spiace per quel che è accaduto alla tua signorina Emma, ma questo non cambia niente». «Dovrebbe essere Poppy a decidere…». Ma Phil aveva raggiunto il proprio limite di sopportazione, e continuava a scuotere la testa. «Stai lontano da mia sorella», disse. «Non ti chiedo altro. Se lo farai, ti lascerò in pace. Ma se non lo farai…». «Cosa?» «Dirò a tutti qui a El Camino che cosa sei. Chiamerò la polizia e il sindaco, e mi piazzerò in mezzo alla strada e lo urlerò ad alta voce». James sentì gelarsi le mani. Quel che Phil non capiva era che aveva messo James nella condizione di doverlo uccidere. Non era strettamente necessario che ogni umano che avesse conosciuto per caso i segreti del Mondo delle Tenebre morisse; ma chi minacciava seriamente di rivelarli, doveva morire subito, senza alcuna spiegazione, senza alcuna pietà. D’un tratto James si sentì sopraffare dalla stanchezza. «Vattene, Phil», gli disse, con una voce priva di energia e di ogni emozione. «Adesso. E se davvero vuoi proteggere Poppy, non dirai niente a nessuno. Perché risaliranno a lei e scopriranno che conosce i segreti. E la uccideranno – dopo averla sottoposta a un interrogatorio. Non sarà divertente». «Chi lo farà i tuoi genitori?»

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«Il Popolo delle Tenebre. Sono intorno a te, Phil. Potrebbe essere uno qualunque dei tuoi conoscenti, compreso il sindaco. Quindi tieni la bocca chiusa». Phillip lo guardò a occhi stretti, poi si girò e si diresse verso la facciata del negozio. James non avrebbe saputo dire da quanto tempo non si sentiva così svuotato. Tutti i suoi tentativi erano falliti. Poppy adesso era ancora più in pericolo di quanto avesse potuto prevedere. E Phillip North pensava che lui fosse un mostro malvagio. Ma quello che non sapeva era che spesso James la pensava allo stesso modo. Era già a metà strada quando si ricordò di aver lasciato nel parcheggio la busta con il succo di mirtilli e i ghiaccioli alla ciliegia per Poppy. Negli ultimi due giorni la sorella aveva a malapena toccato il cibo, e anche quando aveva manifestato un po’ di appetito aveva sempre richiesto alimenti particolari. No – chiedeva solo cose rosse, realizzò di colpo mentre pagava il conto per la seconda volta alla cassa del 7Eleven. Provò un moto di nausea. Tutto quel che desiderava ultimamente era rosso e, come minimo semiliquido. Ma Poppy se ne rendeva conto? Quando entrò nella sua camera per darle i ghiaccioli, la osservò attentamente. Ormai Poppy passava la maggior parte del tempo a letto.

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Ed era così pallida e inespressiva. Solo gli occhi verdi conservavano ancora un barlume di vita. Risaltavano sul viso, risplendendo di una consapevolezza quasi feroce. Cliff e la mamma parlavano di assumere infermiere che la potessero seguire giorno e notte. «Non ti va un ghiacciolo?», le chiese Phil, avvicinando una sedia al letto della sorella. Poppy guardò il ghiacciolo con una sorta di ripugnanza. Gli diede una leccatina e fece una smorfia. Il fratello continuò ad osservarla. Un’altra leccatina. Poi posò lo spuntino in una coppa di plastica vuota sul comodino. «Non so… è che non ho fame», disse, appoggiandosi di nuovo al cuscino. «Mi dispiace che tu sia uscito per niente». «Non c’è problema». Dio, ha un aspetto orribile, pensò Phil. «C’è qualcos’altro che posso fare per te?». Poppy scosse la testa, con gli occhi chiusi. Un cenno appena percettibile. «Sei un bravo fratello», disse, senza alcuna emozione. Era così piena di vita, pensò Phil. Papà la chiamava Chilowatt o Duracell. Lei irradiava energia. Senza averne la minima intenzione, Phil si trovò a dirle: «Oggi ho visto James Rasmussen». Poppy s’irrigidì. Serrò le dita sul copriletto, stringendo i pugni. «Farà meglio a stare alla larga da qui!». C’era qualcosa di oscuramente insolito nella sua reazione. Qualcosa che non le apparteneva. Poppy poteva

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essere dura, certo, ma prima d’allora, Phil non aveva mai colto quel tono crudele nella sua voce. Un’immagine balenò nella mente di Phil. Una creatura del film La notte dei morti viventi, che camminava pur avendo le budella di fuori. Un cadavere vivente, come la signorina Emma di James. Sarebbe accaduta la stessa cosa a Poppy se fosse morta in quel momento? Si era già trasformata fino a quel punto? «Se osa presentarsi qui, gli cavo gli occhi!», esclamò Poppy, aprendo e chiudendo le dita come un gattino che chiede il latte. «Poppy – mi ha detto tutta la verità su di sé, su quello che è». Stranamente, Poppy non ebbe alcuna reazione. «È una canaglia», disse. «Una serpe». Qualcosa nella voce della sorella fece venire a Phil la pelle d’oca. «E gli ho detto che tu non vorresti mai diventare come lui». «No che non lo vorrei», tagliò corto Poppy. «Se poi dovessi andare in giro con lui per l’eternità. Non voglio vederlo mai più». Phil la fissò per un lungo momento. Poi si abbandonò sulla sedia e chiuse gli occhi, premendosi il pollice sulla tempia: il dolore alla testa era quasi insopportabile. Non c’era solo qualcosa di oscuramente insolito. Non voleva crederci, ma Poppy era strana. Irrazionale. E

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adesso che ci pensava, lo era diventata ogni momento di più da quando James era stato allontanato. Allora, forse si trovava realmente in un misterioso stadio intermedio. Non più umana, ma neanche vampiro. E non era in grado di ragionare. Proprio come aveva detto James. Deve essere Poppy a decidere. Doveva assolutamente chiederle una cosa. «Poppy?». Aspettò che lo guardasse, con gli occhi verdi dilatati e fissi. «Quando ho parlato con James, mi ha detto che eri d’accordo sul fatto che lui ti trasformasse. Prima che t’infuriassi con lui. È vero?». Poppy inarcò le sopracciglia. «Ce l’ho a morte con lui», confermò, come se fosse l’unica parte della domanda che avesse registrato. «E sai perché tu mi piaci? Perché l’hai sempre detestato. E adesso siamo in due». Phil riflettè per un momento, poi ricominciò, soppesando le parole. «Ok. Ma quando non ce l’avevi con lui, in passato, volevi che ti rendesse… come lui?». D’un tratto un barlume di razionalità brillò negli occhi della ragazza. «Non volevo morire, tutto qui», disse. «Ero così spaventata… e volevo vivere. Se i dottori avessero potuto fare qualcosa per me, avrei tentato. Ma non possono fare nulla». Si era tirata su a sedere, e fissava un punto nello spazio, dove sembrava le fosse apparso qualcosa di orribile. «Non puoi capire come ci si sente quando sai che stai per morire», sussurrò.

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Phil si sentì invadere da un’ondata di gelo. No, non sapeva come ci si sentiva, ma sapeva – riusciva a immaginarlo chiaramente – come sarebbe stata la vita per lui dopo, quando Poppy non ci sarebbe stata più. Quanto gli sarebbe parso vuoto e insignificante il mondo senza di lei. Rimasero a lungo in silenzio. Alla fine Poppy si abbandonò stancamente sui cuscini. Phillip notò delle ombre livide sotto gli occhi della sorella, come se la conversazione l’avesse sfinita. «Non credo sia importante», disse lei con voce flebile ma paurosamente euforica. «Non morirò comunque. I dottori non sanno sempre tutto». Quindi è così che sta affrontando la situazione, pensò Phil. Rifiuto totale. Adesso aveva tutte le informazioni che gli occorrevano. E sapeva cosa doveva fare. «Ora ti lascio riposare un po’», disse a Poppy, dandole un buffetto sulla mano. Era fredda e fragile, con le ossa sottili come l’ala di un uccello. «Ci vediamo più tardi». Sgusciò fuori dalla casa senza dire a nessuno dove fosse diretto. Una volta in macchina, schiacciò a fondo l’acceleratore. Dopo soli dieci minuti aveva raggiunto il residence. Non era mai stato nell’appartamento di James prima d’allora. James lo accolse con un freddo: «Che di fai qui?»

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«Posso entrare? Devo parlarti». Indietreggiò con aria assente, e lo lasciò entrare. L’ambiente era vasto e spoglio. C’era un’unica sedia accanto a un tavolo ingombro di carte e oggetti, una scrivania altrettanto in disordine, e un antiestetico divano squadrato. Scatoloni pieni di libri e CD erano incatastati negli angoli. Una porta dava su una spartana camera da letto. «Cosa vuoi?» «Prima di tutto, voglio spiegarmi. So che non puoi evitare di essere quello che sei, come io non posso evitare di provare quel che provo al riguardo. Tu non puoi cambiare, e neanche io. Ho bisogno che sia chiaro fin dall’inizio». James incrociò le braccia, con un atteggiamento circospetto e sprezzante allo stesso tempo. «Puoi saltare l’introduzione». «Voglio solo assicurarmi che tu abbia capito, ok?» «Cosa vuoi, Phil?». Il ragazzo deglutì a fatica. Dovette fare due o tre tentativi prima che le parole riuscissero a superare il blocco dell’orgoglio. «Voglio che aiuti mia sorella».

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Capitolo 9 Poppy si agitava nel letto. Era triste. Una tristezza ardente e inquieta che sembrava brulicarle sotto la pelle, che nasceva dal corpo e non dalla mente. Se non fosse stata così debole, si sarebbe alzata dal letto per tentare di scacciare quella sensazione. Ma adesso aveva spaghetti scotti al posto dei muscoli e non sarebbe andata da nessuna parte. Il cervello era perennemente confuso. Ormai non cercava più di pensare. Era più felice quando dormiva. Ma quella sera non riusciva a prendere sonno. Sentiva ancora il sapore del ghiacciolo alla ciliegia negli angoli della bocca. Forse doveva provare a sciacquarla, ma pensare all’acqua le dava un vago senso di nausea. L’acqua non era buona. Non era dell’acqua che aveva bisogno. Si girò nel letto e nascose il viso nel cuscino. Non sapeva con precisione di cosa avesse bisogno, ma era certa che ne sentiva la mancanza. Un rumore leggero arrivò dal corridoio. Passi, di almeno due persone. Non sembravano quelli di Cliff o della mamma, e comunque loro erano già andati a letto.

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Qualcuno bussò delicatamente, e un triangolo di luce si proiettò sul pavimento appena la porta venne aperta. Phil sussurrò: «Poppy, dormi? Posso entrare?». Con un senso di crescente indignazione, Poppy notò che stava entrando, senza attendere la risposta. E c’era qualcuno con lui. Non qualcuno. Lui. Quello che aveva ferito Poppy più di chiunque altro. Il traditore. James. La rabbia diede a Poppy la forza di tirarsi su a sedere. «Vattene! O te ne pentirai!». Il più primitivo ed essenziale tra i messaggi di avvertimento. Una reazione animale. «Poppy, ti prego, lasciami parlare», disse James. E poi accadde qualcosa di sorprendente. Persino Poppy, nel suo stato confusionale, si reso conto che era sbalorditivo. Suo fratello disse: «Ti prego, Poppy. Ascoltalo». Phil si era schierato dalla parte di James? Era troppo sconcertata per protestare, e l’amico si avvicinò e s’inginocchiò accanto al letto. «Poppy, so che sei sconvolta. Ed è colpa mia; ho commesso un errore. Non volevo che Phil capisse quel che stava realmente accadendo, e gli ho detto che stavo fingendo di provare qualcosa per te. Ma non era vero». Poppy si accigliò. «Se sondi i miei sentimenti, saprai che non è così. Stai acquisendo capacità telepatiche, e credo che tu abbia già poteri a sufficienza per leggere la mia mente».

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Dietro le spalle di James, Phil si agitò sentendo parlare di telepatia. «Io posso dirti che non è vero», disse, attirando gli sguardi sorpresi di James e della sorella. «È una delle cose che ho scoperto parlando con lui», aggiunse rivolgendosi al vampiro, ma senza guardarlo negli occhi. «Forse sei una specie di mostro, ma tieni davvero a Poppy. Non stai cercando di farle del male». «Adesso l’hai capito, finalmente? Dopo aver creato questo casino?», lo interruppe James e scosse la testa, tornando a parlare a Poppy. «Poppy, concentrati. Senti quello che sento io. Scopri da sola la verità». Non intendo farlo e non potrai costringermi, pensò Poppy. Ma la parte di lei che voleva scoprire la verità era più forte di quella irrazionale, in collera. Esitante, si protese verso James – non con la mano, ma con la mente. In seguito non avrebbe saputo descrivere come aveva fatto. Lo fece e basta. E trovò la mente di James, splendente come un diamante e ardente come un fuoco. Non si sentiva una cosa sola con lui, come quando avevano condiviso il loro sangue. Era come guardarlo dall’esterno, percependo le sue emozioni a distanza. Ma fu sufficiente. Il calore, il desiderio, la voglia di proteggerla erano chiaramente percepibili, così come l’angoscia. Il dolore che provava sapendo che lei stava soffrendo – e che lo detestava. Gli occhi di Poppy si riempirono di lacrime. «Ci tieni davvero», sussurrò.

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Incontrò gli occhi grigi di James, e vi lesse uno sguardo che non ricordava di avervi mai visto prima. «Ci sono due regole fondamentali nel Mondo delle Tenebre», enunciò tranquillamente. «Una è che non devi rivelare agli umani la sua esistenza. L’altra è che non devi innamorarti di un umano. Io le ho violate entrambe». Poppy si accorse vagamente che Phil stava uscendo dalla stanza. Il triangolo di luce si assottigliò quando socchiuse la porta dietro di sé. Il volto di James rimase parzialmente in ombra. «Non ho mai potuto dirti quel che provavo», riprese James. Non potevo neanche ammetterlo a me stesso. Perché ti espone a un enorme pericolo. Non puoi immaginare che genere di pericolo. «Ma anche tu corri dei rischi», disse Poppy. Era la prima volta che ci rifletteva. L’idea affiorò nella sua coscienza ottenebrata come una bolla in un tegame di stufato. «Voglio dire», cercò di chiarire i propri pensieri, «se è contro le regole parlarne a un umano o amare un umano, e tu infrangi le regole, dovrà esserci una punizione anche per te…». Prima ancora di finire, aveva già intuito quale sarebbe stato il castigo. James nascose il volto nell’ombra. «Tu non preoccuparti», le disse con la sua vecchia voce da rubacuori. Poppy non aveva mai accettato consigli, nemmeno da James. Provò un immediato impulso di rabbia e d’irritazione – un impulso animale, come la febbrile in-

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quietudine che l’aveva agitata fino a quel momento. Sentì gli occhi stringersi e le dita piegarsi ad artiglio. «Non dirmi di cosa devo preoccuparmi!». Il giovane s’incupì. «Non dirmi di non dirti…», s’interruppe di colpo. «Ma che sto facendo? Tu stai ancora male perché non hai completato la trasformazione, e io me ne sto qui seduto». Arrotolò una manica della giacca a vento e s’incise il polso con un’unghia. Il sangue parve nero nell’oscurità della stanza, ma Poppy si scoprì a fissare affascinata quelle piccole perle liquide. Le labbra si schiusero e il respiro si fece veloce. «Coraggio», la incitò James, e sollevò il polso davanti a lei. Un istante dopo la bocca di Poppy vi aderì come una ventosa, succhiando sangue come se dovesse salvarlo dal morso di un serpente. Era così naturale, così semplice. Era di questo che aveva bisogno quando aveva spedito Phil a comprare ghiaccioli alla ciliegia e succo di mirtilli. Questa dolce, inebriante sostanza era la cosa giusta e niente altro poteva eguagliarla. Poppy bevve avidamente. Tutto era magnifico: l’intimità, il gusto ricco e intenso; la forza e la vitalità che sentiva scorrere nelle vene e il calore che si diffondeva fino alla punta delle dita. Ma ancor meglio di ogni altra sensazione era il contatto con la mente di James, che le provocava una piacevole vertigine.

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Come aveva potuto sospettare di lui? Le sembrò assurdo, adesso che riusciva a sentire direttamente quel che James provava per lei. Non avrebbe mai conosciuto qualcuno così profondamente come conosceva James. Mi spiace, gli comunicò, e sentì che il proprio pensiero veniva accolto, perdonato, conservato. Cullato dolcemente dalla mente di James. Non è stata colpa tua, le disse. La mente di Poppy sembrava snebbiarsi ogni istante che passava. Era come risvegliarsi da un sonno profondo e agitato. Voglio che questo duri per sempre, pensò, senza rivolgersi direttamente a James. Lo pensò e basta. Percepì una reazione nel ragazzo – e poi sentì che la soffocava rapidamente. Ma non abbastanza in fretta. Poppy l’aveva avvertita. I vampiri non condividono il sangue fra loro. Rimase scioccata. Non avrebbero più vissuto questa inebriante beatitudine, una volta che lei si fosse trasformata? Non voleva crederci: si rifiutava. Doveva esserci un modo… Percepì di nuovo l’inizio di una reazione da parte di James, ma proprio quando stava per catturarla, il giovane ritirò delicatamente il polso. Sarà meglio che ti fermi qui per stasera, le disse, e la sua voce reale suonò strana alle orecchie di Poppy. Non riusciva a farla sentire in contatto con James quanto la voce mentale, e si sentì lontana da lui. Erano due esseri distinti. La separazione fu orribile.

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Come poteva sopravvivere se non aveva più la possibilità di raggiungere la mente di James? Se doveva usare le parole, che di colpo le sembrarono inconsistenti come segnali di fumo? Se non poteva più viverlo pienamente, sentire il suo intero essere aprirsi a lei? Era crudele e ingiusto, e tutti i vampiri doveva essere degli idioti se si accontentavano di qualcosa di meno. Prima che potesse aprire la bocca per esprimere verbalmente a James le proprie considerazioni, la porta di scostò e Phil fece capolino. «Entra», disse James. «Ci sono molte cose di cui dobbiamo parlare». Phil stava fissando Poppy. «Stai…». Si bloccò e deglutì, prima di finire la frase in un rauco sussurro. «Meglio?». Non c’era bisogno di telepatia per percepire il suo disgusto. Aveva dato una rapida occhiata alla bocca della sorella, poi aveva distolto immediatamente lo sguardo. Poppy capì cosa doveva aver notato. Le labbra sporche di rosso, come se avesse mangiato frutti di bosco. Si pulì con il dorso della mano. Quel che voleva dire era che lei non lo trovava disgustoso. Che parte della Natura. Un modo di infondere la vita, pura vita. Intimo e meraviglioso. Perfetto. Invece disse: «Non criticare finchè non lo avrai provato».

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Il volto di Phil si contorse in una smorfia di orrore. E la cosa più strana era che James sembrava essere perfettamente d’accordo con lui sull’argomento. Poppy lo avvertì: James pensava che condividere il sangue fosse qualcosa di oscuro e perverso. Si sentiva in colpa. Poppy emise un lungo sospiro di esasperazione, e disse: «Ragazzi». «Ti senti meglio», constatò Phil, abbozzando un sorriso. «Credo di essermi comportata in modo piuttosto strano nei giorni scorsi», osservò Poppy. «Mi spiace». «Piuttosto non è la parola adatta». «Non era colpa sua», la giustificò James. «Stava morendo – ed era in preda ad allucinazioni, per così dire. Il sangue al cervello non era sufficiente». Poppy scosse la testa. «Non capisco. L’ultima volta non mi hai preso più così tanto sangue. Come facevo a non averne abbastanza?» «Non è questione solo di quantità», le spiegò James. «I due diversi tipi di sangue reagiscono l’uno con l’altro – si contrastano. Se vuoi una spiegazione scientifica, è più o meno così. Il sangue dei vampiri distrugge l’emoglobina – i globuli rossi – nel sangue umano. Una volta che ha distrutto una certa quantità di globuli rossi, non ricevi più l’ossigeno necessario per pensare razionalmente. E quando ne distruggerà ancora altri, non avrai l’ossigeno necessario per vivere».

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«Quindi il sangue dei vampiri è come un veleno», osservò Phil con un tono saccente, come se l’avesse sempre saputo. James si strinse nelle spalle, senza guardare né Poppy, né Phil. «In un certo senso. Ma da un altro punto di vista è un rimedio universale. Fa rimarginare in fretta le ferite, rigenerare subito i tessuti. I vampiri possono vivere con pochissimo ossigeno perché le loro cellule hanno un’enorme capacità di recupero. Il sangue di un vampiro fa tutto – tranne che portare ossigeno». Una lampadina si accese nel cervello di Poppy. Una vera e propria rivelazione – spiegato il mistero del Conte Dracula. «Aspetta un attimo», disse. «È per questo che avete bisogno di sangue umano?» «È una delle ragioni», rispose James. «Ci sono alcune… altre ragioni di valore simbolico, ma quella fondamentale è che il sangue umano ci mantiene in vita. Ne assumiamo un po’ perché porti ossigeno nel nostro organismo, prima che il nostro sangue lo distrugga. Così ne prendiamo ancora, e così via». Poppy si accomodò nel letto. «Allora è così. Ed è naturale…». «Non c’è niente di naturale in tutto questo», commentò Phil, mostrando di nuovo il proprio disgusto. «Sì che lo è; è simile alla comesichiama, l’abbiamo imparato al corso di biologia. La simbiosi».

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«Non importa», la interruppe James. «Non possiamo restare qui seduti a chiacchierare. Dobbiamo fare progetti». Calò un silenzio improvviso appena Poppy capì a quali progetti si stesse riferendo. E vide che anche il fratello l’aveva intuito. «Non sei ancora fuori pericolo», le disse dolcemente James, guardandola negli occhi. «Dovremo scambiare ancora una volta il nostro sangue, e dovremo farlo il prima possibile. Altrimenti, potresti avere una ricaduta. Ma dobbiamo pianificare il prossimo scambio con estrema attenzione». «Perché?», volle sapere Phil, facendo deliberatamente ostruzionismo. «Perché mi ucciderà», rispose Poppy con voce inespressiva, prima che James potesse intervenire. E pur vedendo il fratello trasalire, proseguì implacabile: «Di questo si tratta, Phil. Non è un giochetto quel che stiamo facendo io e James. Dobbiamo guardare in faccia la realtà, e la realtà è che in un modo o nell’altro io morirò presto. E preferisco morire e svegliarmi vampiro piuttosto che morire e non svegliarmi affatto». Seguì un altro silenzio, durante il quale James le sfiorò la mano. Solo allora Poppy si rese conto che stava tremando. Phil alzò gli occhi su di lei. Poppy vide il suo volto contratto, lo sguardo immensamente triste. «Siamo ge-

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melli. Come potrai sopravvivere tanto più a lungo di me?», chiese con voce soffocata dall’emozione. Un’altra breve pausa, subito rotta da James: «Credo che domani sera sarebbe l’ideale. È venerdì – pensi di poter convincere tua madre e Cliff a uscire?». Phil parve perplesso. «Credo – se Poppy sta meglio, potrebbero concedersi una serata fuori. Se assicuro loro che resterò a farle compagnia». «Convincili che hanno bisogno di staccare un po’ la spina. Non li voglio fra i piedi». «Non puoi semplicemente evitare che se ne accorgano? Come hai fatto con l’infermiera all’ospedale?», chiese Poppy. «Non se devo concentrarmi su di te», disse James. «E poi ci sono persone che non sono minimamente influenzabili – tuo fratello, qui, ne è un esempio. Tua madre potrebbe esserne un altro». «Va bene, li convincerò a uscire», concluse Phil. Deglutì a fatica, evidentemente a disagio, e senza riuscire a nasconderlo. «E una volta che saranno usciti… cosa accadrà?». James gli rivolse una sguardo impenetrabile. «Io e Poppy faremo quel che deve essere fatto. E poi tu e io guarderemo la televisione». «Guarderemo la televisione», ripetè meccanicamente Phil.

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«Devo essere presente quando arriverà il dottore – e l’incaricato delle pompe funebri». Sul volto di Phil si dipinse un’espressione di totale orrore quando furono menzionate le pompe funebri. E neanche Poppy la prese così a cuor leggero. Se non fosse stato per quel sangue alieno e sostanzioso che le correva nelle vene, placando ogni timore… «Perché?», Phil esigeva una spiegazione da James. James scosse adagio la testa, il volto inespressivo. «Devo esserci e basta», rispose. «Lo capirai più tardi. Per ora, fidati di me». Poppy decise di non approfondire. «Allora, domani, voi ragazzi dovrete riappacificarvi», disse. «In presenza di Cliff e della mamma. Altrimenti sarebbe strano se vi faceste trovare insieme a guardare la TV». «Sarebbe strano in ogni caso», commentò Phil sottovoce. «D’accordo. Fai un salto qui domani pomeriggio e sistemeremo tutto. E li convincerò a lasciarci insieme a Poppy». James annuì. «Ora è meglio che vada». Si alzò in piedi e Phil lo seguì per accompagnarlo alla porta, ma il giovane esitò, per via di Poppy. «Starai bene?», le chiese a bassa voce. Poppy rispose con un cenno deciso. «A domani, allora». Le sfiorò la guancia con la punta delle dita. Un contatto così lieve, ma sufficiente a farle

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balzare il cuore in petto e a infondere verità in quelle parole. Sì, sarebbe stata bene. Si guardarono per un momento, poi James si voltò per andarsene. A domani, pensò Poppy, vedendo la porta chiudersi dietro di lui. Domani morirò. Però, pensò Poppy, non sono molte le persone che hanno il privilegio di conoscere il giorno preciso della propria morte. Quindi non molte persone hanno l’opportunità di dire addio come preferiscono. Non contava che lei non stesse realmente per morire. Quando un bruco si trasforma in farfalla rinuncia alla sua vita di bruco. Non si arrampica più sugli arbusti, non mangia più le foglie. Niente più scuola superiore di El Camino, pensò Poppy. Non dormirò più nel mio letto. Avrebbe dovuto lasciare tutto dietro di sé. La sua famiglia, la sua città. La sua esistenza umana. Stava per avviarsi verso un nuovo, insolito futuro, senza avere la minima idea di quel che la aspettava. Poteva soltanto confidare in James – e nelle proprie capacità di adattamento. Era una strada incerta e tortuosa che si allungava davanti a lei, perdendosi nell’oscurità. Niente più pattinate sul lungomare di Venice Beach, pensò Poppy. Niente più “ciaf ciaf” di piedi bagnati sulla

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pavimentazione della piscina comunale Tamashaw. Niente più compere al Village. Si soffermò a guardare ogni angolo della stanza. Addio cassettone bianco. Addio scrivania, dove ho scritto centinaia di lettere – come testimoniano le chiazze di ceralacca colata sul legno. Addio letto, addio bianche tende velate che mi avete fatto sentire una principessa de Le mille e una notte. Addio stereo. Ahi, pensò, il mio stereo. E i miei CD. Non posso lasciarli qui; non posso… Ma certo che poteva. Doveva. Probabilmente fu meglio salutare lo stereo prima di uscire dalla stanza. Servì a prepararla ad affrontare il distacco dalle persone. «Ciao, mamma», la salutò con voce turbata, entrando in cucina. «Poppy! Non sapevo che ti eri alzata». Strinse forte la madre fra le braccia, soffermandosi su ogni sensazione che avvertiva in quel preciso momento: le mattonelle della cucina sotto i piedi nudi, il lieve profumo di noce di cocco che lo shampoo aveva lasciato sui capelli della mamma. Le sue braccia che la avvolgevano, e il calore del suo corpo. «Hai fame, tesoro? Sembra che tu stia molto meglio». Poppy non riuscì a guardare la madre in viso, d’un tratto illuminato da un’ansiosa speranza, e il solo pensare

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al cibo le dava la nausea. Si rifugiò si nuovo fra le sue braccia. «Tienimi stretta ancora un minuto», disse. Allora le venne in mente che non sarebbe riuscita a dire addio a tutto. Non poteva sistemare tutte le faccende della propria vita in un solo pomeriggio. Forse era una privilegiata perché sapeva che quello era il suo ultimo giorno, ma stava uscendo di scena esattamente come chiunque altro: impreparata. «Ricordati che ti voglio bene», sussurrò nascondendo il viso contro la spalla della madre, ricacciando le lacrime. Lasciò che la riaccompagnasse a letto. Passò il resto della giornata a fare telefonate. Tentando di approfondire un po’ la conoscenza di quella vita che stava per lasciare, di quelle persone che ne facevano parte. Cercando di apprezzare ogni cosa, in fretta, prima di doverla abbandonare. «Mi manchi, Elaine», disse al telefono, con lo sguardo fisso sulla luce del sole che filtrava dalla finestra. «Ciao, Brady, come va?» «Ehi, Laura, grazie dei fiori». «Poppy, è tutto ok?», le chiesero gli amici. «Quando ci rivediamo?». Non riuscì a rispondere. Avrebbe tanto voluto chiamare suo padre, ma nessuno sapeva dove fosse.

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E rimpianse di non aver letto l’opera teatrale Piccola città quando le era stata assegnata l’anno precedente, invece di usare i Bignami per bluffare. Ricordava solo che parlava di una ragazza morta, cui veniva concesso il permesso di rivivere e apprezzare una normale giornata della sua vita terrena. Forse l’avrebbe aiutata a chiarire quel che provava in quel momento – ma era troppo tardi. Ho impiegato male tanto del mio tempo a scuola, si disse Poppy. Ho usato la mia intelligenza per mettere nel sacco i professori – e in realtà non è stato un comportamento intelligente. Scoprì dentro di sé un profondo rispetto per Phil, che usava la materia grigia per apprendere. Forse suo fratello non era soltanto uno sgobbone perfettino, tutto sommato. Forse – oh Dio – aveva sempre avuto ragione. Come sto cambiando, pensò Poppy, e rabbrividì. Che dipendesse da quel sangue alieno che le scorreva nelle vene, o dal cancro, o semplicemente dal fatto che stesse maturando, questo non lo sapeva. Ma stava cambiando. Suonarono alla porta. Poppy capì chi fosse senza bisogno di uscire dalla stanza. Sentì che si trattava di James. Eccolo qui per cominciare la recita, pensò Poppy, guardando l’orologio. Incredibile. Erano già quasi le quattro. Il tempo sembrava volare.

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Non farti prendere dal panico. Hai ancora ore davanti a te, si disse, e prese di nuovo il telefono. Ma le parve che fossero passati soltanto pochi minuti quando la madre bussò alla porta. «Tesoro, Phil dice che dovremmo uscire un po’… e James è venuto a trovarti… ma gli ho detto che non penso tu voglia vederlo… e non me la sento di lasciarti questa sera…». La mamma era sconvolta, e non era da lei. «No, mi fa piacere vedere James. Davvero. E credo che dovresti concederti una pausa. Sul serio». «Bene – sono contenta che tu e James abbiate fatto la pace. Ma ancora non so…». Ci volle tempo per convincerla, per persuaderla che Poppy stava molto meglio, che aveva ancora settimane o mesi da vivere. Che non c’era alcuna ragione particolare per restare chiusi in casa proprio quel venerdì sera. Ma alla fine la mamma le diede un bacio e acconsentì. E poi non restò altro che dire addio a Cliff. Si lasciò abbracciare da lui e riuscì finalmente a perdonarlo per non essere suo padre. Hai fatto del tuo meglio, pensò, mentre riemergeva dall’abbraccio del suo impeccabile completo nero e si fermava a guardare la mascella quadrata che gli conferiva quell’aria da eterno ragazzo. E sarai tu a prenderti cura della mamma – dopo. Ti perdono. Sei un tipo a posto, davvero.

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E poi Cliff e la mamma lasciarono la stanza, ed era l’ultima volta, l’ultima volta in assoluto per dire loro addio. Li richiamò, ed entrambi si voltarono e le sorrisero. Quando furono usciti, James e Phil la raggiunsero. Poppy guardò l’amico. Gli occhi grigi erano opachi e non lasciavano trapelare alcuna emozione. «Ora?» La voce le tremò leggermente. «Ora».

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Capitolo 10 «Bisogna organizzare tutto per bene», disse Poppy. «Predisporre ogni cosa. Prendi delle candele, Phil». Il fratello era pallido e aveva un’aria smarrita. «Candele?». «Tutte quelle che riesci a trovare. E cuscini. Ho bisogno di un sacco di cuscini». S’inginocchiò accanto allo stereo per esaminare una pila disordinata di CD. Phil rimase un istante a guardarla, poi uscì dalla stanza. «Structures from silence… no. Troppo ripetitivo», lo liquidò Poppy, frugando fra le copertine. «Deep forest – no. Troppo stimolante. Mi serve qualcosa ambient». «Che ne dici di questo?», James prese un CD e fece leggere l’etichetta a Poppy. Music to Disappear In. Ma certo. Era perfetto. Prese il disco e incontrò lo sguardo di James. Di solito il ragazzo definiva le melodie delicate e ossessive della musica ambient “sentimentalismo New Age”. «Cerca di capirmi», gli disse semplicemente. «Sì. Ma non stai morendo, Poppy. Non devi imbastire una scena di morte».

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«Ma me ne sto andando. Sto cambiando». Non riuscì a spiegare esattamente cosa provava, ma qualcosa dentro di lei le disse che stava facendo la cosa giusta. Stava dicendo addio alla sua vecchia vita. Era un momento solenne, un Passaggio. E naturalmente, anche se nessuno dei due ne fece parola, sapevano che avrebbe potuto morire per sempre. James era stato estremamente chiaro in proposito: alcune persone non riescono a sopravvivere alla trasformazione. Phil tornò con le candele: candele di Natale, candele di emergenza, candele votive profumate. Poppy gli chiese di disporle in giro nella stanza e di accenderle, poi andò nel bagno per indossare la sua camicia da notte migliore. Era di flanella, con un motivo a fragoline. Pensa, si disse appena uscì dal bagno. Questa è l’ultima volta che percorro questo corridoio, l’ultima volta che apro la porta della mia camera. L’ambiente era magnifico. Il tenue bagliore delle candele gli conferiva un’aura di sacralità e di mistero. La musica era dolce e sublime, e Poppy sentì che poteva abbandonarsi per sempre a quella melodia, come in un sogno. Aprì l’armadio e con l’aiuto di un gancio appendiabiti tirò giù dalla mensola in alto un leone fulvo di pezza e un grigio, floscio Ih Oh. Li portò a letto e li sistemò accanto alla pila di cuscini. Forse era sciocco, forse infantile, ma voleva averli vicino.

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Si sedette sul letto e guardò James e Phil. I due ragazzi la stavano osservando. Phil era palesemente sconvolto, con le dita sulle labbra per fermarne il tremito. Anche James era turbato, sebbene solo chi lo conoscesse bene quanto Poppy avrebbe potuto intuirlo. «È tutto a posto», disse loro Poppy. «Non vedete? Io sto bene, quindi non dovete stare male voi». E la cosa strana era che aveva detto la verità. Stava bene. Era tranquilla e determinata, come se tutto fosse diventato estremamente semplice. Vedeva la strada snodarsi davanti a sé, e tutto quel che doveva fare era seguirla, passo dopo passo. Phil si avvicinò e le strinse forte la mano. «Come… come funziona?», chiese a James con voce rauca. «Prima ci scambieremo il sangue», disse James, rivolgendosi a Poppy. Guardando solo lei. «Non deve essere molto; sei già sull’orlo del cambiamento. Poi i due tipi di sangue si contrasteranno – l’ultima battaglia, se capisci cosa intendo dire». Le rivolse un debole, mesto sorriso, e Poppy fece segno di aver capito. «Mentre la battaglia è in corso ti sentirai sempre più debole, finchè ti addormenterai – semplicemente. La trasformazione avverrà durante il sonno». «E quando mi sveglierò?», chiese Poppy. «Ti darò una sorta di suggerimento postipnotico al riguardo. Ti dirò di svegliarti quando verrò a prenderti.

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Non ti preoccupare; ho calcolato ogni dettaglio. Tutto quel che devi fare è stare tranquilla». Phil si passò nervosamente le dita fra i capelli; forse solo in quel momento capiva di che genere di dettagli dovessero occuparsi lui e James. «Aspetta un momento», disse, la voce ridotta a un rauco gracidio. «Quando… quando tu dirai “dormi”, lei sembrerà…». «Morta», concluse Poppy per lui. James gli rivolse uno sguardo impenetrabile. «Sì. E avremo terminato». «E poi… dovremo… cosa accadrà a lei?». Lo fulminò con un’occhiata. «Ok», disse piano Poppy. «Diglielo». «Lo sai cosa accadrà», gli rispose a denti stretti. «Non può semplicemente scomparire. Avremmo la polizia e il Popolo delle Tenebre alle calcagna, tutti sulle sue tracce. No, deve sembrare che sia morta di cancro, e questo significa che tutto deve svolgersi come se lei fosse realmente morta». L’espressione sofferente di Phil rivelò che non poteva più contare su tutta la sua razionalità. «Sei sicuro che non c’è un altro modo?» «Sicuro», replicò James. Phil s’inumidì le labbra. «Oh, Dio». Poppy non voleva soffermarsi troppo sull’argomento. Parlò al fratello con tono deciso: «Affronta la situazione, Phil. Devi farlo. E ricordati che se non accadesse ora, ac-

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cadrebbe fra poche settimane – e non sarebbe una messinscena». Il ragazzo si era aggrappato a una delle colonne di ottone del letto con tanta forza che le sue nocche erano diventate bianche. Ma aveva afferrato il concetto, e non c’era nessuno che sapesse chiamare a raccolta le proprie forze meglio di Phil. «Hai ragione», concluse con un filo di voce e una vaga parvenza del suo modo di fare efficiente. «Ok, la affronterò». «Allora cominciamo», disse Poppy, mantenendo la voce ferma e calma. Come se a lei affrontare tutto il resto non contasse alcuno sforzo. James si rivolse a Phil: «È meglio che tu non assista a questa parte. Vai a vedere la TV per qualche minuto». Phil esitò, poi annuì e uscì dalla camera. «Una cosa», Poppy disse a James mentre si spostava al centro del letto. Stava ancora cercando disperatamente di parlare in tono noncurante. «Dopo il funerale… be’, io starò dormendo, vero? Non mi sveglierò per caso… capisci. Nella mia graziosa piccola bara». Alzò gli occhi verso di lui. «È che soffro di claustrofobia, un po’». «Non ti sveglierai lì», la rassicurò James. «Poppy, non permetterò che ti accada. Fidati, ho pensato a tutto». Poppy annuì. Mi fido di te, pensò. Gli tese le braccia.

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Il giovane le sfiorò il collo, facendole sollevare il mento. Man mano che il sangue usciva dal suo corpo, la sua mente venne attirata verso quella di James. Non ti preoccupare, Poppy. Non aver paura. Ogni pensiero che le comunicava era intensamente protettivo. E anche se serviva a confermare che c’era qualcosa di cui aver paura, qualcosa che poteva non funzionare, Poppy si rasserenò. La percezione immediata dell’amore di James la placò, inondandola di luce. D’un tratto sperimentò a distanza, altezza e profondità – vastità. Come se i suoi orizzonti si fossero ampliati all’infinito in un solo istante. Come se avesse scoperto una nuova dimensione. Come se non ci fossero limiti o ostacoli a quel che lei e James potevano fare insieme. Si sentì… libera. Cominciò a provare un senso di vertigine. Sentì il proprio corpo afflosciarsi fra le braccia di James. Languire come un fiore appassito. Ne ho preso abbastanza, le comunicò James. La calda bocca animale si staccò dal suo collo. «Adesso tocca a te». Questa volta, però, non si fece un taglio sul polso. Si tolse la maglietta e, con un gesto rapido e istintivo, tracciò un segno con l’unghia alla base della gola. Oh, pensò Poppy. Lentamente, quasi con deferenza, si piegò in avanti. James le sostenne la nuca con una mano.

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Lei lo circondò con le braccia, sentendo la sua pelle nuda contro la flanella della camicia da notte. Così era ancora meglio. Ma se James aveva detto la verità, anche quella sarebbe stata un’ultima volta. Non avrebbero mai più scambiato il sangue. Non lo accetto, pensò Poppy, ma non riuscì a concentrarsi a lungo. Questa volta, invece di sgombrarle la mente, il sangue intenso e inebriante del vampiro aumentò il senso di stordimento, di pesantezza, di torpore. James? Va tutto bene. È l’inizio della trasformazione. Pesantezza… torpore… calore. Cullata dalle onde salate dell’oceano. Riusciva quasi a immaginare il sangue del vampiro avanzare lentamente nelle vene, conquistando ogni cosa sul suo cammino. Era sangue antico, primordiale. La stava trasformando in qualcosa che esisteva dall’alba dei tempi. Qualcosa di primitivo ed essenziale. Ogni molecola nel suo corpo stava cambiando… Poppy, mi senti? James la stava scuotendo lievemente. Era talmente assorbita da quelle sensazioni che non si era nemmeno resa conto di aver smesso di bere. James la stava cullando. «Poppy». Fece uno sforzo per aprire gli occhi. «Sto bene. Ho solo… sonno».

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La strinse forte fra le braccia, poi la appoggiò dolcemente sulla pila di cuscini. «Adesso puoi riposare. Vado a chiamare Phil». Prima di andare la baciò sulla fronte. Il mio primo bacio, pensò Poppy, mentre le si chiudevano gli occhi. E io sono in coma. Grandioso. Sentì il letto cedere sotto il peso di qualcuno e riaprì gli occhi. Era Phil. Sembrava molto agitato; si era seduto con circospezione accanto a lei, e la fissava. «E ora cosa succede?», chiese. «Il sangue di vampiro sta prendendo il sopravvento», rispose James. Poppy disse: «Ho tanto sonno». Non c’era dolore. Solo la sensazione di voler scivolare via. Il suo corpo era invaso da un caldo torpore, come se fosse protetta da un’aura densa e leggera. «Phil? Dimenticavo di dirti… grazie. Per l’aiuto. E per tutto. Sei un bravo fratello, Phil». «Non devi dirmelo adesso», replicò brevemente Phil. «Puoi dirmelo più tardi. Ci sarò anch’io dopo, sai». Ma forse io no, pensò Poppy. È una scommessa. E non avrei mai dovuto rischiare, ma l’unica alternativa era arrendersi senza nemmeno combattere. Ci ho provato, vero? Almeno ci ho provato. «Sì, è così», rispose Phil, ma gli tremò la voce. Poppy non si era accorta di aver parlato ad alta voce. «Non ti sei

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mai rifiutata di lottare», continuò. «Ho imparato molto da te». Buffo, perché lei aveva imparato così tanto dal fratello, soprattutto nelle ultime ventiquattro ore. Voleva dirglielo, ma erano tante le cose da dire, ed era così stanca. La lingua era intorpidita; tutto il corpo languido e privo di forza. «Ehi… tienimi la mano», disse, la voce ormai poco più di un sussurro. Phillip le prese una mano e James l’altra. Così andava bene. Questo era il modo giusto, con Ih Oh e il suo leone di pezza sul cuscino accanto a lei, e Phil e James che la tenevano per mano, ancorata e al sicuro. Una delle candele era alla vaniglia, una fragranza calda e familiare. Un odore che le ricordava quando era bambina. Wafer alla crema e ora della nanna. Ecco cosa l’aspettava. Solo un pisolino nell’asilo della signorina Spurgeon, con il sole che illuminava obliquamente il pavimento, e James sul tappetino accanto a lei. Così sicura, così serena… «Oh Poppy», mormorò Phil. «Stai andando alla grande, piccola. Tutto procede come stabilito», disse James. Era quel che Poppy aveva bisogno di sentirsi dire. Si abbandonò alla musica, e fu come abbandonarsi a un sogno, senza paura. Come una goccia di pioggia che torna all’oceano che l’ha concepita.

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All’ultimo momento pensò: Non sono pronta. Ma conosceva già la risposta: nessuno lo è mai. Ma che stupida – aveva dimenticato la cosa più importante. Non aveva detto a James che lo amava. Neanche quando glielo aveva detto lui. Tentò di riprendere fiato ed energia per riuscire a dirlo. Ma era troppo tardi. Il mondo circostante era perduto, e non sentiva più il proprio corpo. Fluttuò nell’oscurità e nella musica, fino a precipitare nel sonno. «Dormi», le disse James, chinandosi su di lei. «Non svegliarti finchè non ti chiamerò. Devo solo dormire». Ogni muscolo del corpo di Poppy era rigido. Il viso era così sereno: pallido, circondato da una nuvola di riccioli ramati sparsi sul cuscino, le ciglia scure posate sulle guance, e le labbra dischiuse in un lieve respiro. Una bambola di porcellana. Ma quanto più la sorella appariva serena, tanto più Phil era terrorizzato. Non riesco a sopportarlo, pensò il ragazzo. Ma devo. Poppy esalò un lieve respiro, poi d’un tratto si mosse. Il petto si sollevò a fatica una, due volte. La mano strinse quella di Phil e gli occhi si aprirono – ma sembravano non vedere nulla. Lo sguardo attonito. «Poppy!». Phil la afferrò, stringendo fra le mani la flanella della camicia da notte. Era così fragile, e piccola, Poppy, dentro quella stoffa. «Poppy!».

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Il respiro affaticato cessò. Per un momento Poppy rimase come sospesa in aria, poi gli occhi si chiusero e ricadde sui cuscini. La sua mano si afflosciò in quella del fratello. Phil perse l’ultimo barlume di razionalità. «Poppy», gridò, avvertendo il tono pericolosamente squilibrato nella propria voce. «Forza, Poppy. Poppy, svegliati!», ripetè in tono sempre più acuto. Le mani scosse da un tremito incontrollabile si strinsero sulle spalle della sorella. Altre mani sciolsero quella morsa. «Cosa diamine stai facendo?», gli disse James perfettamente calmo. «Poppy? Poppy?». Phil continuava a fissarla: non respirava più. Sul viso aveva un’espressione di innocente sollievo. Quella freschezza che hanno solo i bambini. E stava… cambiando. Era bianca, traslucida. Era inquietante, spettrale, e sebbene Phil non avesse mai visto un cadavere, istintivamente capì che quello era il pallore della morte. Lo spirito di Poppy l’aveva abbandonata. Il suo corpo era vuoto e inespressivo, non più animato da un soffio vitale. La mano che Phil stringeva era inerte, non era la mano di una persona immersa nel sonno. La pelle aveva perso la sua luminosità, come se qualcuno l’avesse spazzata via con un soffio. Phil reclinò la testa e si lasciò sfuggire un gemito animale. Non un lamento umano, era un ululato.

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«L’hai uccisa!». Saltò in piedi e barcollò verso James. «Hai detto che si sarebbe solo addormentata, ma l’hai uccisa! È morta!». James non si sottrasse a quell’assalto. Invece, afferrò Phil e lo trascinò fuori nel corridoio. «L’udito è l’ultimo senso a spegnersi», ringhiò nell’orecchio del ragazzo. «Quindi lei potrebbe ancora sentirti». Phil si liberò con uno strattone e corse nel soggiorno. Non sapeva cosa stesse facendo, sapeva soltanto che aveva bisogno di fracassare qualcosa. Poppy era morta. Se ne era andata. Afferrò il divano e lo spinse con forza, rovesciò il tavolino da caffè con un calcio. Agguantò una lampada, tirò con violenza il cavo fuori dalla presa e la scagliò contro il camino. «Fermati!», urlò James per coprire quel frastuono. Appena lo vide, Phil gli si lanciò addosso. La pura forza dell’impeto sbattè James contro il muro. Caddero di schianto a terra. «Tu… l’hai uccisa!», ansimò Phil, tentando di serrare le mani intorno alla gola di James. Argento. Gli occhi del vampiro mandarono un bagliore di metallo fuso. Afferrò il polso di Phil in una morsa dolorosa. «Fermati Phillip», sibilò.

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Qualcosa nel modo in cui lo disse fece fermare il ragazzo. Quasi singhiozzando, tentò faticosamente di inspirare aria nei polmoni. «Ucciderò te se sarà necessario, per salvare Poppy», disse James, con voce ancora spietata e minacciosa. «E lei si salverà solo se tu la pianti e fai esattamente quello che ti dico. Esattamente quello che ti dico. Chiaro?». Diede una violenta scrollata a Phil, sbattendogli quasi la testa contro la parete. Strano, ma aveva detto la cosa giusta. James stava dicendo che teneva a Poppy. E per quanto bizzarro potesse apparire, Phil gli credette. La furia rabbiosa che lo aveva sconvolto svanì d’un tratto, e il ragazzo prese un profondo respiro. «Ok. Ho capito», disse con voce rauca. Era abituato ad assumersi responsabilità – per sé e per gli altri. Non gli piaceva che James gli desse ordini. Ma in questo caso non aveva scelta. «Ma… è morta, vero?» «Dipende da come la vedi», rispose James, lasciando andare Phil e rialzandosi adagio dal pavimento. Esaminò il soggiorno, con le labbra tirate. «Niente è andato storto, Phil. Tutto si è svolto come previsto – tranne questo. Volevo che fossero i tuoi genitori ad accorgersi che era morta, al loro rientro, ma ora non è più possibile. Non c’è altro modo per spiegare questo casino se non dicendo la verità». «E quale sarebbe?»

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«Che tu sei entrato nella stanza e l’hai trovata morta e hai dato di matto. E poi hai chiamato i tuoi genitori – sai a quale ristorante sono andati, no?» «Si chiama Valentino’s. Mamma ha detto che sono stati fortunati a trovare posto». «Ok. Funzionerà. Ma prima dobbiamo sgombrare la camera da letto. Togliere le candele e tutto il resto. Deve sembrare che sia andata semplicemente a dormire, come tutte le sere». Phil lanciò un’occhiata alla porta scorrevole a vetri. Stava facendo buio. Ma Poppy aveva dormito molto negli ultimi giorni. «Diremo che era stanca e ci ha detto di andare a vedere la TV», disse lentamente, cercando di dominare quella sensazione di stordimento e snebbiare la mente. «E poi io dopo un po’ sono andato a vedere come stava». «Perfetto», lo rassicurò James con un debole sorriso che non si riflesse nel suo sguardo. Non ci volle molto per sistemare la camera. La cosa più dura da sopportare per Phil fu la vista di Poppy, e ogni volta che la guardava, si sentiva mancare il cuore. Sembrava così minuta, delicata. Un angelo di Natale a giugno. Non ebbe la forza di togliere gli animali di pezza che le erano accanto. «Si sveglierà, vero?», chiese, senza guardare James.

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«Dio, lo spero», rispose, la voce esausta. Sembrò più una preghiera che un desiderio. «Se non si sveglia, non dovrai darmi la ciccia con un palo di legno, Phil. Me ne occuperò personalmente». Phil s’indignò. «Non essere stupido», gli disse senza mezzi termini. «Se Poppy ha incarnato qualcosa – se incarna qualcosa – è la vita. Gettare via la tua, sarebbe come darle uno schiaffo. E poi, anche se qualcosa andasse storto, tu hai fatto del tuo meglio. Sarebbe stupido prendertela con te stesso». James lo guardò esterrefatto, e Phil capì che erano riusciti a sorprendersi a vicenda. L’amico annuì adagio. «Grazie». Era una pietra miliare, la prima volta che si erano sintonizzati esattamente sulla stessa lunghezza d’onda. Fra loro si era creato uno strano legame, pensò Phil. Distolse lo sguardo e propose: «È ora di chiamare il ristorante?». James sbirciò l’orologio. «Fra qualche minuto». «Se aspettiamo troppo, lasceranno il ristorante prima che gli arrivi la telefonata». «Non importa. Quel che conta è che non ci siano paramedici che tentino di rianimarla e la portino all’ospedale. Deve essere fredda prima che arrivi chiunque». Phil provò un moto di sconcertato orrore. «Tutto sommato, sei una serpe a sangue freddo».

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«Ho solo senso pratico», replicò stancamente James, come se parlasse ad un bambino. Sfiorò una delle mani bianche come il marmo adagiate sulla coperta. «Va bene. È ora. Vado a telefonare. Tu puoi dare ancora di matto, se vuoi». Phil scosse la testa. Non aveva più energia sufficiente. Ma aveva voglia di piangere, e anche questo sarebbe stato d’aiuto. Piangere e ancora piangere, come un ragazzino solo e smarrito. «Fatti passare mia madre», farfugliò. S’inginocchiò accanto al letto di Poppy e attese. La musica era finita e gli arrivò il vocio della TV dall’altra stanza. Non si accorse del tempo che passava finchè non sentì una macchina fermarsi sul viale d’ingresso. Appoggiò la fronte sul materasso di Poppy. Le lacrime furono assolutamente sincere. In quel momento ebbe la certezza di averla persa per sempre. «Preparati», gli disse James da dietro. «Sono arrivati».

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Capitolo 11 Le ore che seguirono furono le peggiori della vita di Phil. Principalmente per via di sua madre. Non appena entrò in casa, la priorità di Phil non fu più cercare conforto: ora toccava a lui confortare lei. Ma naturalmente non c’era conforto possibile. Tutto quel che potè fare fu stringerla fra le braccia. È troppo crudele, pensò vagamente. Ci deve essere un modo per dirglielo. Ma non ci avrebbe mai creduto, e se lo avesse fatto, sarebbe stata in pericolo… Alla fine erano arrivati i paramedici, ma solo dopo il dottor Franklin. «L’ho chiamato io», disse James a Phil in uno di quei momenti in cui la mamma si metteva a piangere sulla spalla di Cliff. «Perché?» «Per semplificare le cose. In questo Stato, i dottori possono redigere il certificato di morte se ti hanno visitato negli ultimi venti giorni e conoscono la causa del decesso. Non vogliamo ospedali o medici legali».

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Phil scosse la testa. «Perché? Che problema hai con gli ospedali?» «Il mio problema», replicò James scandendo nettamente le parole, «è che gli ospedali fanno le autopsie». Phil raggelò. Aprì la bocca, ma non ne uscì alcun suono. «E alle pompe funebri eseguono l’imbalsamazione. Per questo devo essere qui quando verranno a prendere il corpo. Devo influenzare le loro menti perché non la imbalsamino, o le cuciano le labbra, o…». Phil corse in bagno a vomitare. Detestava di nuovo James. Ma nessuno portò Poppy all’ospedale, e il dottor Franklin non parlò di autopsia. Si limitò a stringere la mano della madre di Phil e a spiegare con calma che queste cose accadono all’improvviso, e che Poppy almeno aveva evitato di soffrire. «Ma oggi stava molto meglio», sussurrò la mamma fra le lacrime. «Oh, la mia bambina, la mia bambina. Avevo notato un peggioramento, ma oggi stava meglio». «A volte è così», commentò il dottor Franklin. «È come se raccogliessero le forze per un ultimo sprazzo di vita». «Ma io non ero qui quando ha avuto bisogno di me», continuò la mamma, e stavolta non parlò fra le lacrime, ma la voce tradì la nota stridula del senso di colpa. «È morta da sola».

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Intervenne Phil. «È morta nel sonno. È andata a dormire e non si è più risvegliata. Se la guardi, vedrai che espressione serena ha sul viso». Continuò a confortare la madre, e così fece Cliff, e anche il dottore, e alla fine i paramedici se ne andarono. E poco dopo, mentre la mamma era seduta sul letto di Poppy e le accarezzava i capelli, arrivarono gli incaricati delle pompe funebri. «Datemi solo qualche minuto», disse la madre, pallida e senza più lacrime. «Ho bisogno di restare qualche minuto da sola con lei». Gli inservienti si sedettero in soggiorno con aria imbarazzata, e James cominciò a fissarli. Phil sapeva perchè: l’amico stava imprimendo nella loro mente il fatto che non dovevano procedere all’imbalsamazione. «Per motivi religiosi, è così?», chiese a Cliff uno degli uomini, rompendo un lungo silenzio. Cliff lo guardò sbalordito, aggrottando la fronte. «Di cosa sta parlando?». L’uomo annuì. «Capisco. Non c’è problema». Anche Phil aveva capito. Qualunque cosa avesse sentito quel tizio, non era stato Cliff a dirla. «Resta solo da concordare se volete organizzare una veglia funebre», disse un altro degli incaricati a Cliff. «Altrimenti la bara verrà chiusa». «Sì, è stato del tutto inaspettato», replicò Cliff, con il volto impassibile. «Una malattia fulminante».

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Adesso era lui che non ascoltava quel che gli uomini dicevano. Phil guardò James, e notò gocce di sudore che gli colavano dalla fronte. Chiaramente controllare tre menti allo stesso tempo gli richiedeva uno sforzo notevole. Alla fine Cliff entrò nella stanza e portò fuori la moglie. La accompagnò nella loro camera da letto perché non assistesse al resto della procedura. I due uomini entrarono nella stanza di Poppy portando una barella e un sacco per trasportare il cadavere. Quando uscirono c’era un piccolo, delicato rigonfiamento nel sacco. Phil sentì che stava per perdere di nuovo il controllo. Voleva scaraventare oggetti a terra. Voleva mettersi a correre, scappare da lì. Invece, sentì le ginocchia cedere e la vista oscurarsi. Due braccia robuste lo sorressero, e lo accompagnarono verso una sedia. «Resisti», gli disse James. «Ancora pochi minuti. È quasi finita». In quel momento Phil lo perdonò per essere un mostro succhiasangue. Era molto tardi, quella sera, quando tutti andarono finalmente a letto. A letto, non a dormire. Phil era ridotto a un unico blocco rigido di pena e di dolore, dalla gola ai piedi, e rimase sveglio con la luce accesa, finchè il sole non si affacciò nella stanza.

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L’agenzia di pompe funebri somigliava a un edificio vittoriano, e la sala in cui avevano collocato Poppy era piena di fiori e di gente. Era in una bara bianca con arredi in oro, e da lontano sembrava stesse dormendo. Phil non voleva guardarla. Cominciò a osservare il flusso continuo di visitatori che riempivano la sala e le panche di legno allineate. Non si era mai reso conto di quante persone volessero bene a Poppy. «Era così piena di vita», disse l’insegnante d’inglese. «Non riesco a credere che non ci sia più», disse un ragazzo della squadra di football di Phil. «Non la dimenticherò mai», mormorò fra le lacrime una delle amiche. Phil indossava un completo nero e stava in piedi insieme alla mamma e a Cliff. Sembravano in fila per salutare gli ospiti, come fosse un matrimonio. Sua madre continuava a ripetere: «Grazie per essere venuti», e ad abbracciare le persone. Ognuno poi si avvicinava al feretro e lo sfiorava delicatamente, fra le lacrime. E mentre accoglievano gli ospiti, avvenne qualcosa di strano. Phil si lasciò coinvolgere. La realtà della morte di Poppy era così vera che tutta la faccenda dei vampiri cominciò a sembrargli pura fantasia. A poco a poco cominciò a credere alla storia che stava recitando. In fin dei conti, tutti gli altri ne erano così sicuri. Poppy si era ammalata di cancro, e ora era morta. I vampiri erano frutto della superstizione.

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James non si era presentato alla veglia funebre. Poppy stava sognando. Camminava lungo la riva dell’oceano insieme a James. L’aria era calda, odorava di sale, e aveva i piedi umidi e coperti di sabbia. Indossava un nuovo costume, del tipo che cambia colore una volta bagnato. Sperava che James notasse il costume, ma il ragazzo non fece alcun commento. Poi si accorse che James portava una maschera. Strano, perché l’abbronzatura avrebbe lasciato un segno davvero bizzarro sul viso così coperto. «Perché non la togli?», gli chiese, pensando che forse aveva bisogno di aiuto. «La indosso per motivi di salute», rispose James. Solo che non era la voce di James. Poppy rimase sconvolta. Allungò una mano e gli tolse la maschera. Non era James. Era un ragazzo con i capelli biondo cenere, persino più chiari di quelli di Phil. Come mai non aveva notato prima i suoi capelli? Gli occhi erano verdi – e poi azzurri. «Chi sei?», volle sapere Poppy, spaventata. «Ti piacerebbe saperlo, eh?». Sorrise. Gli occhi adesso erano viola. Sollevò una mano, e Poppy vide che stringeva un papavero [Il termine inglese per papavero è poppy (n.d.t.)]. Al-

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meno, aveva la forma di un papavero, ma era nero. Le accarezzò la guancia con il fiore. «Ricorda», le disse, con uno strano sorriso. «A volte la magia non riesce». «Cosa?» «A volte la magia non riesce», ripetè, e si allontanò. Si ritrovò a stringere il papavero fra le dita. Il ragazzo non aveva lasciato impronte sulla sabbia. Poppy era sola davanti al fragore dell’oceano. Le nuvole si stavano addensando in alto nel cielo. Voleva svegliarsi, ma non ci riuscì; era sola, e spaventata. Lasciò care il fiore, sopraffatta dall’angoscia. «James!». Phil saltò a sedere nel letto, con il cuore che batteva all’impazzata. Dio, cos’era stato? Sembrava un grido – la voce di Poppy. Ho le allucinazioni. Non c’era da sorprendersi. Era lunedì, il giorno del funerale. Da lì a – Phil lanciò un’occhiata all’orologio – circa quattro ore doveva trovarsi in chiesa. Era normale che la stesse sognando. Ma sembrava così spaventata… Phil scacciò quel pensiero, senza troppa difficoltà. Si era convinto che Poppy era morta, e le persone morte non gridano.

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Al funerale, però Phil rimase scioccato. Suo padre era lì. Per di più indossava qualcosa che assomigliava a un completo, anche se la giacca non si abbinava ai pantaloni e la cravatta era storta. «Sono venuto appena ho saputo…». «Ma dove eri?», chiese la madre di Phil, con rughe di tensione intorno agli occhi, come accadeva sempre ogni volta che doveva affrontare il padre di Phil. «Sui monti Blue Ridge con uno zaino in spalla. La prossima volta, lo giuro, lascerò un indirizzo. Controllerò i messaggi…». Scoppiò a piangere. La mamma non aggiunse altro. Gli tese le braccia, e Phil sentì una fitta al cuore quando vide come si aggrapparono l’uno all’altra. Sapeva che suo padre era un’irresponsabile, irreparabilmente in arretrato con i contributi per i figli, un tipo stravagante e un fallito. Ma nessuno aveva mai amato Poppy più di lui. In quel momento, Phil non riuscì a disapprovarlo, neanche con Cliff presente per fare il confronto. Lo shock arrivò quando il padre si rivolse a Phil prima della cerimonia. «Sai, è venuta da me ieri notte», gli disse sottovoce. «Il suo spirito, intendo. È venuta a trovarmi». Phil lo guardò: erano state proprio singolari affermazioni come quella a provocare il divorzio. Suo padre aveva sempre parlato di strani sogni e sosteneva di vedere cose che non esistevano. Per non parlare della colle-

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zione di articoli sull’astrologia, la numerologia e gli UFO. «Non l’ho vista, ma l’ho sentita gridare. Vorrei solo che non fosse così spaventata. Non dirlo a tua madre, ma ho la sensazione che non riposi in pace». Si coprì il volto con la mano. Phil sentì drizzarsi ogni singolo capello sulla nuca. Ma l’inquietante sensazione fu sopita quasi subito dal puro dolore del funerale. Nell’ascoltare frasi come “Poppy vivrà per sempre nei nostri cuori e nei nostri ricordi”. Un carro funebre color argento aprì la strada verso il cimitero di Forest Park, dove tutti ascoltarono il celebrante pronunciare le ultime parole sulla bara di Poppy, nel sole di giugno. Quando toccò a lui posare una rosa sul feretro, Phil si accorse che stava tremando. Fu un momento terribile. Due amiche di Poppy si abbandonarono a singhiozzi isterici. La madre di Phil, ripiegata su se stessa dal dolore, fu accompagnata lontano dalla tomba. Non ci fu tempo per pensare – né allora né durante il pasto frugale che seguì a casa di Phil. Ma fu a casa che i due mondi di Phil entrarono in collisione. In mezzo alla confusione turbinosa, emerse James. Non sapeva cosa fare. James non c’entrava nulla con quel che stava accadendo. Ebbe una mezza idea di cacciarlo via, di dirgli che quel disgustoso scherzo era finito.

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Prima che potesse decidersi, James si avvicinò e gli disse sottovoce: «Tieniti pronto stanotte alle undici». Phil sussultò. «Per fare cosa?» «Tieniti pronto e basta, ok? E porta con te qualche indumento di Poppy. Qualunque abito di cui non si noti la mancanza». Phil non disse nulla, e James gli lanciò un’occhiata di traverso, esasperato. «Dobbiamo tirarla fuori, idiota. O vuoi lasciarla lì?». Crash. Il rumore di due mondi che entravano in collisione. Per un istante Phil vorticò nello spazio senza riuscire ad ancorarsi a nessuno dei due universi. Poi, con il mondo normale che crollava a pezzi intorno a lui, si appoggiò alla parete e sussurrò: «Non posso. Non posso farlo. Tu sei pazzo». «Sei tu pazzo. Ti comporti come se non fosse successo nulla. E devi aiutarmi, perché non posso farcela da solo. In un primo momento sarà disorientata, una specie di sonnambula. Avrà bisogno di te». Queste parole scossero Phil. Si raddrizzò di colpo e chiese sottovoce: «L’hai sentita ieri notte?». James guardò altrove. «Non era sveglia. Stava semplicemente sognando». «Come potevamo sentirla da una tale distanza? Persino mio padre l’ha sentita. Ascolta». Afferrò James per il risvolto della giacca. «Sei sicuro che stia bene?» «Un minuto fa eri convinto che fosse morta e sepolta. Adesso vuoi garanzie che stia bene. Ma non posso dar-

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tene». Fissò Phil con gli occhi duri come ghiaccio grigio. «Non l’ho mai fatto prima, va bene? Ho solo seguito le istruzioni. E c’è sempre qualcosa che può andare storto. Ma», continuò con aria decisa appena Phil aprì la bocca, «l’unica cosa che so con certezza è che se la lasciamo lì dov’è, avrà un risveglio davvero spiacevole. Afferrato il concetto?». Phil allentò adagio la presa sulla giacca. «Sì. Scusa. È che non riesco a crederci». Quando alzò lo sguardo vide che l’espressione di James si era lievemente addolcita. «Ma se ieri notte stava urlando, allora era viva, giusto?» «È forte», concluse James. «Non ho mai conosciuto nessuno che abbia poteri telepatici così forti. Diventerà qualcosa di eccezionale». Phil cercò di non immaginare cosa in particolare. Naturalmente, James era un vampiro, e aveva un aspetto perfettamente normale – il più delle volte. Ma la mente di Phil continuava a proiettargli immagini di Poppy in versione mostro hollywoodiano. Occhi rossi, pelle cinerea e denti gocciolanti di sangue. Se fosse venuta fuori in quel modo, avrebbe cercato di amarla. Ma una parte di lui forse avrebbe preferito procurarsi un palo di legno. Di notte, il cimitero di Forest Park cambiava completamente aspetto. L’oscurità era molto fitta. Sulle sbarre di

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ferro, un avviso recitava: «Vietato l’ingresso dopo il tramonto», ma il cancello era aperto. Quanto vorrei non essere qui, pensò Phil. James guidò lungo la stretta strada che girava intorno al cimitero e parcheggiò sotto un vecchio e imponente ginkgo. «E se qualcuno ci vede? Non c’è un custode o roba del genere?» «C’è un guardiano notturno. Sta dormendo. Me ne sono occupato io prima di passare a prenderti». Scese dalla macchina e cominciò a scaricare un’incredibile quantità di attrezzi dal sedile posteriore dell’Integra. Due grosse torce. Un piede di porco. Alcune vecchie tavole di legno. Un paio di teli impermeabili. E due pale nuove di zecca. «Aiutami a portare questa roba». «A cosa serve?», esclamò. Ma alla fine lo aiutò. La ghiaia scricchiolò sotto i suoi piedi mentre seguiva James lungo uno dei sinuosi sentieri. Salirono una scalinata di legno rovinata dalle intemperie e scesero dall’altra parte, nel Paese dei Balocchi. Era così che qualcuno l’aveva definito, al funerale. Phil aveva ascoltato per caso due colleghi di Cliff che ne stavano parlando. Era un settore del cimitero dove erano sepolti in prevalenza bambini. Non c’era bisogno di leggere sulle lapidi per capirlo: sulle tombe erano posati orsacchiotti e altri giocattoli.

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La tomba di Poppy era proprio al limitare del Paese dei Balocchi. Non aveva ancora una lapide, naturalmente. C’era solo un indicatore di plastica verde. James gettò il carico sull’erba e s’inginocchiò a esaminare il terreno alla luce di una torcia. Phil rimase in piedi, in silenzio, guardandosi intorno. Era ancora spaventato: in parte era il normale timore che potessero sorprenderli prima che avessero completato il lavoro, e in parte la paura soprannaturale che non avrebbero dovuto farlo. Gli unici suoni erano il frinire dei grilli e il traffico in lontananza. I rami degli alberi e i cespugli ondeggiavano lievemente al vento. «Ok», disse James. «Prima dobbiamo staccare questa zolla erbosa». «Eh?». Phil non si era neppure chiesto come mai ci fosse già dell’erba su una fossa appena chiusa. Ma era evidente che fossero state impiantate delle zolle d’erba. James aveva trovato il bordo di una striscia e la stava arrotolando come un tappeto. Phil individuò un altro bordo. Le strisce erano lunghe circa due metri l’una e larghe una quindicina di centimetri. Erano pesanti, ma non fu troppo faticoso arrotolarle ai piedi della tomba. «Lasciamole qui. Dopo dovremo rimetterle a posto», borbottò James. «Non deve sembrare che questo luogo sia stato violato».

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Improvvisamente Phil capì. «Ecco perché quei teli impermeabili e tutto il resto». «Già. Un po’ di confusione non desterà sospetti. Ma se lasciamo tracce dappertutto, qualcuno comincerà a porsi qualche domanda». James dispose le tavole di legno intorno al perimetro della fossa, poi spiegò i teli su entrambi i lati. Phil lo aiutò a distenderli. Al posto delle zolle erbose c’era adesso terreno fresco e argilloso. Phil sistemò una torcia e prese una pala. Non posso credere a quel che sto per fare, pensò. Ma lo fece. E finchè dovette pensare soltanto alla fatica fisica di scavare un buco nel terreno, non ebbe problemi. Si concentrò sul lavoro, pigiando il piede sulla pala. Affondò nel terriccio, senza trovare alcuna resistenza. Era facile sollevare una palata di terra e scaricarla sul telo. Ma alla trentesima palata cominciò a essere stanco. «È da pazzi. Ci serve un’escavatrice», disse, asciugandosi il sudore della fronte. «Riposati un po’, se vuoi», replicò freddamente James. Phil comprese. Era James l’escavatrice. Era più forte di chiunque avesse mai conosciuto. Lanciava una palata di terra dopo l’altra senza alcuno sforzo. Lo faceva apparire un gioco. «Perché non abbiamo uno come te nella squadra di football?», disse Phil, appoggiandosi stancamente alla pala.

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«Preferisco gli sport individuali. Tipo il wrestling», rispose James, rivolgendo un rapido sorriso a Phil. Era la tipica risposta che i ragazzi si scambiano dentro uno spogliatoio, e il significato era inequivocabile. Intendeva il wrestling insieme, per esempio, a Jacklyn, o a Michaela. E, a quella battuta, Phil non potè fare a meno di sorridere a sua volta. Non riuscì a trovare alcuna nota di giusta riprovazione. Nonostante la forza di James, ci volle molto tempo per scavare la fossa. Era più larga di quanto Phil si aspettasse. E quando la sua pala cozzò contro qualcosa di solido, capì a cosa serviva tutta quello spazio. «È la doppia cassa», disse James. «Quale cassa?» «La cassa di protezione esterna. La bara viene collocata all’interno, così se il terreno dovesse cedere non verrebbe danneggiata. Esci fuori, e passami il piedi di porco». Phil risalì dalla fossa e gli passò l’attrezzo. Adesso riusciva a vedere la cassa: era di calcestruzzo grezzo, e doveva essere un semplice contenitore rettangolare con un coperchio. James lo stava aprendo facendo leva con il palanchino. «Ecco», disse James, grugnendo per lo sforzo quando sollevò la lastra e la fece scivolare adagio dietro la cassa. Per questo la fossa era così larga: per contenere il coperchio da un lato e James dall’altro.

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Guardando in fondo alla cavità, Phil vide la bara, coperta da una pioggia di rose gialle appassite. James aveva l’affanno, ma Phil non pensava che fosse per lo sforzo appena compiuto. Gli sembrava che i suoi polmoni fossero schiacciati sotto un peso immane e il cuore martellava nel petto con tanta intensità da far tremare tutto il corpo. «Oh, Dio», esclamò, senza particolare enfasi. James alzò lo sguardo. «Ok. Ci siamo». Spinse le rose verso i piedi della bara. Poi, con movimenti che a Phil parvero eseguiti al rallentatore, cominciò ad aprire i chiavistelli sul fianco dello scrigno. Una volta aperti, fece una breve pausa con le mani aperte posate sulla superficie liscia del feretro. Infine sollevò il pannello, e Phillip poté guardare all’interno.

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Capitolo 12 Poppy giaceva sulla morbida fodera bianca, gli occhi chiusi. Era molto pallida e di una strana bellezza – ma era morta? «Svegliati», disse James. Posò una mano su quelle della ragazza. Phillip ebbe la sensazione che la stesse chiamando con la mente e non solo con la voce. Seguì un lungo momento angoscioso durante il quale non accadde nulla. James passò l’altra mano sotto il collo di Poppy e la sollevò leggermente. «Poppy, è ora. Svegliati. Svegliati». Un fremito di ciglia. Qualcosa vibrò violentemente dentro Phillip. Avrebbe voluto lanciare un grido di vittoria e battere i piedi sull’erba. Ma anche scappare via. Alla fine le ginocchia cedettero di colpo, e crollò a terra accanto alla fossa. «Andiamo, Poppy. Alzati. Dobbiamo andare». James le parlava con tono dolce e insistente, lo stesso che si usa con un paziente che si sta risvegliando da un’anestesia. Ed era esattamente l’impressione che dava Poppy. Davanti agli occhi affascinati, sgomenti e terrorizzati di Phil, sbatté le palpebre e girò appena la testa. Poi aprì gli

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occhi. Li richiuse quasi subito, ma James continuò a parlarle, finché li riaprì. Spronata delicatamente dall’amico, si levò a sedere. «Poppy», disse Phil, senza riuscire a trattenersi. Qualcosa si gonfiava nel suo animo, gli ardeva nel petto, sul punto di esplodere. Poppy sollevò lo sguardo, ma socchiuse gli occhi e si sottrasse immediatamente al fascio di luce della torcia. Sembrava infastidita. «Coraggio», la sollecitò James, aiutandola a uscire dalla metà aperta della bara. Non fu difficile: Poppy era minuta. Sorretta da James, salì in piedi sul coperchio; Phil si protese nella fossa e la tirò su. La strinse in un abbraccio convulso. Quando si tirò indietro per guardarla, Poppy lo esaminò battendo le palpebre. Aggrottò lievemente la fronte, s’inumidì un dito e lo passò sulla guancia del fratello. «Sei sporco», gli disse. Parlava. Non aveva gli occhi rossi o il viso terreo. Era viva, davvero. Sopraffatto da un senso di sollievo, la strinse di nuovo fra le braccia. «Oh, Dio, Poppy, stai bene. Stai bene». Quasi non si accorse che la sorella non gli stava restituendo l’abbraccio. James si arrampicò fuori dalla fossa. «Come ti senti, Poppy?», le chiese. Non era una gentilezza, ma una domanda precisa e indagatrice.

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Poppy guardò prima lui, poi Phil. «Mi sento… bene». «Ottimo», replicò James, continuando a tenerla d’occhio come se fosse un gorilla schizofrenico di trecento chili. «Ho… fame», aggiunse Poppy, con la sua consueta voce gradevole e melodiosa. Phil esitò, senza sapere cosa fare. «Perché non vieni qui, Phil?», disse James, facendogli segno di allontanarsi dalla sorella. Phil cominciò ad avvertire un profondo senso di disagio. Poppy stava… lo stava fiutando? Non erano annusate umide e sonore, ma le delicate sniffatine di un gatto. Gli sta fiutando una spalla. «Phil, credo che dovresti venire qui da me», ripetè James con maggior enfasi. Ma quel che accadde dopo avvenne con tale rapidità che Phil non riuscì neanche a muoversi. Mani delicate strinsero in una morsa d’acciaio i bicipiti del ragazzo. Poppy gli sorrise mostrando i denti affilati, poi gli saltò alla gola come un cobra che sferra il suo attacco mortale. Sto per morire, pensò Phil con insolita calma. Non poteva competere con lei. Ma il primo colpo fallì. I denti aguzzi gli graffiarono la gola come due punte infuocate. «No, non farlo», intervenne James. Le cinse la vita con un braccio e la staccò da Phil.

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Poppy emise un gemito di delusione. Mentre Phil cercava di riprendersi, la sorella lo puntò come un gatto che abbia individuato un insolito insetto. Non gli tolse mai gli occhi di dosso, nemmeno quando James le parlò. «È tuo fratello, Phil. Il tuo gemello. Ricordi?». Poppy continuò semplicemente a fissarlo con le pupille enormemente dilatate. Phil notò che la sorella non era soltanto pallida e bella, ma anche confusa e famelica. «Mio fratello? Uno di noi?», chiese Poppy, perplessa. Gli tremarono le narici e le labbra si schiusero. «Ha un odore diverso». «No, non è uno di noi, ma non devi morderlo comunque. Dovrai aspettare ancora un po’ prima di nutrirti». Rivolgendosi a Phil, disse: «Riempiamo questa fossa, svelto». Sul momento, Phil non riuscì a muoversi. La sorella lo stava ancora osservando con quello sguardo intenso e sognante. Rimase ferma nell’oscurità, con il suo bel vestito bianco, esile come un giglio, il volto incorniciato dai riccioli. E lo guardava con gli occhi di un giaguaro. Non era più umana. Era qualcosa di diverso. Era stata Poppy a dirlo: lei e James erano di una specie e Phil di un’altra. Ormai apparteneva al Mondo delle Tenebre. Oh, Dio, forse avremmo dovuto lasciarla morire, pensò Phil, e sollevò una palata di terra con mani fiacche e tremanti. James aveva già richiuso il coperchio della cassa esterna. Phil scaricò il contenuto della pala senza

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guardare dove andasse a cadere. La testa gli dondolava come se avesse un nettapipe al posto del collo. «Non fare l’idiota», disse una voce, e dita forti si serrarono intorno al suo polso. In un’immagine confusa, riuscì a distinguere James. «Non starebbe meglio se fosse morta. È solo confusa. È una condizione temporanea, ok?». Gli parlò aspramente, ma Phil si sentì confortato. Forse James aveva ragione. La vita è bella, in qualsiasi forma. E Poppy aveva scelto questa. Eppure, era cambiata, e solo il tempo avrebbe detto fino a che punto. L’unico problema era che Phil aveva commesso l’errore di pensare che i vampiri fossero come gli umani. Si era sentito così a proprio agio in compagnia di James che aveva quasi dimenticato la loro diversità. Non avrebbe commesso lo stesso errore un’altra volta. Poppy si sentiva magnificamente bene – sotto ogni aspetto. Si sentiva forte, e avvolta da un’aura di mistero. Ispirata e piena di possibilità. Le sembrava di essersi liberata del vecchio corpo come un serpente che avesse cambiato pelle, per scoprire un nuovo corpo intatto sotto di essa. Ed era sicura – pur non sapendo da dove venisse questa certezza – di non avere più il cancro.

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Era sparito, quell’orribile essere che si andava espandendo in modo incontrollato dentro di lei. Il nuovo corpo l’aveva ucciso e in qualche modo assorbito. O forse, più semplicemente, ogni cellula che costituiva Poppy North, ogni molecola, si era trasformata. Comunque fosse, era sana e piena di vita. Si sentiva in forma come prima di ammalarsi di cancro, anzi, come non si era mai sentita in vita sua. Era insolitamente consapevole del proprio corpo, i cui muscoli e legamenti sembravano funzionare in modo fluido e quasi magico. L’unico problema era che aveva fame. Stava impiegando tutta la propria forza di volontà per non avventarsi su quel ragazzo biondo nella fossa. Phillip. Suo fratello. Sapeva che era suo fratello, ma era anche un umano, e lei fiutava quel sostanzioso alimento, ricco di vita, che gli scorreva nelle vene. Il fluido inebriante che era necessario per vivere. Dai, saltagli addosso, le bisbigliava una parte della sua mente. Poppy si concentrò, cercando di allontanare quel pensiero. Avvertì qualcosa nella bocca che premeva leggermente sul labbro inferiore, e istintivamente lo toccò con il pollice. Era un dente. Un fine dente ricurvo. Entrambi i canini erano lunghi e appuntiti, e molto sensibili. Che strano. Passò delicatamente il dito sui nuovi denti, poi li saggiò piano con la lingua. Li premette contro il labbro.

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Un istante dopo si ritrassero, tornando alle loro normali dimensioni. Se pensava agli umani, pieni di succo come frutti di bosco, si allungavano di nuovo. Ehi, guarda un po’ cosa riesco a fare! Ma non importunò di due ragazzi sporchi di terra che continuavano a riempire la fossa. Si guardò intorno, tentando di distrarsi. Strano – sembrava che non fosse né giorno né notte. Forse si tratta di un’eclissi. C’era troppa foschia per essere giorno, ma anche troppa luce per essere notte. Riusciva a distinguere le foglie sugli aceri e le griglie Tillandsia frondose che pendevano dalle querce. Vide le ali chiare di esili falene che svolazzavano tra le piante. Quando alzò lo sguardo verso il cielo, rimase scioccata. C’era qualcosa che galleggiava lassù, una sfera gigante che risplendeva di luce argentea. Pensò a qualche astronave, a mondi alieni, prima di capire. Era la Luna. Una normale luna piena. E le appariva così enorme e pulsante di luce a causa della sua capacità di visione notturna. Ecco perché vedeva anche le falene. Tutti i suoi sensi si erano affinati. Deliziose fragranze le aleggiavano intorno: l’odore di piccoli animali rintanati sottoterra e di prelibati volatili. Il vento le portò un allettante sentore di coniglio. Anche l’udito la sorprese. Una volta girò di scatto la testa quando un cane abbaiò proprio accanto a lei. Ma poi

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si rese conto che era lontano, fuori da cimitero. Eppure le era parso così vicino. Scommetto che riesco anche a correre velocemente, pensò. Sentì un fremito nelle gambe. Aveva voglia di correre, di immergersi in quella notte deliziosa e piena di profumi, di confondersi in essa. Adesso ne era diventata parte. James, disse. E la cosa strana fu che non lo chiamò ad alta voce, come se per lei fosse abituale comunicare in quell’altro modo. James sollevò gli occhi dalla pala. Resisti, le rispose allo stesso modo. Abbiamo quasi finito, piccola. Poi m’insegnerai a cacciare? Il giovane annuì appena con il capo. I capelli gli ricadevano sulla fronte ed era adorabilmente sporco. A Poppy parve di non averlo mai visto realmente prima d’allora – perché adesso lo viveva con nuovi sensi. James non era soltanto serici capelli castani ed enigmatici occhi grigi, e muscoli flessuosi. Era l’odore della pioggia d’inverno e il battito del suo cuore di predatore, e l’aura argentea di potere che percepiva intorno a lui. Capiva la sua indole, scattante e spietata come una tigre, ma allo stesso tempo gentile e in qualche modo malinconica. Adesso siamo compagni di caccia, gli comunicò con impazienza, e James le rispose con un sorriso d’intesa. Ma Poppy avvertì che era preoccupato. Oppure c’era

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qualcosa che lo rattristava o lo angosciava, e non voleva dirle cosa fosse. Ma non poté pensarci a lungo. Non aveva più fame… si sentiva strana. Non riusciva a respirare fino in fondo. James e Phillip stavano scuotendo i teli e srotolando le strisce di zolle erbose per ricoprire la tomba. La sua tomba. Buffo che non ci avesse ancora pensato. Era stata chiusa in una tomba – avrebbe dovuto provare repulsione o paura. Non ricordava affatto di esserci stata – non ricordava nulla dal momento in cui si era addormentata nella sua stanza fino a quando si era svegliata al richiamo di James. Niente, tranne un sogno… «Ok», disse James. Stava ripiegando un telo. «Possiamo andare. Come ti senti?» «Uhm… un po’ scombussolata. Non riesco a inspirare profondamente». «Neanche io», disse Phil, ansimando e asciugandosi la fronte. «Non sapevo che scavare tombe fosse così faticoso». James lanciò a Poppy un’occhiata indagatrice. «Pensi di farcela ad arrivare al mio appartamento?» «Uhm? Credo di sì». Poppy non capì di cosa stesse parlando. Farcela come? E perché andare nel suo appartamento avrebbe dovuto aiutarla a respirare?

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«Conosco un paio di donatori sicuri nel condominio», disse James. «Non voglio assolutamente che tu vada in giro, e penso che ce la farai ad arrivare». Poppy non fece altre domande. Cominciava ad avere difficoltà a pensare razionalmente. James le consigliò di nascondersi nel sedile posteriore della macchina, ma Poppy si rifiutò. Aveva bisogno di sedersi davanti e sentire l’aria della notte sulla faccia. «Ok», si rassegnò James. «Ma almeno nascondi il viso dietro il braccio. Passerò per strade secondarie. Non puoi farti vedere, Poppy». Sembrava che in strada non ci fosse proprio nessuno che potesse vederla. L’aria che le sferzava le guance era fresca e piacevole, ma non la aiutò a respirare. Per quanto si sforzasse, non riusciva a prendere aria come si deve. Sto andando in iperventilazione, pensò. Il cuore le batteva all’impazzata, le labbra e la lingua erano secche come pergamena. E avvertiva sempre quel senso di mancanza d’aria. Cosa mi sta succedendo? Poi cominciò il dolore. Contratture lancinanti ai muscoli – come i crampi che le venivano quando partecipava alle corse su pista alla scuola media. Ricordò vagamente quel che le aveva detto l’insegnante di educazione fisica. «I crampi vengono quando i muscoli non ricevono abbastanza sangue. Un

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crampo da sforzo è un gruppo di muscoli che sta morendo di fame». Oh, che male. Che male. Ormai non riusciva neanche a chiedere aiuto a James; poteva solo restare aggrappata alla portiera della macchina e tentare di respirare. Inspirava convulsamente ed espirava sibilando, ma senza risultato. Crampi ovunque – e adesso provava un tale senso di vertigine che vedeva il mondo attraverso uno scintillio di luci. Stava morendo. Qualcosa era andato terribilmente storto. Era sott’acqua, annaspava disperatamente in cerca di ossigeno – solo che non c’era ossigeno. E d’un tratto trovò la soluzione. O la fiutò, a dire il vero. La macchina si era fermata al semaforo. Poppy aveva la testa e le spalle fuori dal finestrino – a all’improvviso percepì l’odore di qualcosa di vivo. Vita. Era ciò di cui aveva bisogno. Non pensò, agì e basta. Con un unico movimento, aprì la portiera e si lanciò fuori dalla macchina. Sentì Phil gridare dietro di lei e l’urlo di James echeggiarle nella testa. Non badò a nessuno dei due. Niente aveva importanza, se non fare cessare la sofferenza. Tentò di afferrare l’uomo sul marciapiede come un uomo che sta annegando si aggrappa al soccorritore. Istintivamente. Era alto e robusto, per essere un umano.

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Indossava una tuta nera e un giubbotto da pilota. Il volto era ispido e la pelle non proprio pulita, ma non contava. A Poppy non interessava il recipiente, ma solo quel delizioso, denso contenuto rosso. Questa volta colpì con assoluta precisione. I formidabili canini si allungarono come artigli e affondarono nella gola del malcapitato, bucandola come uno dei quegli apribottiglie vecchio stile. L’uomo cercò di divincolarsi, poi si afflosciò a terra. Finalmente stava bevendo, la gola inondata di quella dolcezza ramata. Sopraffatta da una pura avidità animale, attingeva linfa vitale dalle sue vene. Il liquido che le riempiva la bocca era selvatico, puro, primitivo, e ogni sorsata le infondeva nuova vita. Continuò a bere finché il dolore scomparve, lasciando il posto a un senso di euforica leggerezza. Quando si fermò a riprendere fiato, sentì i polmoni riempirsi di aria fresca e benefica. Si chinò per continuare a bere, succhiare, leccare, inebriarsi. L’uomo racchiudeva in sé un limpido ruscello gorgogliante, e lei voleva prosciugarlo. Fu a questo punto che James le sollevò la testa. Le parlò sia ad alta voce che attraverso la mente, con tono calmo ma intenso. «Poppy, scusa. Mi dispiace. È stata colpa mia. Non avrei dovuto farti aspettare così a lungo. Ma ora ne hai preso abbastanza. Puoi fermarti».

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Oh… confusione. Poppy scorse Phillip con la coda dell’occhio, suo fratello Phillip, che la guardava inorridito. James aveva detto che poteva fermarsi, ma non significava che fosse costretta. Lei non voleva. L’uomo non si dibatteva più ormai. Sembrava privo di sensi. Si chinò ancora. Stavolta James la tirò indietro piuttosto rudemente. «Ascolta», le disse. Lo sguardo era pacato, ma la voce risoluta. «Puoi scegliere, Poppy. Vuoi davvero ucciderlo?». Quelle parole la scossero e le fecero riacquistare la consapevolezza. Uccidere… quello era il modo per ottenere potere, lo sapeva. Il sangue era potere, vita, energia, cibo e bevanda. Se avesse prosciugato quest’uomo spremendolo come un agrume, avrebbe acquisito la forza della sua essenza. Chissà cosa sarebbe riuscita a fare dopo. Ma… era un uomo, non un limone. Un essere umano. Una volta lo era stata anche lei. Lentamente, a malincuore, si rialzò e James tirò un lungo respiro di sollievo. Le batté la mano sulla spalla e si sedette sul marciapiede, troppo stanco per restare in piedi. Phil si era accasciato contro il muro del palazzo vicino. Era sgomento, e Poppy lo percepì chiaramente. Riuscì anche a cogliere alcune parole dei suoi pensieri – parole

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come orrendo e amorale. Un’intera frase che diceva più o meno così: È valsa la pena salvarle la vita per farle perdere l’anima? James si girò di scatto per guardare Phil, e Poppy sentì la vampa della sua rabbia. «Non capisci, vero?», lo apostrofò. «Avrebbe potuto attaccare te in qualsiasi momento, ma non l’ha fatto, anche se stava morendo. Tu non sai cosa si prova quando si ha bisogno di sangue. Non è come avere sete – è come soffocare. Le tue cellule cominciano a morire per mancanza di ossigeno, perché il tuo sangue non è in grado di veicolarlo. È la peggior sofferenza che esista, ma lei non ti ha dato la caccia per placarla». Phillip parve sbigottito. Guardò fisso la sorella, poi le tese una mano esitante. «Mi spiace…». «Non parliamone più», tagliò corto James. Voltò le spalle a Phil e si chinò a esaminare l’uomo. Poppy sentì che cercava di comunicare con la sua mente. «Gli sto dicendo che deve dimenticare l’accaduto», le spiegò. «Ha solo bisogno di riposare, e potrà farlo anche qui. Guarda, le ferite si stanno già rimarginando». Lei ne prese atto, ma non riuscì a esserne felice. Sapeva che Phil la disapprovava. Non per qualcosa che aveva fatto, ma per quello che era. Cosa mi è successo?, chiese a James, gettandosi fra le sue braccia. Mi sono trasformata in un mostro?

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La strinse forte. Sei semplicemente diversa. Non un mostro. Phil è un idiota. Le venne da ridere. Ma percepì ancora una nota di tristezza nel suo amore protettivo. La stessa tristezza che aveva avvertito prima. A James non piaceva essere un predatore, e adesso aveva reso Poppy uguale a sé. Il loro piano era brillantemente riuscito – e Poppy non sarebbe stata mai più la Poppy North di una volta. Sebbene riuscisse a sentire i pensieri di James, non era più un fondersi l’uno nell’altra come quando si erano scambiati il sangue. Non avrebbero sperimentato più quella intimità. «Non c’era altra scelta», dichiarò risolutamente Poppy, e questa volta ad alta voce. «Abbiamo fatto quel che era necessario. Adesso dobbiamo fare buon viso a cattivo gioco». Sei una ragazza coraggiosa. Te l’avevo mai detto? No. E anche se l’avessi fatto, non mi dispiace sentirmelo ripetere. Percorsero il tragitto fino all’appartamento di James in silenzio, gravati dal peso dello sconforto di Phil, seduto sul sedile posteriore. «Senti, puoi tornare a casa con la mia macchina», gli disse James, scaricando l’attrezzatura e i vestiti di Poppy non posto auto coperto. «Non ho intenzione di portare Poppy da nessuna parte, né di lasciarla sola».

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Phil diede un’occhiata allo scuro edificio a due piani come se gli fosse venuto in mente qualcosa. Poi si schiarì la gola. Poppy sapeva il perché: l’appartamento di James non godeva di una buona fama, e lei non aveva mai avuto il permesso di andarci di sera. A quanto pareva, Phil aveva ancora qualche fraterna preoccupazione per la sorellina vampiro. «Ma, ehm, non puoi portarla a casa dei tuoi genitori?» «Quante volte te lo devo spiegare? No, non posso portarla dai miei, perché loro non sanno che è un vampiro. Per il momento è un vampiro illegale, una rinnegata, e significa che deve restare nascosta finchè non sistemeremo la faccenda – in un modo o nell’altro». «Come…». Phil s’interruppe e scosse la testa. «Ok. Non stasera. Ne parleremo un’altra volta». «No, “noi” non ne parleremo», replicò aspramente James. «Tu non fai più parte di questa storia. È affar mio e di Poppy. Devi solo tornare a casa e vivere la tua vita normale, e tenere la bocca chiusa». Phil stava per aggiungere qualcosa, ma si frenò. Prese le chiavi che gli stava porgendo James. Poi guardò Poppy. «Sono felice che tu sia viva. Ti voglio bene», le disse. Poppy sapeva che avrebbe voluto abbracciarla, ma nessuno dei due riuscì a farsi avanti. Provò un senso di vuoto nel petto. «Ciao, Phil». Il fratello salì in macchina e si allontanò.

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Capitolo 13 «Lui non capisce», disse Poppy sottovoce, mentre James apriva la porta dell’appartamento. «Non ha ancora capito che anche tu stai rischiando la vita». L’ambiente era spoglio e funzionale. I soffitti alti e i locali ampi rivelavano che si trattava di un appartamento costoso, ma l’arredo era scarno. Nel soggiorno c’erano un divano basso e squadrato, una scrivania con il computer e un paio di quadri in stile orientale appesi alle pareti. E libri. Scatole di cartone erano accatastate negli angoli. Poppy si girò per guardare James dritto negli occhi. «Jamie… io capisco». Il ragazzo le sorrise. Era sudato, sporco e aveva un’aria stanca, ma la sua espressione diceva che ne era valsa la pena: Poppy stava bene, e solo questo importava. «Non biasimare Phil», disse lui con un gesto di noncuranza. «In effetti sta gestendo piuttosto bene la situazione. Non sono ancora uscito allo scoperto con un umano prima d’ora, ma credo che se l’avessi fatto sarebbe fuggito gridando e non sarebbe mai più tornato. Almeno lui ci sta provando».

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Poppy annuì e lasciò cadere l’argomento. James era stanco, e questo voleva dire che dovevano andare a dormire. Prese la sacca sportiva con gli indumenti che le aveva portato Phil e si diresse al bagno. Non si cambiò subito. Era affascinata dalla propria immagine riflessa nello specchio. Allora era questo l’aspetto di Poppy vampiro. Era più graziosa, notò con distratto compiacimento. Le quattro lentiggini sul naso erano sparite. La pelle era pallida e vellutata: sembrava la pubblicità di una crema per il viso. Gli occhi verdi risplendevano come gemme. Il vento le aveva spettinato i riccioli ribelli color rame. Non ho più l’aria di un elfo che potrebbe star seduto su un ranuncolo, pensò. Adesso c’è qualcosa di selvaggio, di pericoloso e di esotico in me. Come una modello. O una rock star. Come James. Si avvicinò allo specchio per esaminare i denti, punzecchiando i canini per farli allungare. Fece un balzo indietro, senza fiato. I suoi occhi. Non se ne era accorta. Oh, Dio, certo che Phil si era spaventato. Appena erano spuntati i canini aguzzi, gli occhi avevano assunto un inquietante colore verde argento. Gli occhi di un ghepardo. Di colpo fu sopraffatta dallo sgomento. Dovette aggrapparsi al lavandino per non cadere. Non voglio che sia così, non voglio che sia così…

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Oh, affronta la situazione, ragazza. Basta piagnucolare. Cosa ti aspettavi, di assomigliare a Shirley Temple? Ora sei una predatrice. E gli occhi ti diventano argento e il sangue ha per te il gusto della marmellata di ciliegie. E questo è quanto, e l’unica alternativa era “riposare in pace”. Quindi affronta la situazione. A poco a poco il respiro si calmò. Nei pochi minuti successivi qualcosa accadde dentro di lei: ci riuscì davvero. Non sentì più la morsa alla gola e allo stomaco. Non provò più quel senso di estraneità e confusione sperimentato quando si era risvegliata nel cimitero; riusciva a valutare con chiarezza la propria situazione. E ad accettarla. E ci sono riuscita senza correre da James, realizzò di colpo, stupita. Non ho bisogno che mi consoli e mi dica è tutto ok. Io posso fare in modo che sia così. Forse è quel che accade quando ti trovi a fronteggiare la cosa peggiore che possa capitarti nella vita. Aveva perso la propria famiglia e la vita cui era stata abituata, e forse anche la propria fanciullezza, ma aveva trovato se stessa. Discorso chiuso. Si sfilò l’abito bianco e indossò una maglietta e i pantaloni di una tuta. Poi andò a cercare James, a testa alta. Era in camera, disteso su un letto a due piazze con lenzuola color nocciola. Aveva ancora addosso gli indumenti sporchi e si copriva gli occhi con un braccio. Appena Poppy entrò, si scosse.

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«Dormirò sul divano», annunciò. «No», replicò Poppy, decisa. Si lasciò cadere sul letto accanto a lui. «Sei esausto. E so che con te sono al sicuro». James sorrise senza sollevare il braccio dagli occhi. «Perché sono esausto?» «Perché con te lo sono sempre stata». Ne era certa. Anche quando era un’umana e il suo sangue doveva essere per lui una tentazione, era stata la sicuro. Lo osservò, disteso sul letto, con i capelli arruffati, il corpo rilassato, le Adidas slacciate e incrostate di fango. S’intenerì guardando la piega del gomito. «Prima ho dimenticato di dirti una cosa», continuò. «Me ne sono resa conto solo quando stavo… per addormentarmi. Ho dimenticato di dirti che ti amo». James si drizzò a sedere. «Hai solo dimenticato di dirlo a parole». Un sorriso le increspò le labbra. Era questa la cosa sorprendente, l’unica assolutamente valida in tutto quel che le era capitato. Lei e James erano insieme. Il loro rapporto era cambiato – ma conservava ancora tutto quel che lo aveva reso prezioso fin dall’inizio. La comprensione, l’amicizia. Ora, a coronare il tutto, l’inaspettata eccitazione di scoprire che non erano solo grandi amici. E aveva conosciuto quella parte di lui che non era mai riuscita a raggiungere prima. I suoi segreti, il suo animo. Gli umani non potrebbero mai conoscersi così a fondo.

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Non riuscirebbero mai a penetrare la mente di un altro. Tutti i discorsi di questo mondo non potrebbero mai dimostrare che due persone vedono il colore rosso allo stesso modo. E anche se lei e James non si fossero più fusi come due gocce d’acqua, lei sarebbe sempre stata in grado di raggiungere la sua mente. Timidamente, si appoggiò alla spalla di James. Tutte le volte che si erano trovati vicini, non si erano mai baciati o scambiati tenerezze. Per il momento, essere lì con lui era sufficiente, sentire il suo respiro e il battito del suo cuore, e assorbire il suo calore. E il suo braccio intorno alle spalle era quasi troppo, una sensazione troppo intensa da sopportare, ma allo stesso tempo serena e rassicurante. Era come una canzone, uno di quei brani dolci e struggenti che ti fanno venire la pelle d’oca. Che ti fanno desiderare di buttarti sul pavimento a cantare a squarciagola. Oppure di abbandonarti, e arrenderti totalmente alla musica. Ecco, una di quelle canzoni. James le prese una mano, posò il palmo sulle labbra e v’impresse un bacio. Te l’ho detto. Non ami qualcuno per la sua bellezza o i suoi vestiti o la sua macchina. Lo ami perché intona un canto che solo tu puoi comprendere. Poppy senti il cuore gonfiarsi fino a farle male.

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Disse ad alta voce: «Noi abbiamo sempre intonato la stessa canzone, anche quando eravamo piccoli». «Nel Mondo delle Tenebre esiste un concetto chiamato “principio dell’anima gemella”. Dice che ogni persona ne ha una, ma una soltanto. E che quella persona è perfetta per te e per il tuo destino. Il problema è che quasi nessuno trova mai la propria anima gemella, se non altro per la distanza che li separa. Così la maggior parte della gente vive tutta la vita sentendosi incompleta». «Credo sia vero. Io ho sempre saputo che tu eri perfetto per me». «Non sempre». «Oh, sì. Da quando avevo cinque anni. Ne ero certa». «Anch’io sapevo che eri perfetta per me – ma tutto quel che mi era stato inculcato mi diceva che era impossibile». Si schiarì la gola e proseguì. «Ecco perché uscivo con Michaela e le altre ragazze, capisci. Non m’importava di loro. Potevo frequentarle senza infrangere la legge». «Lo so», disse Poppy. «Voglio dire – penso di aver sempre capito che sotto c’era un motivo del genere». Poi gli chiese: «James? Cosa sono, adesso?». Istintivamente, lo sapeva, lo sentiva nel proprio sangue. Ma voleva saperne di più, ed era certa che James avrebbe capito il motivo. Adesso era questa la sua vita. E doveva impararne le regole.

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«Allora». Si accomodò a sedere contro la testiera del letto e appoggiò la testa indietro, accogliendo il viso di Poppy sotto il mento. «Sei praticamente come me. Solo che non puoi invecchiare o avere una famiglia: per il resto, chi viene trasformato in vampiro è fondamentalmente come una lamia». Si sistemò meglio a sedere. «Vediamo. Sai già di essere in grado di vedere e udire meglio degli umani. E sei un mago nella lettura della mente». «Non di tutti». «Nessun vampiro è in grado di leggere la mente di chiunque. Molte volte riporto soltanto una sensazione generale di quel che la gente sta pensando. L’unico modo certo per entrare in contatto è…». James aprì la bocca e fece scattare in fuori i canini. Poppy ridacchiò sentendo il rumore dello scatto. «E quanto spesso devo…?». Fece scattare a sua volta i canini. «Nutrirti». James si fece improvvisamente serio. «In media una volta al giorno. Altrimenti andrai in crisi per mancanza di sangue. Puoi mangiare il cibo degli umani, ma non c’è alcun nutrimento. Il sangue è tutto per noi». «E più ne bevi, più acquisti potere». «Sì, fondamentalmente è così». «Parlami del potere. Possiamo… be’, cosa siamo in grado di fare?»

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«Abbiamo un maggior controllo sul nostro corpo rispetto agli umani. Possiamo guarire da quasi ogni genere di lesione – a meno che non sia provocata dal legno. Il legno può ferirci, addirittura ucciderci». Sbuffò. «Solo su questo i film hanno ragione – un palo di legno piantato nel cuore può realmente uccidere un vampiro. Come il fuoco». «Possiamo trasformarci in animali?» «Non ho mai incontrato un vampiro così potente. Ma in teoria è possibile, e i mutaforma e i licantropi lo fanno continuamente». «E trasformarsi in nebbia?» «Non ho mai conosciuto un mutaforma che fosse in grado di farlo». Poppy battè il tallone sul letto. «E ovviamente non siamo costretti a dormire dentro una bara». «No, e non abbiamo bisogno di una tana. Personalmente, preferisco un materasso Sealy Posturepedic, ma se preferisci il fango…». Poppy gli diede una gomitata. «Unm, possiamo attraversare l’acqua che scorre?» «Certo. E possiamo entrare nelle case degli umani senza essere invitati, e rotolarci nell’aglio, se non ci dispiace perdere qualche amico. Altro?» «Sì. Parlami del Mondo delle Tenebre». Adesso era il suo mondo.

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«Ti ho parlato dei club? Abbiamo club in ogni grande città. E anche in qualche cittadina». «Che genere di club?» «Be’, alcune sono semplici bettole, altri somigliano più a dei bar, altri sono locali notturni, e poi ci sono i veri e propri club – ma questo sono soprattutto per adulti. Ne conosco uno per ragazzi: è un vecchio magazzino, dove hanno creato rampe per lo skateboard. Puoi vederti lì con gli amici e divertirti. E poi ogni settimana si organizzano serate di poesia al Black Iris». Iris nero, pensò Poppy. Le ricordava qualcosa. Qualcosa di sgradevole… Ma disse soltanto: «Che nome strano». «Tutti i club hanno il nome di un fiore. I fiori neri sono il simbolo del Popolo delle Tenebre». Girò il polso per mostrarle l’orologio. Un orologio analogico, con un iris nero al centro del quadrante. «Vedi?» «Sì. Sai, avevo notato quel simbolo nero, ma non l’avevo mai guardato con attenzione. Forse ho dato per scontato che fosse Topolino». Le diede un colpetto di rimprovero sul naso. «È una faccenda seria, piccola. Uno di questi ti rende identificabile dagli altri del Popolo delle Tenebre – anche se sono stupidi come i licantropi». «Cosa hai contro i licantropi?» «Sono favolosi se ti accontenti di un quoziente d’intelligenza a due cifre».

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«Ma li fate entrare nei club». «Non in tutti. Al Popolo delle Tenebre non è permesso sposarsi al di fuori della propria specie, ma ci frequentiamo tutti: lamie, vampiri trasformati, licantropi, i due tipi di streghe…». Poppy, che si stava divertendo a intrecciare in vari modi le loro dita, si mosse, incuriosita. «Che vuol dire due tipi di streghe?» «Oh… c’è chi è consapevole del proprio retaggio e riceve un’apposita istruzione, e il secondo tipo. Fra queste rientrano quelle che gli umani definiscono sensitive. A volte hanno solo poteri nascosti, e alcune non sono abbastanza sensitive da scoprire il Mondo delle Tenebre, per cui non vi entrano». Poppy annuì. «Ok. Ho capito. Ma cosa succede se un umano entra in uno di quei club?» «Nessuno lo farebbe entrare. I club non sono riconoscibili come tali, e sono sempre sorvegliati». «Ma se uno…». James si strinse nelle spalle. La voce di colpo cupa. «Verrebbe ucciso. A meno che qualcuno non voglia farne il proprio giocattolo o burattino. Significa che gli viene fatto il lavaggio del cervello – diventa un umano che vive con i vampiri ma non ne è consapevole, perché la sua mente è sotto controllo. Una specie di sonnambulo. Una volta avevo una tata…». La voce si spezzò, e Poppy avvertì la sua angoscia.

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«Me lo racconterai più tardi». Voleva che non dovesse soffrire mai più. «Uhm». Le sembrò assonnato. Si sistemò meglio accanto a lui. Era incredibile – ripensando all’ultima volta che si era addormentata – che avesse ancora il coraggio di chiudere gli occhi. Ma ci riuscì. Era insieme alla sua anima gemella: cosa poteva accaderle? Niente poteva ferirla. Phil non riusciva a chiudere gli occhi. Ogni volta che ci provava, vedeva Poppy. Poppy addormentata nella bara. Poppy che lo puntava con lo sguardo penetrante di un felino affamato. Poppy che sollevava la testa dalla gola di quel tipo con la bocca tinta di rosso, come se avesse mangiato frutti di bosco. Non era più umana. E il fatto che l’avesse saputo fin dall’inizio non lo aiutava ad accettare la realtà. Non poteva – non poteva – tollerare che qualcuno saltasse addosso alla gente lacerandole la gola solo per procurarsi la cena. E non era neanche sicuro che fosse meglio incantare le persone e morderle per poi indurle a dimenticare quanto accaduto. L’intero sistema era profondamente spaventoso. Forse James aveva detto bene: gli umani non riescono ad accettare l’idea che ci sia qualcuno più in alto di loro nella catena alimentare. Avevano perso ogni legame con i

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loro antenati cavernicoli, che sapevano cosa voleva dire essere cacciati. Ormai consideravano superata tutta la faccenda della preistoria. Phil avrebbe potuto raccontare loro un paio di cosette. La conclusione era che Poppy non poteva cambiare, e lui non poteva accettare la situazione. E l’unica cosa che la rendeva sopportabile era che in qualche modo lui amava comunque sua sorella. Il giorno dopo, Poppy si svegliò nella penombra creata dalle tende chiuse. L’altra metà del letto era vuota. Non si allarmò. Istintivamente si mise in contatto con la mente, e… ecco. James era nell’angolo cottura. Si sentiva… piena di energia. Come un cagnolino che tira il guinzaglio prima di essere liberato sul prato. Ma non appena s’incamminò verso il soggiorno, sentì le proprie forze scemare. E le dolevano gli occhi. Li socchiuse appena la investì l’insopportabile luminosità della finestra. «È il sole», disse James. «Inibisce ogni potere dei vampiri, ricordi?». Andò a chiudere le tende: erano a oscuramento totale, come quelle della camera da letto. La luce solare del primo pomeriggio venne lasciata fuori. «La penombra dovrebbe agevolarti – ma è meglio che per oggi resti in casa finchè non sarà buio. I neovampiri sono molto sensibili».

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Poppy percepì un significato nascosto al di là delle parole. «Stai uscendo?» «Devo». Storse la bocca. «Mi ero dimenticato: mio cugino Ash dovrebbe farsi vivo questa settimana. Devo avvertire i miei genitori di non farlo venire qui da me». «Non sapevo che avessi un cugino». Fece un’altra smorfia. «Ne ho un sacco, a dire il vero. Sono tornati nell’Est, in una città sicura – un’intera città controllata dal Mondo delle Tenebre. Quasi tutti sono ok, ma non Ash». «Che cosa ha che non va?» «È fuori di testa. Crudele, spietato…». «Sembri Phil quando parlava di te». «No, Ash è davvero così. Il vampiro per eccellenza. Pensa solo a se stesso, e gli piace creare casini». Poppy era pronta ad accettare tutti i cugini di James per amor suo, ma dovette riconoscere che Ash sembrava un tipo pericoloso. «Ora come ora, non mi fido di parlare di te a nessuno», disse James, «e Ash è fuori questione. Dirò ai miei che non può venire qui, punto e basta». E ora che facciamo?, pensò Poppy. Non poteva restare chiusa in casa per sempre. Apparteneva al Mondo delle Tenebre – ma quel mondo non l’avrebbe accettata. Doveva esserci una soluzione – e poteva soltanto augurarsi che lei e James la trovassero al più presto.

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«Non stare via troppo», gli disse. La baciò sulla fronte, un gesto carino. Stava diventando un’abitudine. Appena James fu uscito, Poppy si fece la doccia e indossò abiti puliti. Buon vecchio Phil: aveva infilato nella borsa i suoi jeans preferiti. Si mise a sfaccendare per casa, perché non aveva alcuna intenzione di starsene seduta a pensare. Nessuno dovrebbe mettersi a pensare il giorno dopo il proprio funerale. Il telefono accanto al divano la guardava con aria di sfida. Dovette frenare così spesso l’impulso di afferrarlo che alla fine aveva il braccio indolenzito. Ma chi avrebbe potuto chiamare? Nessuno. Neanche Phil: se qualcuno avesse ascoltato di nascosto? E se rispondeva la mamma? No, no, non pensare alla mamma, idiota. Ma era troppo tardi. All’improvviso fu sopraffatta da un disperato bisogno di sentire la voce della madre. Anche un semplice “pronto”. Sapeva che non avrebbe potuto parlarle. Voleva soltanto accertarsi che la mamma ci fosse ancora. Digitò i numeri senza concedersi tempo per riflettere. Contò gli squilli. Uno, due, tre… «Pronto?». Era la voce della mamma. Ed era già tutto finito, e non era sufficiente. Poppy rimase seduta cercando di prendere fiato, con le lacrime che le rigavano le guance. Sospesa, torcendo il filo del telefono fra le dita, ascoltando il de-

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bole ronzio dall’altra parte della cornetta. Un detenuto di fronte alla corte, in attesa di udire la sentenza di condanna. «Pronto? Pronto». La voce della mamma era stanca e inespressiva. Non alterata. Gli scherzi telefonici non sono granchè quando hai appena perso tua figlia. Poi un clic segnalò che la comunicazione era stata chiusa. Poppy si strinse la cornetta al petto e pianse, dondolandosi lievemente. Alla fine la rimise sulla forcella. Bene, non l’avrebbe fatto un’altra volta. Era peggio che non poter più sentire la sua voce. E non l’aiutava di certo ad affrontare la realtà. Provò una continua sensazione di esclusione pensando che la mamma era a casa, che tutti erano a casa, e che Poppy non era lì. In quella casa la vita continuava, ma lei non ne faceva più parte. Non poteva più entrarvi, non più di quanto potesse entrare in casa di estranei. Vuoi proprio farti del male, eh? Perché non la smetti di pensare e fai qualcosa per distrarti? Stava curiosando tra i documenti di James quando sentì aprirsi la porta dell’appartamento. Aveva sentito il tintinnio delle chiavi, quindi immaginò che fosse James. Invece, ancor prima di voltarsi, capì che non si trattava di James. Non era la mente di James. Si girò e vide un ragazzo con i capelli biondo cenere.

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Era molto attraente, il fisico come quello di James, ma un po’ più alto, e forse aveva un anno di più. Portava i capelli piuttosto lunghi. La forma del viso era gradevole, con i lineamenti ben marcati, e gli occhi leggermente allungati gli davano un’aria maliziosa. Ma non era questo il motivo per cui era rimasta a fissarlo. Le lanciò un sorriso luminoso. «Sono Ash», si presentò. «Salve». Poppy non riusciva a distogliere lo sguardo. «Tu eri nel mio sogno», disse. «Hai detto: “A volte la magia non riesce”». «Allora sei una sensitiva?» «Cosa?» «I tuoi sogni si avverano?» «Di solito no». Poppy riprese subito il controllo. «Senti, ehm, non so come tu abbia fatto ad entrare…». Fece tintinnare le chiavi. «Zia Maddy mi ha dato queste. Scommetto che James ti ha detto di non farmi entrare». Poppy decise che la miglior difesa era un buon attacco. «Perché dovrebbe avermelo detto?», chiese, e incrociò le braccia. Le lanciò un’occhiata maliziosa e divertita. In quella luce gli occhi sembravano color nocciola, quasi dorati. «Sono cattivo», rispose semplicemente.

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Poppy cercò di assumere un’espressione di legittima disapprovazione – come Phil. Non ci riuscì più di tanto. «James sa che sei qui? Dov’è adesso?» «Non ne ho idea. Zia Maddy mi ha consegnato le chiavi a pranzo, poi è uscita per lavoro. Com’era il tuo sogno?». Poppy scosse la testa, tentando di ragionare. Probabilmente James era in giro a cercare sua madre. Appena l’avesse trovata e scoperto che Ash era andato lì, sarebbe tornato subito. Voleva dire che… be’, che lei avrebbe dovuto tenere occupato Ash fino all’arrivo di James. Ma come? Non era certo una di quelle ragazze che sanno intrattenere i ragazzo con fare adorabile e seducente. E temeva di parlare troppo, e di tradirsi. Oh, bene. Nel dubbio, chiudi gli occhi e buttati. «Conosci qualche storiella carina sui licantropi?», gli domandò. Il ragazzo scoppiò a ridere. Aveva una risata gradevole, e gli occhi non erano nocciola, dopo tutto. Erano grigi, come quelli di James. «Non mi hai ancora detto come ti chiami, piccola sognatrice», replicò. «Poppy», rispose, e subito dopo desiderò non averlo mai detto. E se la signora Rasmussen gli avesse riferito che una delle amiche di James, di nome Poppy, erea appena morta? Per nascondere il proprio nervosismo, si alzò e andò a chiudere la porta.

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«Un bel nome lamia», commentò. «Non mi piace questa moda di adottare nomi umani, non trovi? Ho tre sorelle, e hanno tutte nomi classici: Rowan, Kestrel e Jade. A mio padre scoppierebbe una vena se una di loro volesse d’un tratto chiamarsi Susan». «O Maddy?», chiese Poppy, incuriosita suo malgrado. «Eh? È il diminutivo di Madder [In inglese, robbia (n.d.t.)]». Poppy non sapeva con certezza cosa fosse la robbia. Una pianta, forse. «Naturalmente non ho niente contro James», si affrettò a dire Ash, e dalla sua voce era perfettamente chiaro che aveva qualcosa in contrario. «Per voi è diverso, qui in California. Dovete mescolarvi più spesso agli umani; dovete essere più prudenti. Così, se adottate i nome di quei parassiti può semplificare le cose…». Si strinse nelle spalle. «Oh, certo, sono veri parassiti», disse Poppy, a caso. Stava pensando: Si sta prendendo gioco di me? Oppure no? Aveva la desolante sensazione che sapesse già tutto. Era troppo agitata per restare ferma. Si diresse verso lo stereo di James. «Ti piace la musica parassita?», gli chiese. «Techno? Acid jazz? Trip hop? Jungle?». Sventolò un disco di vinile. «Questa è roba seria, vera jungle jump-up». Il ragazzo battè le palpebre, perplesso. «Oh, e questa è mu-

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sica industrial noise, magnifica. E questa invece è acid house con un pizzico di madcore…». Adesso era lui sulla difensiva. Nessuno poteva fermare Poppy quando attaccava a parlare di musica. Continuò a guardarlo con gli occhi spalancati e a blaterare, con un’aria stravagante. «E penso che la musica freestyle stia tornando di moda. Del tutto underground, finora, ma in crescita. La eurodance, d’altra parte…». Ash era seduto sul divano, con le gambe distese davanti a sé. Gli occhi erano di un azzurro intenso e leggermente vitrei. «Dolcezza», disse alla fine, «detesto interromperti. Ma io e te dobbiamo parlare». Poppy era troppo sveglia per chiedergli di cosa. «…questa sorta di continui vuoti e suoni lamentosi che ti fanno pensare: “C’è qualcuno là fuori?”», concluse, e dovette riprendere fiato. Ash colse l’occasione al volo. «Dobbiamo parlare, davvero», ripetè. «Prima che torni James». Ormai non c’era modo di evitarlo. Poppy aveva la bocca asciutta. Il ragazzo si protese verso di lei; adesso gli occhi erano turchesi come i mari tropicali. Sì, cambiano proprio colore, si disse Poppy. «Non è colpa tua», disse. «Cosa?».

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Non è colpa tua. Che non riesci a schermare la tua mente. Imparerai a farlo, le disse, e Poppy capì solo a metà discorso che Ash non stava parlando ad alta voce. Oh… cavolo. Avrebbe dovuto pensarci. Avrebbe dovuto concentrarsi e proteggere i propri pensieri. Tentò di farlo adesso. «Ascolta, non ti preoccupare. So che non sei una lamia. Sei stata trasformata, e contro la legge. James ha voluto fare il bambino cattivo». Dal momento che era inutile negare l’evidenza, Poppy alzò il mento e gli rivolse uno sguardo penetrante. «Bene, lo sai. E cosa hai intenzione di fare?» «Dipende». «Da cosa?». Le sorrise. «Da te».

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Capitolo 14 «Vedi, in fondo James mi piace», disse Ash. «Penso sia un po’ indulgente con i parassiti, ma non voglio vederlo nei guai. E di certo non voglio vederlo morto». Poppy si sentì come la notte precedente, quando il suo corpo soffriva per mancanza d’aria. Era pietrificata, troppo irrigidita per riuscire a respirare. «Intendo dire, tu lo vuoi morto?», le chiese, come se fosse la domanda più logica di questo mondo. Poppy scosse la testa. «Bene», concluse Ash. Finalmente lei riuscì a fare un respiro. «Cosa stai dicendo?» Poi, senza aspettare una risposta, proseguì: «Stai dicendo che lo uccideranno se verranno a sapere di me. Ma non devono venire a saperlo. A meno che non glielo dica tu». Ash si guardò le unghie, pensosamente, con un’espressione che voleva significare che la questione era penosa per lui quanto per Poppy. «Esaminiamo i fatti», disse. «Tu sei, di fatto, una ex umana». «Oh, sì, ero una parassita, d’accordo».

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Le lanciò un’occhiata divertita. «Non prenderla così sul personale. È quel che sei adesso, che conta. Ma James, di fatto, ti ha trasformata senza spiegare la faccenda a nessuno. Giusto? E, di fatto, è uscito allo scoperto e ti ha parlato del Mondo delle Tenebre prima che tu venissi trasformata. Giusto?» «Come puoi esserne certo? Forse mi ha trasformata senza dirmi nulla». Fece cenno di no con un dito. «Ah, ma James non farebbe una cosa simile. Lui ha queste convinzioni radicali e tolleranti riguardo agli umani e al loro libero arbitrio». «Se sai già tutto, perché me lo chiedi?», ribattè Poppy visibilmente tesa. «E se hai capito la situazione…». «La situazione è che James ha commesso almeno due reati che prevedono la morte. Tre, scommetto». Sul volto ricomparve quell’affascinante, crudele sorriso. «Deve essersi innamorato di te per fare tutto il resto». Qualcosa si agitò nell’animo di Poppy, come se dentro la gabbia toracica avesse un uccello intrappolato, in cerca di una via di fuga. Sbottò: «Non capisco come possiate stabilire leggi che vietano di innamorarsi. È insensato!». «Ma non capisci perché? Tu ne sei l’esempio perfetto. A causa dell’amore che nutre per te, James ti ha rivelato tutto e ti ha trasformata. Se avesse avuto il buon senso di reprimere i suoi sentimenti fin dall’inizio, l’intera faccenda sarebbe stata bloccata sul nascere».

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«E se non riesci a soffocare i tuoi sentimenti? Non puoi impedire alla gente di provare sentimenti». «No, certo che no», replicò Ash, e Poppy si irrigidì, guardandolo intensamente. Il giovane fece una smorfia e le disse di avvicinarsi. «Ti confido un segreto. Gli Anziani sanno che non possono realmente legiferare sui sentimenti. Perciò ti terrorizzano, in modo che non oserai mai rivelare quel che provi – e, in teoria, neanche ammetterlo a te stesso». Poppy si appoggiò di nuovo allo schienale. Raramente si era sentita così smarrita. Parlare con Ash le dava il capogiro, la faceva sentire troppo giovane e sciocca per avere una qualsiasi certezza. Si lasciò sfuggire un gesto d’impotenza e disperazione. «Ma cosa posso fare adesso? Non posso cambiare il passato…». «No, ma puoi agire nel presente». Balzò in piedi con un movimento agile e aggraziato, e cominciò a percorrere la stanza a lunghi passi. «Dunque. Dobbiamo pensare in fretta. Probabilmente tutti credono che tu sia morta». «Sì, ma…». «Allora la soluzione è semplice. Devi lasciare questa zona e restarne alla larga. Andare in qualche posto dove non possano riconoscerti, dove a nessuno interessa che tu sia stata appena trasformata o sia contro la legge. Streghe. Ci siamo! Ho alcune cugine acquisite a Las Vegas

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che potranno ospitarti. La cosa essenziale è che tu parta adesso». Ora la testa di Poppy non girava più, vorticava. Aveva le vertigini e un senso di nausea, come se fosse appena scesa dalla Space Mountain a Disneyland. «Cosa? Non riesco a capire quel che stai dicendo», disse con un filo di voce. «Te lo spiegherò strada facendo. Andiamo, sbrigati! Vuoi prendere dei vestiti?». Poppy piantò saldamente i piedi a terra e scosse la testa, cercando di schiarirsi le idee. «Senti, non capisco di cosa parli, ma io ora non posso andare da nessuna parte. Devo aspettare James». «Ma non capisci?». Ash si fermò e si girò verso di lei. Adesso gli occhi erano verdi e scintillavano in modo ipnotico. «È proprio questo che non devi fare. James non deve sapere dove sei diretta». «Cosa?» «Non capisci?», ripetè Ash. Aprì le mani e le parlò con aria quasi compassionevole. «Tu sei l’unico elemento che mette James in pericolo. Finchè resti qui, chiunque può vederti e mettere insieme gli indizi. Sei la prova circostanziale che lui ha commesso un crimine». Poppy capì. «Ma posso aspettare James, e poi lui verrà con me. Sicuramente lo vorrà». «Ma non funzionerebbe», precisò Ash. «Non importa dove andate; se siete insieme, rappresenti un pericolo per

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lui. Basterebbe guardarti, e ogni vampiro degno di questo nome intuirebbe la verità». Poppy sentì le ginocchia molli. Ash riprese a parlare con aria grave. «Con questo, non voglio dirti che tu sarai al sicuro se parti. Il rischio ti accompagnerà sempre, proprio per quel che sei. Ma finchè sarai lontana da James, nessuno potrà collegarti a lui. È l’unico modo per tenerlo al sicuro. Capisci?» «Sì. Sì, ora ho capito». Le mancò il terreno sotto i piedi. Stava cadendo, non nella musica, ma in una gelida voragine oscura. Senza alcun appiglio. «Ovviamente, è una bella pretesa chiederti di lasciare James. Forse non vorrai compiere un simile sacrificio…». Poppy sollevò il mento. Era sconvolta, svuotata, frastornata, ma parlò al giovane con totale disprezzo, pronunciando con stizza ogni singola parola. «Dopo tutto quel che ha sacrificato per me? Per chi mi hai preso?» Ash chinò il capo. «Sei coraggiosa, piccola sognatrice. Non riesco a credere che fossi un’umana». Poi sollevò lo sguardo e le disse vivacemente: «Vuoi fare i bagagli?» «Non ho molto con me», rispose Poppy, adagio, perché muoversi e parlare le causava dolore. Si avviò verso la camera da letto camminando a fatica come se il pavimento fosse coperto da schegge di vetro. «Quasi nulla. Ma devo scrivere un biglietto a James».

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«No, no», la sconsigliò Ash. «È l’ultima cosa che devi fare. Be’, in fin dei conti», aggiunse, mentre Poppy si voltava lentamente a guardarlo, «James è stato così nobile e premuroso eccetera eccetera – se gli fai sapere dove sei diretta, ti verrà subito dietro. E a quel punto che succederebbe?». Poppy scosse la testa. «Io… ok». Sempre scuotendo la testa, barcollò verso la stanza. Non aveva intenzione di discutere con Ash, ma non aveva neanche intenzione di seguire il suo consiglio. Chiuse la porta della camera e cercò con tutte le forze di schermare la propria mente. Visualizzò un muro di pietra che circondava i propri pensieri. Infilare i pantaloni della tuta, la maglietta e il vestito bianco nella borsa sportiva le richiese trenta secondi. Trovò un libro sotto il comodino e un pennarello nel cassetto. Strappò il risguardo del libro e scrisse in fretta poche righe. Caro James, sono desolata, ma se restassi per spiegarti cosa è successo, sono sicura che cercheresti di fermarmi. Ash mi ha messo di fronte alla realtà: finchè io resto nei paraggi la tua vita sarà in pericolo. E non posso permetterlo. Se ti accadesse qualcosa per causa mia, morirei. Davvero. Sto andando via. Ash mi porterà da qualche parte in cui non riuscirai a trovarmi. Dove non importerà a nessuno quel che sono. Là sarò al sicuro. Tu sarai al sicuro qui. E anche se non saremo insieme, non saremo mai realmente divisi. Ti amo. Ti amerò per sempre. Ma devo andare.

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Ti prego, saluta Phil da parte mia. La tua anima gemella, Poppy.

Le lacrime bagnarono la firma sul foglio. Mise il risguardo sul cuscino e tornò da Ash. «Su, su», le disse. «Non piangere. Stai facendo la cosa giusta». Le mise un braccio intorno alle spalle, e Poppy era talmente infelice che non riuscì a scrollarselo di dosso. Lo guardò. «Aspetta. Non metterò te in pericolo se andiamo insieme? Voglio dire, qualcuno potrebbe pensare che sei stato tu a trasformarmi in vampiro contro la legge». Spalancò gli occhi, colpito. In quel momento avevano una sfumatura viola. «Sono disposto a correre il rischio», rispose. «Perché ho un profondo rispetto per te». James salì i gradini a due a due, inviando messaggi con la mente e rifiutandosi di credere a quel che i propri sensi gli stavano dicendo. Doveva essere lì. Poppy doveva esserci… Picchiò alla porta, infilando allo stesso tempo la chiave nella toppa. La sua mente continuava a gridare. Poppy! Poppy, rispondi! Poppy! Anche di fronte alla porta spalancata e alla mente che riecheggiava nel vuoto dell’appartamento, non voleva ancora crederci. Corse da una stanza all’altra, con il

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cuore che gli martellava nel petto. La borsa non c’era più. I vestiti non c’erano più. Poppy non c’era più. Si appoggiò contro il vetro della finestra del soggiorno. In strada non c’era traccia di Poppy. E neanche di Ash. Era tutta colpa sua. Aveva rincorso sua madre per tutto il pomeriggio, da un appuntamento di lavoro all’altro, sperando di raggiungerla e parlarle. Solo per scoprire, alla fine, che Ash era già a El Camino ed era andato al suo appartamento ore prima. Con la chiave. Solo con Poppy. James aveva telefonato subito, ma non aveva risposto nessuno. Si era affrettato a tornare, superando tutti i limiti di velocità. Ma era troppo tardi. Ash, serpe velenosa, pensò. Se le fai del male, se solo le metti un dito addosso… Si ritrovò di nuovo a vagare da una stanza all’altra, cercando indizi su quel che era accaduto. Poi, in camera da letto, notò qualcosa di chiaro sulla federa color nocciola. Un foglio. Lo afferrò e cominciò a leggere. Provò un senso crescente di gelo, riga dopo riga. Quando arrivò in fondo, era duro come il ghiaccio e pronto a uccidere. Fra le lettere, c’erano piccole chiazze d’inchiostro diluito. Lacrime. Avrebbe spezzato le ossa ad Ash, una a una.

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Piegò delicatamente il foglio e lo mise in tasca. Radunò alcune cose dall’armadio e fece una telefonata dal cellulare, mentre scendeva le scale del complesso. «Mamma, sono io», disse, appena sentì il bip della segreteria telefonica. «Sarò fuori per qualche giorno. Una faccenda da sistemare. Se vedi Ash, lasciami un messaggio. Voglio parlargli». Non chiese “per favore”. Era consapevole di aver parlato in tono brusco e conciso, ma non gliene importava. Anzi, sperò di aver messo in allarme la madre. In quel momento era pronto ad affrontare sua madre, suo padre e tutti gli Anziani del Mondo delle Tenebre. Una palo di legno per ciascuno. Non era più un bambino. Nel corso dell’ultima settimana aveva superato la prova del fuoco. Aveva sfidato la morte e scoperto l’amore. Era un adulto. E carico di una gelida furia che avrebbe distrutto ogni ostacolo sul proprio cammino, pur di raggiungere Poppy. Fece altre telefonate mentre guidava l’Integra con mano esperta lungo le strade di El Camino. Chiamò il Black Iris per assicurarsi che Ash non si fosse fatto vivo al locale. Chiamò diversi club con il nome di un fiore nero, anche se non si aspettava di avere notizie. Poppy aveva scritto che Ash l’avrebbe portata lontano. Ma dove? Che tu sia dannato, Ash. Dove?

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Phil aveva gli occhi incollati alla TV, ma in realtà non la stava guardando. Come poteva lasciarsi assorbire da un talk show o dagli spot pubblicitari, quando non riusciva a pensare ad altro che alla sorella? Sua sorella, che forse stava guardando lo stesso programma oppure era in giro ad azzannare qualcuno? Sentì uno stridio di pneumatici e una macchina fermarsi di colpo. Saltò in piedi prima di rendersene conto. Strano, ma sapeva già chi era, con assoluta certezza. Doveva aver riconosciuto il rombo dell’Integra. Aprì la porta mentre James raggiungeva il portico. «Che succede?» «Andiamo». James stava già tornando verso la macchina. I suoi movimenti tradivano un’energia micidiale, una forza a stento controllata, che Phil non aveva mai visto prima. Furia incandescente, compressa, ma pronta a scattare. «Cosa c’è che non va?». James si girò verso di lui. «Poppy è scomparsa!». Phil si guardò nervosamente intorno. Per strada non c’era nessuno, ma la porta di casa era rimasta aperta. E James stava gridando come se non gli importasse di farsi sentire. Alla fine recepì le parole dell’amico. «Cosa vuoi dire, che lei…». S’interruppe e corse a chiudere la porta. Poi tornò verso la macchina; James gli aveva già aperto lo sportello.

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«Cosa vuol dire che è scomparsa?», ripetè Phil appena montato in macchina. James lanciò il motore a tutto gas. «Mio cugino Ash l’ha portata da qualche parte». «Chi è Ash?» «È un uomo morto», ribattè James, e Phil ebbe la vaga sensazione che non volesse intendere che il cugino era un morto vivente, ma che sarebbe morto, e molto presto. «E dove l’ha portata?» «Non lo so», sibilò James. «Non ne ho idea». Phil lo fissò un istante, poi disse: «Ok, ok». Non capiva cosa stesse succedendo, ma una cosa gli era chiara. James era troppo infuriato e desideroso di vendetta per pensare logicamente. Forse sembrava razionale, ma era da folli guidare a novanta all’ora in una zona residenziale senza una meta precisa. Strano che Phil riuscisse a mantenere la calma – aveva trascorso l’ultima settimana a dare di matto mentre James sosteneva il ruolo del duro. Ma avere accanto qualcuno in preda all’isteria aveva sempre fatto sentire Phil padrone di sé. «Ok, senti», cominciò. «Facciamo un passo alla volta. Rallenta, ok? Magari stiamo andando nella direzione sbagliata». Alla fine James sollevò un po’ il piede dall’acceleratore. «Ok, adesso parlami di questo Ash. Perché sta portando via Poppy? L’ha rapita?»

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«No. L’ha convinta. Le ha messo in testa che se lei resta nei paraggi io sarò in pericolo. L’unico argomento che poteva indurla a seguirlo». Con una mano sul volante, James tirò fuori dalla tasca il biglietto e lo porse a Phil. Era una pagina strappata da un libro. Lesse il messaggio e deglutì a fatica. Guardò James, che aveva gli occhi fissi sulla strada. Phil si agitò sul sedile, in evidente imbarazzo per aver ficcato il naso in un territorio privato, e per le lacrime che gli bruciavano gli occhi. La tua anima gemella, Poppy? Bene, bene. «Ti ama molto», osservò alla fine, a disagio. «E sono contento che mi abbia detto addio». Ripiegò con cura il biglietto e lo infilò sotto la leva del freno a mano. James lo prese e lo rimise in tasca. «Ash ha usato i sentimenti di Poppy per convincerla ad andarsene. Nessuno può permettersi di trattare una persona come se fosse un burattino». «Ma perché l’avrebbe fatto?» «Primo, perché gli piacciono le ragazze. Lui è un vero dongiovanni». James gettò a Phil un’occhiata caustica. «E adesso è solo con lei. Secondo, perché gli piace giocare. Come il gatto con il topo. Si trastullerà con lei per un po’, e quando si sarà stancato, la consegnerà». Phillip raggelò. «A chi?»

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«Agli Anziani. Andrà da qualche parte, e la darà ai responsabili locali che si accorgeranno che lei è un vampiro contro la legge». «E poi?» «La uccideranno». Phil si aggrappò al cruscotto. «Aspetta un minuto. Mi stai dicendo che un tuo cugino ha intenzione di consegnare Poppy a dei tizi in modo che la uccidano?» «È la legge. Ogni bravo vampiro si comporterebbe così. Mai madre lo farebbe, senza pensarci due volte». La sua voce era amara. «E lui è un vampiro. Ash», osservò stupidamente Phil. James gli lanciò un’altra occhiata. «Tutti i miei cugini sono vampiri», disse, con una breve risata. Poi cambiò espressione, e pigiò di nuovo sull’acceleratore. «Cosa… ehi, quello è uno stop!», strillò Phil. James frenò bruscamente e la macchina ruotò di centottanta gradi in mezzo alla strada, finendo sul prato di un’abitazione. «Che c’è adesso?», volle sapere Phil, ancora rigidamente aggrappato al cruscotto. James sembrava assorto nei suoi pensieri. «Ho appena capito dove possono essere andati. Dove l’ha portata. Le ha parlato di un posto sicuro, dove a nessuno importa chi lei sia. Ma ai vampiri importerebbe». «Allora sono insieme a umani?»

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«No. Ash detesta gli umani. La vorrà portare in qualche luogo nel Mondo delle Tenebre, un luogo in cui lui è un pezzo grosso. E la città più vicina controllata dal Mondo delle Tenebre è Las Vegas». Phil rimase a bocca aperta. Las Vegas? Controllata dal Mondo delle Tenebre? Provò l’improvviso impulso di ridere. Certo, era possibile, naturalmente. «E io ho sempre pensato che fosse controllata dalla mafia», commentò. «Lo è», replicò gravemente James, svoltando sulla rampa della superstrada. «Solo di genere diverso». «Ma, senti, aspetta. Las Vegas è una grande città». «Non proprio, in realtà. E comunque, non importa. So dove sono. Perché non tutti i miei cugini sono vampiri. Alcune sono streghe». Phil aggrottò la fronte. «Ah sì? E come hai fatto?» «Io non ho fatto niente. Ci hanno pensato i miei bisnonni, circa quattrocento anni fa. Hanno eseguito il rito del legame di sangue con una famiglia di streghe. Le streghe non sono effettivamente mie cugine; non sono parenti. Sono cugine acquisite; famiglia di adozione. Probabilmente non penseranno neanche che Poppy possa essere un vampiro illegale. Ed è lì che sta andando Ash». «Sono parenti acquisite», disse Ash a Poppy. Erano a bordo della vecchia Mercedes dorata dei Rasmussen che, secondo Ash, la zia Maddy aveva tanto insistito per prestargli. «Non sospetteranno di te. E le streghe non rie-

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scono a individuare un neovampiro, come fanno i vampiri». Poppy fissava l’orizzonte lontano. Era sera, e un sole rosso stava calando lentamente alle loro spalle. Tutt’intorno si estendeva un paesaggio sconosciuto e misterioso: non di un monotono colore bruno, come Poppy si sarebbe aspettata dal deserto. Più verde spento, con chiazze grigiastre. Gli alberi di yucca avevano un loro singolare fascino: non aveva mai visto piante che sembrassero formate da tentacoli. Quasi ogni forma di vegetazione era munita di spine. Si prestava bene, come luogo d’esilio. Poppy sentì di essersi lasciata alle spalle non solo la sua vecchia vita, ma anche tutto quel che le era familiare sulla Terra. «Avrò cura di te», le disse premurosamente Ash. Poppy non battè ciglio. Il Nevada apparve a Phil come una fila di luci che brillavano nell’oscurità davanti a loro. Man mano che si avvicinavano al confine, le luci si rivelavano insegne al neon con messaggi intermittenti, lampeggianti, sfolgoranti. Whishy Pete’s, annunciavano. Buffalo Bill’s. Prima Donna. E un tipo con una reputazione da dongiovanni stava portando Poppy in quel posto?

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«Accelera», disse a James appena si lasciarono le luci alle spalle e si addentrarono in un deserto buio e monotono. «Andiamo. Questa macchina può fare i centocinquanta». «Eccoci. Las Vegas», esordì Ash, come se l’intera città fosse un regalo per lei. Poppy però non vide una città, soltanto un chiarore di nuvole davanti a loro, una luna crescente. Ma appena la superstrada curvò, si accorse che non era la Luna, ma il riflesso delle luci della città. Las Vegas era una piscina sfavillante in una conca piatta, in mezzo alle montagne. Suo malgrado, Poppy provò un senso di eccitazione. Aveva sempre desiderato vedere il mondo. Luoghi lontani. Terre esotiche. E sarebbe stato perfetto – se solo James fosse stato con lei. Più da vicino, tuttavia, la città non era affatto quella gemma che si vedeva risplendere da lontano. Ash uscì dalla superstrada, e Poppy si trovò in un mondo di colori, luci e movimento – e di cattivo gusto. «La Strip», le annunciò Ash. «Sai, dove si trovano tutti i casinò. Non esiste un altro posto come questo». «Ci scommetto», replicò Poppy, guardandosi intorno meravigliata. Su un lato della strada torreggiava un hotel: un’enorme piramide nera con l’ingresso difeso da una sfinge a grandezza naturale, che lanciava raggi laser dagli

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occhi. Sull’altro lato uno squallido motel che esibiva l’insegna «Camere a 18 dollari». «Così questo è il Mondo delle Tenebre», disse con una punta di divertito cinismo che la fece sentire molto adulta. «Ma no, questo è per i turisti», disse Ash. «Ma rende bene e ti offre tante occasioni di divertimento. Ti mostrerò anche il vero Mondo delle Tenebre, comunque. Prima, voglio fare un salto dalle mie cugine». Poppy considerò l’idea di dirgli che non voleva che lui le facesse conoscere il Mondo delle Tenebre. Qualcosa nel modo di fare di Ash cominciava a infastidirla. Si comportava come se fossero al loro primo appuntamento e non come se la stesse accompagnando verso l’esilio. Ma è l’unica persona che conosco qui, realizzò Poppy con un deprimente senso di vuoto allo stomaco. E non aveva denaro o altro con sé – nemmeno diciotto dollari per quel sordido motel. E c’era qualcosa di più grave. Ormai era da un po’ che aveva fame, e cominciava a mancarle il respiro. Ma adesso non era quell’animale trasformato e irriflessivo che era stata la sera prima. Non voleva attaccare nessun essere umano lungo la strada. «Siamo arrivati», le comunicò Ash. Erano in una traversa buia, non certo affollata come la Strip. Fermò la macchina in un vicolo. «Ok, fammi solo controllare che siano in casa».

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Su entrambi i lati si ergevano edifici con i muri in laterizio. In alto, un intrico di cavi elettrici oscurava il cielo. Ash bussò a una porta incassata nel muro – una porta senza manopola esterna. Non c’era alcuna targa, solo graffiti rozzamente tracciati con lo spray. Rappresentavano una dalia nera. Poppy fissò un cassonetto e tentò di gestire il proprio respiro. Inspira, espira. Lentamente e profondamente. Ok, l’aria c’è. Forse non sembra, ma l’aria c’è. La porta si aprì e Ash le fece cenno di avvicinarsi. «Questa è Poppy», la presentò, cingendola con un braccio, mentre la ragazza entrava con passo incerto. Il locale aveva l’aria di un negozio – erbe, candele e cristalli. E un sacco di altre strane cose che Poppy non riconobbe. Articoli per streghe. «E queste sono le mie cugine. Lei è Blaise, e questa è Thea». Blaise era una bellissima ragazza piena di curve e con una massa di capelli neri. Thea era più snella e bionda. Le loro figure continuavano a confondersi, la vista di Poppy era sempre più annebbiata. «Salve», disse, il saluto più cordiale che riuscì a imbastire. «Ash, cosa c’è che non va? Sembra che stia male. Cosa le hai fatto?». Thea stava guardando Poppy con gli occhi castani pieni di comprensione. «Eh? Niente», rispose Ash, sorpreso, come se avesse notato lo stato di Poppy solo in quel momento. Poppy

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immaginò che non dovesse essere uno che si preoccupava per il disagio altrui. «Ha fame, suppongo. Dovremo fare una scappata fuori e nutrirci…». «Oh, no, non è possibile. Non qui vicino. Per di più, non credo che possa farcela», disse Thea. «Andiamo, Poppy. Farò la donatrice, per questa volta». Prese Poppy per un braccio e la condusse dietro una tenda di perline, in un’altra stanza. Poppy si lasciò guidare. Non riusciva più a pensare – e aveva la mascella superiore dolorante. Persino la parola nutrire le stimolava i canini. Ho bisogno… devo… Ma non sapeva come. Vide la propria immagine confusa, riflessa nello specchio: occhi argentei e feroci canini. Non voleva trasformarsi di nuovo in un animale e saltare alla gola di Thea. E non poteva chiederle cosa doveva fare – si sarebbe tradita come neovampiro. Rimase in piedi, tremante, incapace di muoversi.

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Capitolo 15 «Andiamo, è tutto a posto», la incoraggiò Thea. Dimostrava la stessa età di Poppy, ma aveva un modo di fare accorto e garbato che le conferiva una certa autorità. «Siediti. Qui». Fece accomodare Poppy su un logoro divano e le offrì il polso. Poppy lo fissò per un istante e poi si ricordò. James le aveva dato il proprio sangue dal polso. Ecco come si faceva. In modo amichevole e civile. Individuò le vene di un pallido azzurro sotto la pelle. E quella vista spazzò via ogni esitazione. L’istinto prese il sopravvento, e afferrò il braccio di Thea. Poi si accorse che stava bevendo. Calda dolcezza salata. Vita. Sollievo dal dolore. Era così buono che avrebbe voluto gridare dalla gioia. Non c’era da stupirsi che i vampiri odiassero gli umani, pensò vagamente. Gli umani non dovevano cacciare per procurarsi questo delizioso alimento; ne erano già pieni. Ma – fece notare un’altra parte della sua mente – Thea non era un’umana. Era una strega. Strano, perché il suo sangue aveva proprio quel sapore. Ogni senso di Poppy era pronto a confermarlo.

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Quindi le streghe sono umane, ma umane con speciali poteri, concluse Poppy. Interessante. Dovette sforzarsi per mantenere il controllo e capire quando fermarsi. Ma ci riuscì. Lasciò andare il polso di Thea e si appoggiò allo schienale, lievemente imbarazzata, leccandosi le labbra e i denti. Non aveva il coraggio di incontrare lo sguardo di Thea. Solo allora si rese conto di aver protetto i propri pensieri per tutto il tempo. Non aveva creato una comunicazione mentale, come era accaduto con James quando si erano scambiati il sangue. Così era già riuscita a controllare un potere da vampiro. Più in fretta di quanto James o Ash potessero prevedere. E adesso si sentiva bene. Così piena di energia da aver voglia di esibirsi nella danza popolare olandese. Abbastanza sicura di sé da sorridere a Thea. «Grazie», le disse. Le sorrise a sua volta, come se trovasse Poppy stravagante o bizzarra, ma simpatica. Non sembrò avere sospetti. «Non c’è di che», disse, piegando il polso e accennando una smorfia. Per la prima volta Poppy fu in grado di guardarsi intorno. La stanza aveva più l’aria di un soggiorno che del retro di un negozio. Accanto al divano c’erano un televisore e varie sedie. All’estremità opposta, un tavolo con candele e bastoncini d’incenso che bruciavano.

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«Questa è la sala per la didattica», spiegò Thea. «È qui che la nonna fa gli incantesimi e permette agli studenti di assistere». «E dall’altra parte c’è il negozio», azzardò cautamente Poppi, non volendo esporsi troppo. Thea non parve sorpresa. «Sì. Forse penserai che non ci siano abbastanza streghe in circolazione per mandare avanti un negozio, ma in realtà vengono da tutto il Paese. Nonna è famosa. E i suoi studenti comprano un sacco di roba». Poppy annuì, mostrandosi giustamente colpita. Non osò porre altre domande, ma quel senso di freddo che provava nel cuore si attenuò un pochino. Non tutti i membri del Popolo delle Tenebre erano sgradevoli e malvagi. Sentì che avrebbe potuto diventare amica di quella ragazza, se ne avesse avuto l’opportunità. Forse sarebbe riuscita a sopravvivere nel Mondo delle Tenebre, dopo tutto. «Be’, grazie ancora», mormorò a bassa voce. «Non dirlo neanche. Ma non lasciare che Ash ti faccia esaurire le energie fino a questo punto. Lui è così irresponsabile». «Così mi offendi, Thea. Davvero», s’intromise Ash. Si era materializzato sulla soglia, sollevando i fili di perle della tenda con una mano. «Ma a proposito, anche io mi sento un po’ fiacco…». Inarcò le sopracciglia con aria sorniona.

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«Va a farti un bagno nel Lago Mead, Ash», replicò dolcemente Thea. Ash assunse un’espressione innocente e desiderosa. «Solo un morsetto. Uno spuntino. Un sorso», insistette. «Hai una gola così deliziosamente bianca…». «Chi?», disse Blaise, aprendosi un varco nell’altra metà della tenda. A Poppy parve che avesse parlato solo per attirare l’attenzione su di sé. Si fermò al centro della stanza e mosse i lunghi capelli neri, con l’aria di una ragazza abituata a essere ammirata. «Entrambe», precisò galantemente Ash. Poi parve ricordarsi della presenza di Poppy. «E, naturalmente, questa piccola sognatrice è tutta deliziosamente bianca». Il sorriso di Blaise si trasformò in un’espressione ostile. Fissò Poppy, a lungo e attentamente. Con avversione – e qualcos’altro. Sospetto. Crescente sospetto. Poppy lo sentì. I pensieri di Blaise erano luminosi, taglienti e infidi, come aguzzi cocci di vetro. All’improvviso Blaise sorrise di nuovo e si rivolse ad Ash: «Immagino che siate venuti per la festa», disse. «No. Quale festa?». La ragazza sospirò in un modo che fece risaltare l’ampia scollatura della blusa. «La festa del solstizio, naturalmente. Thierry darà un grande party. Ci saranno tutti».

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Ash parve tentato. Nella fioca luce della sala di didattica i suoi occhi brillarono in modo sinistro. Scosse la testa. «No, non faremo in tempo. Mi spiace. Ho intenzione di mostrare la città a Poppy». «Be’, potete venire al party più tardi. Andrà avanti sicuramente fin dopo la mezzanotte». Blaise stava fissando Ash con una strana insistenza. Il giovane si morse un labbro, poi scosse di nuovo la testa e sorrise. «Be’, forse», disse. «Vedrò come si mettono le cose». Poppy intuì che le sue parole nascondevano altri significati. Un messaggio inespresso sembrò correre tra lui e Blaise. Ma non era telepatico, e Poppy non potè coglierlo. «Ok, divertitevi, disse Thea, e rivolse a Poppy un rapido sorriso mentre Ash la accompagnava fuori. Ash scrutò la Strip che si allungava davanti a loro. «Se ci sbrighiamo potremo assistere all’eruzione del vulcano», disse. Poppy gli diede un’occhiata, ma non approfondì l’argomento. Invece, gli domandò: «Cos’è la festa del solstizio?» «Il solstizio d’estate. Il giorno più lungo dell’anno. È un giorno di festa per il Popolo delle Tenebre. Come il Giorno della Marmotta per gli umani». «Perché?»

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«Oh, lo è da sempre. Ha qualcosa di magico, sai. Ti porterei alla festa, ma sarebbe troppo rischioso. Thierry è un vampiro Anziano». Poi aggiunse: «Ecco il vulcano». Era un vulcano. Di fronte all’hotel. Cascate d’acqua scrosciavano lungo i suoi fianchi e luci rosse balenavano fuori dal cono. Ash parcheggiò in doppia fila. «Da qui avremo un’ottima vista», disse. «Comodi come a casa». Il vulcano cominciò a brontolare. Davanti agli occhi increduli di Poppy, una colonna di fuoco schizzò fuori dal cratere. Fuoco vero. Poi le cascate s’incendiarono. Fiamme rosse e oro si allungarono lungo i fianchi di roccia nera, riempiendo il lago che circondava la base del cono. «Esaltante vero?», sussurrò Ash, molto vicino all’orecchio di Poppy. «Be’, è…». «Emozionante?», continuò a chiedere. «Stimolante? Travolgente?». Il suo braccio si stava insinuando sulle spalle di Poppy, e la voce era dolcemente ipnotica. Poppy non disse nulla. «Sai», mormorò Ash, «vedrai molto meglio se ti sposti da questa parte. Non mi dà fastidio se ci stringiamo». Il braccio la stava spingendo gentilmente, ma inesorabilmente, più vicino a lui. Il suo respiro le arruffò i capelli. Poppy gli diede una violenta gomitata nello stomaco.

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«Ehi!», gemette il ragazzo. Gli ho fatto male, pensò Poppy. Bene. Ritirò il braccio e le rivolse uno sguardo addolorato. «Perché l’hai fatto?» «Perché mi andava», disse Poppy senza mezzi termini. Fremeva di sangue nuovo ed era pronta a combattere. «Senti, Ash, non cosa ti abbia fatto pensare che io sia la tua ragazza. Ma toglitelo subito dalla testa». Ash piegò il capo e fece un sorriso sgradevole. «È solo perché non mi conosci abbastanza», suggerì. «Quando ci conosceremo meglio…». «No. Mai. Non m’interessano gli altri ragazzi. Se non posso avere James…». Dovette interrompersi per controllare la voce. «Non voglio nessun altro», disse apertamente. «Nessuno». «Be’, non adesso, forse, ma…». «Mai». Non sapeva come spiegare quel che provava. Poi ebbe un’idea. «Conosci il principio dell’anima gemella?». Ash aprì la bocca e poi la richiuse. La riaprì ancora: «Oh, no. Non quelle fesserie». «Sì. James è la mia anima gemella. Mi spiace se ti sembra stupido, ma è la verità». Il ragazzo si portò una mano alla fronte e cominciò a ridere. «Stai dicendo sul serio». «Sì». «Ed è la tua ultima parola».

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«Sì». Rise ancora, sospirò e alzò gli occhi al cielo. «Ok. Ok. Avrei dovuto saperlo». Continuò a ridacchiare, con una sfumatura di autoderisione. Poppy si sentì sollevata. Aveva temuto che si sarebbe sentito offeso o contrariato – o che si sarebbe comportato in modo ignobile. Nonostante il suo fascino, Poppy avvertiva in lui una sorta di freddezza nascosta sotto la superficie, come un fiume ghiacciato. Ma adesso sembrava di buon umore. «Ok», disse. «Allora se le relazioni amorose non sono nel menù, andiamo alla festa». «Credevo che avessi detto che era troppo rischioso». Agitò una mano. «Era una piccola bugia. Per averti tutta per me». La guardò di sottecchi. «Scusa». Poppy esitò. Non ci teneva ad andare a quel party. Ma non voleva neanche restare sola con Ash. «Forse potresti riaccompagnarmi dalle tue cugine». «Saranno uscite», disse. «Sono sicuro che ormai sono andate al party. Oh, andiamo, sarà divertente. Concedimi l’opportunità di farmi perdonare». Sottili volute di inquietudine si stavano agitando dentro Poppy. Ma Ash sembrava così pentito e convincente… e poi, aveva forse altra scelta? «Ok», disse alla fine. «Ma solo per poco». Ash le rivolse un sorriso abbagliante. «Solo per poco», confermò.

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«Quindi potrebbero essere ovunque lungo la Strip», disse James. Thea sospirò. «Mi spiace. Avrei dovuto capire che Ash stava architettando qualcosa. Ma portarti via la ragazza…». Alzò le mani, scandalizzata. «Per quel che vale, lei non sembrava particolarmente coinvolta. Se Ash aveva in mente di provarci, riceverà una bella sorpresa». Sì, pensò James, e la riceverà anche lei. Poppy serviva al cugino solo finchè lui pensava di poter giocare con lei. Una volta resosi conto che non poteva… Non volle fermarsi a pensare a cosa sarebbe accaduto. Una breve visita all’Anziano più vicino, suppose. Il cuore gli martellava nel petto, e aveva un fastidioso ronzio nelle orecchie. «Blaise è andata con loro?», domandò. «No, è andata alla festa del solstizio. Ha cercato di convincere Ash, ma lui ha detto che voleva mostrare la città a Poppy». Si fermò a riflettere, alzando un dito. «Aspetta – potresti dare un’occhiata al party. Ash ha detto che forse ci avrebbe fatto un salto più tardi». James indugiò un altro istante, imponendosi di respirare. Poi riprese, con estrema gentilezza: «E chi dà questo party?» «Thierry Descouedres. Organizza sempre una grande festa per l’occasione». «Ed è un Anziano». «Come?»

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«Niente. Non importa». James si avviò all’uscita. «Grazie per l’aiuto. Ti farò sapere». «James…». Lo guardò con un senso di impotenza. Vuoi entrare e sederti per un po’. Non hai una bella cera…». «Sto bene», la rassicurò, già fuori dalla porta. Appena risalito in macchina, disse: «Ora puoi tirarti su». Phillip emerse da sotto il sedile posteriore. «Cos’è successo? Sei stato via un sacco di tempo». «Credo di sapere dove si trova Poppy». «Credi?» «Sta’ zitto, Phil». Non aveva energia per litigare. Era interamente concentrato su Poppy. «Ok, allora dov’è?». James rispose soppesando ogni parola. «Adesso è, o ci andrà più tardi, a un party. Una festa in grande, piena di vampiri. E vi parteciperà almeno un Anziano. Il luogo ideale per denunciarla». Phil restò senza fiato. «E tu pensi che Ash abbia intenzione di andarci?» «So che Ash ha intenzione di andarci». «Allora dobbiamo fermarlo». «Forse è troppo tardi».

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Era uno strano party. Poppy si stupì nel vedere quanto fossero giovani gli invitati. C’erano solo pochi, sporadici adulti, e molti adolescenti. «Trasformati in vampiri», si premurò di spiegarle Ash. Poppy ricordò quel che le aveva detto James: chi viene trasformato in vampiro conserverà sempre l’età che aveva al momento della morte, mentre le lamie possono smettere di invecchiare in qualsiasi momento. Allora James avrebbe potuto crescere finchè avesse voluto, mentre lei sarebbe rimasta per sempre una sedicenne. Non che avesse importanza. Se volevano vivere insieme, potevano restare entrambi giovani – a meno che lui non desiderasse altrimenti. Ma era curioso vedere un tipo che dimostrava diciannove anni parlare seriamente con un ragazzino che ne poteva avere quattro. Il piccolo era adorabile, con lucidi capelli neri e occhi leggermente allungati, ma nella sua espressione c’era qualcosa di innocente e di crudele allo stesso tempo. «Vediamo, quella è Circe. Una strega rinomata. E quella è Sekhmet, una mutaforma. Ti consiglio di non farla arrabbiare», disse allegramente Ash. Lui e Poppy erano in una piccola anticamera, che si affacciava sulla sala principale della casa, situata più in basso. Più che una casa, era un vero e proprio palazzo: era la più sfarzosa residenza privata che Poppy avesse mai visto – ed era stata a Bel Air e a Beverly Hills.

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«Ok», commentò distrattamente Poppy, guardando nella direzione indicatale. Vide due ragazze alte e avvenenti, ma non capì chi fosse una e chi l’altra. «E quello è Thierry, il nostro ospite. È un Anziano». Un Anziano? Il tipo che Ash le stava indicando non dimostrava più di diciannove anni. Era splendido, come tutti i vampiri, alto e biondo, e meditabondo. Aveva un’aria malinconica. «Quanti anni ha?» «Oh, l’ho dimenticato. Fu morso da una mia antenata tanto tempo fa. Risale al tempo delle caverne». Poppy pensò che stesse scherzando. Ma forse no. «Cosa fanno di preciso gli Anziani?» «Fissano le regole. E badano che la gente le rispetti. Un inquietante sorriso aleggiò sulle labbra di Ash quando si girò a guardare Poppy. Con gli occhi neri di un serpente. Poppy indietreggiò prontamente. Ma Ash la seguì, con altrettanta rapidità. La ragazza vide una porta sul lato opposto dell’anticamera e si diresse da quella parte. La aprì e si trovò su un terrazzo. Con un’occhiata valutò l’altezza rispetto al suolo. Ma prima che potesse fare un’altra mossa, Ash l’aveva afferrata per un braccio. Non lottare ancora, fu il consiglio disperato della sua mente. Lui è forte. Aspetta un’occasione favorevole.

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Riuscì a calmarsi un pochino e affrontò lo sguardo misterioso di Ash. «Mi hai portata qui». «Sì». «Per consegnarmi». «Sì». Le sorrise. «Ma perché?». Ash reclinò la testa e rise. Una risata piacevole, melodiosa, che procurò a Poppy un senso di nausea. «Tu sei un’umana», disse. «O dovresti esserlo. James non avrebbe mai dovuto fare quel che ha fatto». Il cuore le batteva all’impazzata, ma la mente era stranamente lucida. Forse aveva sempre intuito quali fossero le vere intenzioni di Ash. Forse era addirittura la cosa giusta da fare. Se non poteva vivere con James né con la propria famiglia, che importanza aveva tutto il resto? Desiderava realmente far parte del Mondo delle Tenebre, se era pieno di gente come Blaise e Ash? «Quindi non ti’importa niente di James», concluse. «Sei disposto a metterlo in pericolo pur di liberarti di me». Ash considerò le sue parole, poi fece un ampio sorriso: «James sa badare a se stesso», commentò. Era quella l’unica filosofia di Ash. Ognuno bada a se stesso, e nessuno aiuta gli altri.

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«E anche Blaise ne era al corrente», dedusse Poppy. «Sapeva cosa avevi intenzione di fare e non gliene importava nulla». «Poche cose toccano Blaise», disse Ash. Stava per aggiungere qualcos’altro, quando Poppy capì che era quella l’occasione favorevole. Gli diede un calcio, forte, e simultaneamente si girò cercando di scavalcare la ringhiera del terrazzo. «Resta qui», disse James a Phil, prima ancora di fermare la macchina. Erano davanti a un’imponente casa signorile circondata da palme. James spalancò la portiera, ma si prese tempo per ripetere all’amico: «Resta qui. Qualunque cosa accada, non entrare in quella casa. E se qualcuno che non sia io si accosta alla macchina, metti in moto e vattene». «Ma…». «Fallo e basta, Phil! Se non vuoi scoprire di persona cosa sia la morte – stasera». James si lanciò in una corsa folle. Era troppo assorto nei propri pensieri per sentire il rumore di una portiera che si apriva dietro di lui. «E dire che sembravi una ragazza così delicata», boccheggiò Ash. Le aveva bloccato le braccia dietro la schiena e stava tentando di tenersi fuori dalla portata dei suoi calci. «No, no. Adesso smettila».

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Era troppo forte per lei. Non c’era niente che Poppy potesse fare. A poco a poco la stava trascinando indietro nell’anticamera. Tanto vale che ti arrendi, le consigliò la mente. È inutile. Sei spacciata. S’immaginò l’intera scena: trascinata al cospetto di tutti quegli eleganti e attraenti esponenti del Popolo delle Tenebre, e smascherata. Immaginò i loro occhi impietosi. Quel tipo dall’aria malinconica le sarebbe andato vicino e il suo volto avrebbe perso quell’aria triste e pensierosa. Sarebbe diventato crudele. I denti allungati, un balenio argenteo negli occhi. Poi avrebbe ringhiato – e colpito. E sarebbe stata la fine di Poppy. Forse non era quella la procedura, forse nel Mondo delle Tenebre giustiziavano in altro modo i criminali. Ma non sarebbe stato piacevole comunque. “Ma non vi renderò il compito facile!”, pensò Poppy. Lo comunicò alla mente di Ash, scaricandogli addosso tutta la propria rabbia, il dolore e la perfidia. Istintivamente. Come un ragazzino che fa le bizze e grida. Ma ottenne un effetto che di solito le grida non raggiungono. Ash sussultò, perdendo quasi la presa sulle sue braccia. Fu solo un cedimento momentaneo, ma diede a Poppy il tempo di spalancare gli occhi per la sorpresa. L’ho ferito! L’ho ferito!

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Nello stesso istante smise di divincolarsi. Concentrò tutte le proprie energie in un’esplosione mentale. Un pensiero-bomba. LASCIAMI, MALEDETTO VISCIDO VAMPIRO! Ash barcollò. Poppy ritentò, questa volta convogliando nel proprio pensiero la forza del getto d’acqua di una manichetta, di corrente d’aria d’alta quota… LASCIAMIIIIIIII! Il vampiro mollò la presa. Poi, mentre Poppy esauriva le energie, fece un goffo tentativo di riacciuffarla. «Non credo sia una buona idea», disse una voce dura come l’acciaio. Poppy guardò nell’anticamera e vide James. Il cuore le balzò nel petto e poi, senza neanche accorgersene, era fra le sue braccia. Oh, James, come sei riuscito a trovarmi? Ma lui continuava a ripeterle: Stai bene? «Sì», disse alla fine Poppy ad alta voce. Era una gioia indescrivibile essere di nuovo insieme a lui, sentire il calore del suo abbraccio. Era come risvegliarsi da un incubo e trovarsi davanti agli occhi il volto sorridente della mamma. Nascose il viso sul petto del ragazzo. «Sei sicura di stare bene?» «Sì, sì». «Perfetto. Allora aspetta un attimo che elimino questo bastardo e poi andiamo».

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Era assolutamente serio. Poppy percepì la sua determinazione in ogni pensiero, in ogni muscolo e tendine del suo corpo. Voleva ucciderlo. Sollevò la testa al suono della risata di Ash. «Bene, dovrebbe essere una bella gara, comunque», disse. No, pensò Poppy. Ash era infido e pericoloso, e di pessimo umore. E anche se James l’avesse battuto, sarebbe rimasto ferito. Anche se lei avesse combattuto a fianco di James, non ne sarebbe uscito illeso. «Andiamocene», suggerì a James. «Subito». Aggiunse in silenzio: Credo che voglia trattenerci qui finchè non intervenga qualcuno degli invitati. «No, no», disse Ash, con una sfumatura di gioia maligna nella voce. «Sistemiamo la faccenda fra vampiri». «Direi di no», ansimò una voce familiare. Poppy girò di scatto la testa. A cavallo della ringhiera del terrazzo, impolverato ma trionfante, c’era Phil. «Ascolti mai quel che ti si dice?», lo apostrofò James. «Bene, bene», disse Ash. «Un umano nella casa di un Anziano. Che cosa ne faremo?» «Senti, amico», disse Phil, ancora senza fiato, pulendosi le mani. «Non so chi sei né su quale cavallo hai puntato. Ma è mia sorella quella su cui hai messo le mani addosso, e quindi ho tutto il diritto di romperti la faccia». Seguì una pausa in cui Poppy, James e Ash rimasero a guardarlo. La pausa si protrasse. Poppy avvertì un im-

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provviso, irrefrenabile impulso di scoppiare a ridere. E si reso conto che James stava cercando disperatamente di soffocare una risata. Ash esaminò Phil dalla testa ai piedi, poi lanciò un’occhiata di traverso a James. «Questo ragazzo capisce qualcosa di vampiri?», volle sapere. «Oh, ma certo», rispose soavemente James. «E vuole spaccarmi la faccia?» «Già», intervenne Phil, e fece scrocchiare le dita. «Cosa c’è di così sorprendente?». Ci fu un’altra pausa. Poppy sentì che James era scosso da impercettibili fremiti. Risate represse. Alla fine James disse, in tono meravigliosamente serio: «Phil diventa molto suscettibile quando gli toccano la sorella». Ash tornò a guardare Phil, poi James, e infine Poppy. «Be’… voi siete in tre», disse. «Già, siamo in tre», ripetè James, adesso realmente serio. Spietato. «Quindi suppongo di essere in svantaggio. D’accordo, mi arrendo». Alzò le mani in segno di resa. «Coraggio, filate. Non combatterò». «E non ci denuncerai», aggiunse James. Non era una semplice domanda. «Non ne avevo comunque intenzione», disse Ash producendosi nella sua espressione più candida e ingenua. «So che credi che io abbia portato qui Poppy per sma-

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scherarla, ma non mi sarei mai spinto fino a questo. Mi stavo solo divertendo. Era tutto uno scherzo». «Oh, ma certo», disse Phil. «Risparmiati le menzogne», disse James. Ma Poppy, stranamente, non era così sicura. Continuava a guardare i grandi occhi di Ash – i suoi grandi occhi viola – e sentì il dubbio agitarsi irrequieto dentro di sé. Era difficile capire Ash, lo era stato fin dall’inizio. Forse perché voleva sempre dire proprio quel che aveva detto – o forse perché non voleva mai dire quel che aveva detto. In ogni caso, era la persona più irritante, frustrante, impossibile che avesse mai incontrato. «Ok, adesso ce ne andiamo», disse James. «Attraverseremo tranquillamente questa piccola stanza e il salone giù in basso, e non ci fermeremo per nessun motivo – Phillip. A meno che tu non preferisca tornare per la strada da cui sei venuto», aggiunse. Phil scosse la testa. James strinse di nuovo a sé Poppy, poi si voltò a guardare Ash. «Sai, tu non hai mai voluto veramente bene a nessuno», disse al cugino. «Ma un giorno ti capiterà, e soffrirai. Soffrirai – molto». Ash gli restituì lo sguardo, e Poppy non lesse nulla nei suoi occhi mutevoli. Ma appena James si voltò per andarsene, gli disse: «Penso che tu sia un pessimo profeta. Ma

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la tua ragazza invece se la cava molto bene. Forse un giorno vorrai chiederle dei suoi sogni». James si immobilizzò, accigliato. «Come?» «E tu, piccola sognatrice, forse dovresti esaminare bene il tuo albero genealogico. Hai un urlo veramente acuto». Le rivolse un sorriso affascinante. «Addio per ora.» James rimase fermo qualche minuto a fissare il cugino, che sostenne tranquillamente il suo sguardo. Poppy contò i battiti del proprio cuore mentre i due giovani si scrutavano, immobili. Poi James si scosse lievemente e guidò Poppy verso l’anticamera. Phil li seguì a ruota. Uscirono dalla casa con estrema calma. Nessuno cercò di fermarli. Ma Poppy non si sentì al sicuro finchè non furono in strada. «Cosa voleva dire con quell’uscita sul tuo albero genealogico?», le domandò Phil dal sedile posteriore. James gli lanciò uno strano sguardo, e gli rispose con una domanda. «Phil, come sapevi dove trovare Poppy dentro quella casa? L’avevi vista sul balcone?» «No, l’ho sentita urlare». Poppy si girò a guardare il fratello. James chiese ancora: «Che hai sentito?» «L’urlo. L’urlo di Poppy. “Lasciami, maledetto viscido vampiro”».

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Poppy si rivolse a James. «Lui è stato in grado di sentirlo? Pensavo di urlare contro Ash. L’hanno sentito tutti alla festa?» «No» «Ma allora…». James la interruppe. «Di quale sogno parlava Ash?» «Un sogno che ho fatto», rispose Poppy, sconcertata. «L’ho segnato prima di incontrarlo di persona». L’espressione sul volto di James si fece davvero strana. «Oh, davvero?» «Sì, James, di cosa si tratta? Cosa voleva dire, perché dovrei esaminare il mio albero genealogico?» «Voleva dire che tu – e Phil – non siete umani, in fin dei conti. Da qualche parte, fra i vostri antenati, c’è una strega».

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Capitolo 16 «Ma stai scherzando?», disse Poppy. Phil era rimasto a bocca aperta. «No, sono perfettamente serio. Sei una strega del secondo tipo. Ricordi quel che ti ho detto?» «Esistono streghe che sono consapevoli del loro retaggio e vengono istruite – e quelle che non lo sono. Che hanno comunque dei poteri. E gli umani le chiamano…». «Sensitive!», disse James, in coro con Poppy. «Soggetti telepatici. Chiaroveggenti», proseguì da solo. La voce sospesa tra il pianto e il riso. «Poppy, tu sei così. Per questo hai imparato così presto la telepatia. Per questo hai avuto sogni premonitori». «E per questo Phil mi ha sentita», aggiunse Poppy. «Oh, no», disse Phil. «Io no, dai». «Phil, voi siete gemelli», intervenne James. «Avete gli stessi antenati. Guarda in faccia la realtà, sei uno stregone. Ecco perché non riuscivo a controllare la tua mente». «Oh, no», ripetè Phil. «No». Si abbandonò contro lo schienale del sedile. «No», disse ancora, ma con meno convinzione.

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«Ma da quale linea genealogica l’abbiamo ereditato?», si chiese Poppy. «Da quella di papà. Senza dubbio». La voce proveniente dal sedile posteriore suonò molto fiacca. «Be’, sembrerebbe logico, ma…». «È la verità. Non ti ricordi che papà raccontava sempre che vedeva cose strane? Che sognava qualcosa prima che accadesse? E, Poppy, ti ha sentito gridare nel tuo sogno. Quando stavi chiamando James. James ti ha sentita, anche io, e anche papà». «Questo conferma tutto. Oh, e spiega altre cose riguardo alla nostra famiglia – tutte le volte che abbiamo avuto sensazioni, intuizioni, cose così. Persino tu hai delle intuizioni, Phil». «Sentivo che James nascondeva qualcosa di raccapricciante, e avevo ragione». «Phil…». «E forse anche in altre circostanze», continuò Phil preso dal discorso. «Questo pomeriggio ho sentito che era James che stava arrivando in auto. Pensavo di avere semplicemente un buon orecchio per i motori». Poppy fremeva di gioia e di stupore, ma non riusciva a comprendere James: il vampiro era assolutamente raggiante. Pieno di incredula euforia, che Poppy avvertiva nell’aria come un volo di stelle filanti e fuochi d’artificio. «Che c’è, James?»

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«Poppy, non capisci?». James battè le mani sul volante, entusiasta. «Significa che anche prima di diventare un vampiro, tu eri una Creatura delle Tenebre. Una strega non dichiarata. Hai tutto il diritto di conoscere il Mondo delle Tenebre. Vi appartieni». Il mondo si era capovolto e Poppy non riusciva a respirare. Alla fine sussurrò: «Oh…». «E vi apparteniamo entrambi. Nessuno può separarci. Non dobbiamo più nasconderci». «Oh…», sussurrò di nuovo Poppy. Poi disse: «James, accosta la macchina. Voglio darti un bacio». Quando furono ripartiti, Phil chiese: «Ma dove andrete, adesso? Poppy non può venire a casa». «Lo so», disse Poppy a bassa voce. Ormai se ne era fatta una ragione. Per lei non c’era più ritorno; la vecchia vita era finita. Non c’era altro da fare che costruirne una nuova. «E non potete vagabondare da un luogo all’altro», continuò Phil, con tenace insistenza. «Non lo faremo», replicò Poppy tranquillamente. «Andremo da papà». Era perfetto. Poppy sentì James che pensava. Ma certo. Sarebbero andati da lui, il padre sempre in ritardo, sempre privo di senso pratico, sempre affettuoso. Suo padre: lo stregone che non sapeva di esserlo. Che proba-

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bilmente pensava di essere pazzo quando i suoi poteri si manifestavano. Avrebbe offerto loro un posto dove stare, e questo era tutto quello di cui avevano bisogno. Di questo, e di stare insieme. L’intero Mondo delle Tenebre si sarebbe aperto davanti a loro, ogni volta che avessero voluto esplorarlo. Forse sarebbero tornati a far visita a Thea. Forse avrebbero ballato a una delle feste di Thierry. «Cioè, se riusciamo a trovare papà», precisò Poppy, improvvisamente allarmata. «Certo che puoi», la rassicurò Phil. «Ieri sera è ripartito in aereo, ma ha lasciato un indirizzo. Per la prima volta». «Forse in qualche modo l’aveva previsto», commentò James. Il viaggio proseguì per un po’ in silenzio, poi Phil si schiarì la gola e disse: «Sentite, ho pensato una cosa. Non voglio aver niente a che fare con il Mondo delle Tenebre, capite – non m’importa quale sia il mio retaggio. Voglio solo vivere la mia vita umana – e voglio che sia chiaro a tutti…». «Per noi è chiaro, Phil», lo interruppe James. «Credimi. Nessuno nel Mondo delle Tenebre ha intenzione di costringerti a farne parte. Puoi vivere da umano purchè eviti il Popolo delle Tenebre e tieni la bocca chiusa». «Ok. Perfetto. Ma ecco cosa ho pensato. Ancora non approvo i vampiri, ma mi è passato per la mente che

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forse non tutti sono così malvagi come sembrano. Voglio dire, i vampiri non trattano il loro cibo peggio degli umani. Se pensi a quel che facciamo alle vacche… almeno i vampiri non allevano gli uomini in recinti». «Non ci scommetterei», disse James, di colpo serio. «Ho sentito voci sui tempi andati…». «Devi sempre fare obiezioni, eh? Ma ho pensato anche che siete parte della Natura, e la Natura non si può cambiare. Non è sempre gradevole, ma… bè, è la Natura, e non c’è altro da dire». Concluse con tono mesto. «Forse non ha senso». «Per me sì», disse James, convinto. «E… grazie». Fece una pausa per lanciare un’occhiata di apprezzamento a Phil. Poppy sentì le lacrime bruciarle gli occhi. Se Phil riconosce che siamo parte della Natura, pensò, allora non ci considera più dei mostri. Significava molto per lei. «Bene, sapete», disse Poppy, «anch’io stavo pensando. E mi è venuto in mente che forse esistono altri modi per nutrirsi oltre ad assalire gli umani quando meno se lo aspettano. Gli animali, per esempio. C’è qualche ragione per cui il loro sangue non dovrebbe bastare?» «Non è la stessa cosa del sangue umano», rispose James. «Ma è una possibilità. Io mi sono nutrito da animali. Il cervo è buono. Il coniglio discreto. L’opossum è disgustoso».

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«E poi ci sono alcune persone disposte a prestarsi come donatori. Thea lo ha fatto per me. Potremmo chiedere al altre streghe». «Forse», disse James. D’un tratto sorrise. «Ho conosciuto una strega, in città, che era estremamente disponibile. Si chiama Gisèle. Ma non puoi chiederglielo ogni giorno, sai. Devi lasciare al donatore il tempo per riprendersi». «Lo so, ma forse potremmo alternare. Un giorno animali e un altro streghe. Ehi, magari licantropi nei finesettimana!» «Piuttosto morderei un opossum», commentò sarcastico James. Poppy gli diede un pugno sul braccio. «Il punto è che forse non dobbiamo essere per forza orribili mostri succhiasangue. Forse possiamo essere rispettabili mostri succhiasangue». «Forse», replicò calmo James, con una punta di malinconia. «Senti, senti», si intromise Phil dal sedile posteriore. «E possiamo farlo insieme», Poppy disse a James. Il ragazzo distolse gli occhi dalla strada e le sorrise. E non c’era niente di malinconico nel suo sguardo. Né distacco, né mistero, né reticenza. «Insieme», ripetè ad alta voce. E aggiunse mentalmente: Non vedo l’ora. Con i tuoi poteri telepatici – ti rendi conto di quel che potremo fare, vero?

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Poppy lo guardò sbalordita, poi sentì montare dentro di sé un’ondata di gioia effervescente che quasi la fece schizzare fuori dalla macchina. Oh, James – lo pensi davvero? Ne sono certo. L’unica cosa che rende lo scambio del sangue così speciale è il fatto che incrementa la telepatia. Ma tu non hai bisogno di alcun incremento – tu, piccola sognatrice. Poppy si abbandonò sul sedile tentando di calmare i battiti del proprio cuore. Avrebbero potuto ancora unire lo loro menti. Ogni volta che avessero voluto. Già lo immaginava: indugiare nella mente di James, sentendo i loro pensieri abbandonarsi gli uni agli altri. Fondersi come due gocce d’acqua. Insieme, in un modo che gli umani non potranno mai conoscere. Anche io non vedo l’ora, gli disse. Credo che essere una strega finirà per piacermi. Phil si schiarì la gola. «Se voi due desiderate un po’ d’intimità…». «Non possiamo averla», ribattè James. «Non con te fra i piedi, ovviamente». «Non posso evitarlo», disse Phil senza mezzi termini. «Siete voi che urlate». «Non stiamo urlando. Sei tu che stai ficcando il naso». «Fatela finita, tutti e due», disse Poppy. Ma si sentì invadere da un’ondata di caldo entusiasmo. Non potè fare

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a meno di aggiungere: «Allora, se sei disposto a concederci un po’ di privacy, vuol dire che ti fidi di lasciare James solo con tua sorella…». «Non ho detto questo». «Non era necessario», disse Poppy. Era felice. Era molto tardi, il giorno dopo. Quasi mezzanotte. L’ora delle streghe. Poppy si trovava in un luogo che pensava non avrebbe mai più rivisto: la stanza di sua madre. James la stava aspettando fuori con il portabagagli carico di roba, compresa una grande valigia piena dei CD di Poppy, consegnati di nascosto da Phil. Entro pochi minuti sarebbero partiti verso la costa orientale, da suo padre. Ma prima, c’era qualcosa che Poppy doveva fare. Scivolò silenziosamente verso il grande letto, silenziosa come un’ombra, per non disturbare i due dormienti. Si fermò accanto alla figura immobile della mamma. Abbassò lo sguardo su di lei e cominciò a parlarle con la mente. So che pensi sia un sogno, mamma. So che non credi negli spiriti. Ma volevo dirti che sto bene. Sto bene e sono felice, e anche se non comprendi, ti prego, cerca di crederci. Solo per questa volta, credi in quel che non puoi vedere.

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Si prese una pausa, poi aggiunse: Ti voglio bene, mamma. Te ne vorrò sempre. Quando lasciò la stanza, la madre era ancora addormentata – e sorrideva. Fuori, Phil la aspettava accanto alla Integra. Poppy lo strinse forte e il fratello restituì l’abbraccio. «Addio», sussurrò, e salì in macchina. James sporse la mano fuori dal finestrino e la tese a Phil, che la strinse senza esitazioni. «Grazie», gli disse James. «Di tutto». «No, grazie a te», sorrise Phil, le labbra scosse da un tremito. «Abbi cura di lei… e di te». Fece un passo indietro, sbattendo le palpebre. Poppy gli mandò un bacio. Poi lei e James si allontanarono insieme nella notte.

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INDICE

p.

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Capitolo 1 Capitolo 2 Capitolo 3 Capitolo 4 Capitolo 5 Capitolo 6 Capitolo 7 Capitolo 8 Capitolo 9 Capitolo 10 Capitolo 11 Capitolo 12 Capitolo 13 Capitolo 14 Capitolo 15 Capitolo 16

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Lisa Jane Smith - La Setta Dei Vampiri - 01 Il Segreto

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